Fa un certo effetto vedere Saverio La Ruina non più nei panni dimessi della donna calabrese vittima di retrive sopraffazioni maschiliste – il ruolo che in questi anni gli ha fruttato premi e consensi – ma inopinatamente passato al fronte opposto, quello del maschio che tormenta e opprime. Fa un certo effetto che un uomo ritenuto fra i più dolci e gentili del teatro italiano riesca a esprimere una ferocia interiore da mettere i brividi. Fa parte del mestiere, si dirà: ma la discesa nei recessi di una mente disturbata che compie in questo caso sembra andare ben oltre il suo notevole exploit interpretativo. Se all’attore- autore poteva essere imputata la scelta di non deviare da una sua strada ormai sicura lui stavolta ribalta ogni prospettiva: aveva portato a perfezione le tecniche del monologo? Ora punta su un dialogo scarno, serrato, in cui lascia ampio spazio alla sua compagna di scena. Aveva creato dei testi di forte spessore emotivo? Ora ha composto una partitura di stati d’animo che ha la gelida oggettività di un referto psichiatrico. Aveva usato l’arcaica potenza del dialetto? Ora si serve di un italiano secco, eco di un contesto asetticamente borghese. Polvere, il suo nuovo spettacolo che ha debuttato all’Elfo Puccini di Milano, non vuole rappresentare una storia dotata di senso compiuto. Anzi, questa storia per certi versi la azzera, la scavalca per porre in luce un puro schema comportamentale, una sorta di gelido diagramma dei rapporti di potere all’interno della coppia, analizzato come in vitro, e quasi con distacco scientifico. Dei due sappiamo poco o nulla, se non che lui esercita una supremazia persecutoria, soffocante, e lei vi si sottomette più o meno passivamente. Polvere non è un testo sul cosiddetto femminicidio, non sfocia nella violenza esplicita o nell’episodio di cronaca nera. Il meccanismo che porta a questi effetti sanguinosi viene colto piuttosto nei suoi passaggi iniziali, viene scomposto nei più minuti dettagli, in una prospettiva quasi minimalista: fin dalla prima serata passata insieme, a casa di amici, l’uomo la informa che si sente disturbato dal fatto che lei si tocca il collo in presenza di altri, che non l’ha presentato come fidanzato ai padroni di casa, che non lo chiama amore, che fuma di nascosto. Lui non la maltratta fisicamente, la sottopone a sinistri interrogatori con metodi da inquisitore anche peggiori di una violenza concreta. Indaga sul suo presente, sul suo passato («Quante volte gli hai detto ti amo»), persino su ciò che ha provato in occasione di un efferato stupro da lei subito anni prima. E quando ha avuto tutte le risposte la osserva poco convinto e freddamente le dice: «ricominciamo daccapo, prenditi il tempo per pensarci». Di tanto in tanto ha momenti di sghemba tenerezza, che risultano però ancor più agghiaccianti e offensivi. A tratti si sorride, me è un sorriso storto, doloroso. Lo spettacolo, d’altronde, non è fatto neppure per suscitare commozione: è un lucido ingranaggio che ha il solo fine di innescare una furiosa reazione di rigetto nei confronti della situazione. A un certo punto si avverte quasi l’impulso di intervenire per strappare la vittima alla sua sorte. Saverio è bravissimo soprattutto nell’inventare dei ghigni ambigui, dei piccoli gesti maniacali come quello di tamburellare nervosamente le dita sullo schienale della sedia. Ma anche l’attrice, Jo Lattari, rivela un eccellente talento nell’evocare lo smarrimento di chi si sente preso in una trappola da cui non riesce a uscire.
All’interno di una personale dedicatagli dall’Elfo di Milano, Saverio La Ruina presenta il suo nuovo e sconvolgente spettacolo. Questa volta non è lo straordinario monologante di sempre, ma si apre al dialogo con Jo Lattari, che collabora anche alla drammaturgia. E supposto che esistano spettacoli che le donne possono capire più a fondo solo per il fatto di essere donne, questo potrebbe essere Polvere – Dialogo tra uomo e donna. Un testo di stupefacente violenza che viaggia su un tappeto di falsa pacatezza, falsa comprensione, falso amore. Un continuo parlare di lui che interroga lei sul passato, sul presente, sulle intenzioni. Percorsi verbali e emozionali viziati dal desiderio di possedere l’altro, una polvere di sadismo verbale che si insinua nell’anima della donna facendola smarrire attonita, colpevolizzata. Lei, che ha subito una violenza da ragazza, fragile, è imprigionata nella rete dell’impotenza mentre lui, freddo, prova piacere e senso di potere dall’auto affermazione
che ne ricava dal distruggere lei. Teoremi psicologici perversi che La Ruina e Lattari svolgono perfettamente sempre sul filo di un’irritante posatezza in questo spettacolo dove lei non ha ecchimosi da coprire, ma invisibili ferite profonde nell’anima divenute piaghe insanabili. Voto 8,5
Saverio La Ruina si rivelò con Disonorata, monologo che ogni tanto riprende ancora, dove dà voce, in una lingua tanto più incisiva quanto meno comprensibile, ad una poveretta messa al bando in una piccola comunità calabrese. L’odierno Polvere, invece, un dialogo, e in italiano neutro. Stavolta la vittima quasi non parla – non è esattamente passiva, ma reagisce come l’uccellino ipnotizzato dal predatore – mentre l’autore-interprete indossa le vesti del carnefice: un testo forte e sottile, che in una serie di brevi quadri segue l’evolversi sempre più inquietante di un rapporto di quelli che di cui leggiamo sui giornali quando sono arrivati ad una conclusione tragica, spesso etichettata come femminicidio. In questi casi la nostra pigra reazione nell’apprendere i fatti è, <<come ha fatto lei a non accorgersi di quanto lui fosse pericoloso – a non tirarsi indietro molto tempo prima?>>.
Be’ ecco come. Lui incontra lei, anzi, l’ha appena incontrata: ed è sollecito, premuroso, affettuoso. Lei non è abituata a ricevere tanta attenzione. Vive e lavora in una città diversa dalla sua, dove non ha molti amici. Ha subito nel passato un’esperienza traumatica che crede di avere superato e che confida a lui nel periodo in cui cercano di conoscersi meglio. Via via che la loro intimità si consolida, lui diventa gradualmente inquisivo, possessivo, infine morbosamente e persino dissennatamente geloso. Dopo averla fatta sentire colpevole per delle sciocchezze che le descrive come mancanze; dopo averla messa a disagio contestandole gesti o atteggiamenti abituali dei quali lei è inconsapevole ma che, le spiega, sarebbero indici di un disagio non superato; dopo averla umiliata dilatando episodi innocenti fino ad accusarla di menzogne e sotterfugi – ma nel frattempo occasionalmente atteggiandosi a sua guida e protettore – finisce per avere in suo potere una creatura spaventata e totalmente succube a quello che a un osservatore esterno può apparire solo sadismo, anche se è stato raggiunto attraverso un percorso ineccepibilmente convincente. Sono 70’ in un crescendo di angoscia, con la terrificante interpretazione di La Ruina ben sostenuta dai silenzi di Cecilia Foti. ****
Riferiti dalle cronache di giornali e televisioni, conosciamo uno per uno tutti i dettagli, pur se minutissimi, dell’esito cruento; ma non sappiamo niente, o quasi, dell’incarnarsi giorno dopo giorno, gesto dopo gesto, parola dopo parola della violenza che porterà a quell’esito, chiamato femminicidio. E il merito di «Polvere», lo spettacolo che Saverio La Ruina presenta alla Galleria Toledo, consiste proprio nel fatto che descrive con precisione addirittura chirurgica gli stadi progressivi di tale incarnarsi. Assai probante appare, nel merito, la sequenza d’avvio. Sono in scena un Lui e una Lei. E mentre Lei si sbraccia leziosa e giuliva sull’onda di «I will survive» cantata da Gloria Gaynor («So che resterò viva / ho tutta la mia vita da vivere»), Lui se ne sta accasciato in terra come un cane bastonato. Sembrerebbe, insomma, che gli tocchi il ruolo della vittima. Ed è appunto quest’immagine ingannevole che, per contrasto, annuncia e sottolinea il vero ruolo di Lui, quello di un carnefice tanto ammantato di debolezze quanto determinato. Perfetto, quindi, risulta Saverio La Ruina nella parte di Lui, perché, insieme con la grande bravura d’attore, ci mette quel suo aspetto innocuo e quella sua faccia indifesa e dolce: assolutamente spiazzanti e urticanti quando poi, per fare un esempio, diventano la maschera di un autentico terzo grado, fra il crudele e il surreale, che investe Lei a proposito di una sedia che ha spostato da dove stava di solito. «Oggi è la sedia, ma domani è una persona, un uomo, e io ho bisogno di capire se sei una donna affidabile», farnetica Lui con tono perfido e insinuante. Siamo, allora, di fronte a un testo che adotta con sapienza ed efficacia gli stereotipi dei più consunti luoghi comuni per rovesciarli subito nella paralisi della canonica ideologia maschilista e familista. Lui proclama che «l’amore vince anche la morte» solo per raccontare di come il padre, caduto su una scarpata, si salvò dal gelo notturno grazie ai mutandoni, alla maglia e ai calzettoni di lana con cui lo vestiva d’inverno «quella santa donna» di sua madre. Così, il tormentone della battuta «Facciamo l’amore e passa tutto» diventa proprio la polvere del titolo: quel velo d’ipocrisia che a poco a poco si stende sui sentimenti della coppia come, davvero, un lenzuolo funebre. E molto brava, accanto a Saverio La Ruina, è anche la coprotagonista Cecilia Foti. Per concludere, uno spettacolo ad un tempo intelligente, illuminante e coinvolgente.
Che gran botta allo stomaco, forse anche alle gonadi, è il nuovo spettacolo di La Ruina. C’è un’atmosfera claustrofobica che prende alla gola, da Polanski formato domestico: un “Carnage” di coppia, dove la violenza è a senso unico. Abbandonando il dialetto calabrese e le sue struggenti donne “dissonorate”, La Ruina – affiancato dall’intensa Jo Lattari – non smette d’indagare i rapporti di potere nella coppia. “Polvere” allude all’atmosfera impalpabile, ma coercitiva fino alla follia, nella quale il protagonista avvolge la sua donna, torturandola con le proprie manie e gelosie. L’incubo circolare si ferma a un millimetro dalla violenza vera. Che però incombe e ci interroga su noi stessi.
Una gelosia morbosa e delirante, paure e ossessioni che si traducono in soprusi, violenze psicologiche, sottili assoggettamenti. Così si distrugge il rapporto di coppia, così un uomo può annientare la propria “amata”. È la “sindrome di Otello”, un disturbo antico all’origine di comportamenti devianti con gli esiti spesso nefasti di cui sono piene le cronache dei nostri giorni. Il tema è al centro di Polvere, lo spettacolo di Saverio La Ruina in scena all’Elfo Puccini di Milano fino al 25 gennaio, prima parte della sua trilogia sulla violenza alle donne che comprende anche Dissonorata – Un delitto d’onore in Calabria (due premi Ubu nel 2007, in cartellone qui dal 27 al 29 gennaio) che racconta delle schiave moderne di un padre-padrone e La Borto (30 gennaio – 1 febbraio) sulla gravidanza vissuta come un calvario senza alternative, due monologhi nei quali l’attore e drammaturgo di Castrovillari interpreta altrettante figure femminili. In Polvere, invece, è il prototipo dell’uomo incapace di amare. Perché questo titolo? La polvere è il pulviscolo evanescente sollevato piano piano attorno e addosso alla donna da un maschio insicuro, immaturo e feroce che confonde l’amore con affetto sbrigativo e brusco o con il possesso di un corpo. Polvere, come una cipria letale che spegne il sorriso. E non c’è bisogno – lo abbiamo visto bene a teatro – di arrivare al pestaggio per smontare le certezze e togliere le speranze alla propria partner, né di ricorrere all’estremo delitto per farla smettere di sognare e… di vivere: bastano piccole prepotenze ripetute ogni giorno prendendo come spunto financo una sedia spostata senza il proprio permesso, un trattamento di make-up, la stretta di mano data a un amico… tutto può diventare il pretesto per mettere in atto uno “stalking” casalingo dalle disastrose conseguenze, per urlare in faccia a lei cose insulse e lasciarsi scappare persino uno schiaffo. Basta quello, solo quello, per compromettere un rapporto. Con l’illusione, poi, tutta maschile, che un semplice abbraccio cancelli d’incanto ogni male. Una drammaturgia intensa, dialoghi spietati e reali, parole che feriscono apposta per aiutarci a comprendere che anche la “polvere”, benché immateriale e impalpabile, uccide. È un piccolo gioiello lo spettacolo scritto dal calabrese La Ruina, disinvolto interprete, tra rabbia, protervia e ironia, di un uomo che non capisce la sua disperazione. E brava pure l’attrice Jo Lattari che lo accompagna in questa avventura teatrale severa e tagliente, che sviscera una piega del cosiddetto “femminicidio”, una dinamica, troppo spesso nascosta, di sconcertante attualità.
[…] Saverio La Ruina, drammaturgo conosciuto e rappresentato in mezza Europa e attore pluripremiato per l’originalità del suo approccio scenico e per l’indubbia qualità interpretativa. […] il nuovissimo Polvere, che nasce come gli altri suoi testi da un lungo lavoro preparatorio fatto di incontri, interviste, testimonianze dirette, letture di articoli di giornali, si distingue però dagli altri due per più aspetti. Qui, infatti, Saverio interpreta una figura maschile da manuale e in scena, a fargli da contraltare in questo duetto senza lieto fine c’è una giovane donna (la interpreta con finezza Jo Lattari, anche collaboratrice alla drammaturgia) […] Una storia di malamore – scritta questa volta non in calabrese ma in un italiano molto semplice e secco – , via via degradata dall’uomo in una vera e propria persecuzione psicologica e fisica , un ring dove chi dà i colpi, virtuali o no, è sempre e solo l’uomo. Nella scena quasi spoglia – un tavolo, due sedie – in un alternarsi di luce e di buio, sull’onda di una colonna sonora mai invadente, La Ruina in “Polvere” scandisce un vero e proprio match fra uomo e donna, costruito a quadri, che rappresentano, con la caparbietà di un esempio, il progressivo distruggersi e annullarsi della donna verso una condizione di subalternità assoluta, dove i rari momenti di tenerezza dell’uomo sono, in realtà, un modo per nascondere la propria natura, l’altra faccia della luna. Tocca proprio al personaggio interpretato da La Ruina con lucidità estrema e forte impatto scenico, dare vita a un’escalation di violenza emotiva non indifferente grazie a una gestualità che si fa via via più secca, quasi scandita dal tambureggiare delle mani sul tavolo e sulle sedie di casa, con qualche brivido e sussurro da parte del pubblico non si sa se per improvvisa autoanalisi o per improvviso riconoscimento di qualcuno che si è conosciuto. Ma la violenza non arriva al suo compimento, il femminicidio, che pure qui apoditticamente si consuma, non è un delitto su di un corpo, ma su di un sentimento, su di un’emozione. Da vedere.
Ma vorrei ricordare anche la nuova edizione di Polvere. Dialogo fra uomo e donna di Saverio La Ruina di cui ho già scritto, che però è arrivato a Castrovillari 2015 con una nuova, sensitiva interprete femminile, Cecilia Foti, che disegna con un approccio allo stesso tempo delicato e forte il suo personaggio di giovane donna – vittima designata di un uomo che su di lei opera la violenza più atroce: l’annullamento della sua personalità, costringendola addirittura a vergognarsi di se stessa – suggerendo però anche il senso di una possibile ribellione nei confronti di un carnefice (lo interpreta con intatta bravura Saverio La Ruina) un uomo piccolo piccolo che trova nella sopraffazione la sua sola ragione di vita.
Di solito sono le donne a parlare delle donne. Soprattutto quando si tratta di violenza e dei rapporti di potere. Saverio La Ruina è una magnifica eccezione. Dopo aver dato voce in una superba lingua del sud due figure femminili umiliate e offese (Dissonorata e La Borto), chiude la trilogia con Polvere dove invece porta in scena la coppia tessendo la trama invisibile di quello che potremmo chiamare l’apriori del femminicidio, quella zona indistinta dove si nasconde la trappola.
[…] La violenza è tutta psicologica ed emotiva nella sequenza di scene che La Ruina sviluppa in un micidiale crescendo di tensione e disagio. Un testo semplice solo all’apparenza, perché il suo peso specifico di minimalismo quasi nordico sta nell’intervallo tra le parole, nei silenzi, nel ripresentarsi regolare e inquietante delle stesse domande che ogni volta aumentano il carico di angoscia, nei dialoghi più banali dove tra una tazza di te e una telefonata si conficcano schegge acuminate. La scena di geometrica asciuttezza, la casa di lei evocata da un tavolo e due sedie, è uno spazio claustrofobico che sembra farsi via via più stretto e incombente mentre lui incalza e lei arretra, lui avanza e lei rimpicciolisce, lui assedia e lei si difende. Con qualcosa di minaccioso che non si vede ma si espande facendoci sentire tutti in pericolo.
La Ruina è attore maestro del dettaglio, del gesto minimo. Fa parlare le dita che tamburellano nervose sul tavolo, la gamba che si muove irrequieta. Questione di sensibilità, di tocco, di timbri modulati con asciuttezza che nega la retorica per afferrare l’essenziale. Mentre l’esordiente Jo Lattari ci sorprende per naturalezza e espressività istintiva nel bel cogliere il patologico meccanismo a due.
Armato di una rara sensibilità teatrale, da anni Saverio La Ruina esplora le ferite del femminile […] La Ruina offre la temperatura di un’interpretazione tutta dettagli e sfumature in sottrazione, piccoli scatti e silenzi ostili in una dinamica a due dove l’esordiente Jo Lattari trova il giusto registro con istintiva naturalezza. […] Qualcuno può rimpiangere la rigogliosa teatralità della lingua di Dissonorata o Italianesi, ma Polvere è un’altra cosa. Forse più fragile, ma segno di una volontà di ricerca coraggiosa e precisa. A cominciare dal testo solo all’apparenza semplice, in realtà dispositivo micidiale per un crescendo di tensione in accumulo, qualcosa di minaccioso che avanza nella ripetizione che a ogni scena aumenta il suo carico di angoscia, insinuandosi nelle pieghe della quotidianità, del gesto intimo e del colloquio domestico. Uno spettacolo di equilibri sottili e minimalismo quasi nordico.
Non ci sono urla, quasi non si alza la voce in questa subdola, violenta prevaricazione di una donna da parte del suo compagno, che pretende ogni frase inizi sempre chiamandolo amore. E questo, col non capire mai dove un certo discorso inquisitorio voglia arrivare, crea una situazione di coinvolgente suspence ansiosa […] Siamo davanti a una raffinata tortura psicologica in continua crescita, che La Ruina restituisce grazie alla profondità della leggerezza della sua interpretazione che coincide con quella della sua scrittura meticolosa e quotidiana, all’analitica grazia noir di un atteggiamento inflessibile, freddo e subdolamente protettivo, che «poi facciamo l’amore, e tutto passa». Con lui Jo Lattari è la sua donna incerta, bisognosa e poi sempre più sofferente.
Ci vuole un certo coraggio per affrontare di petto una delle questioni più commentate, citate, talvolta persino abusate nel dibattito giornalistico contemporaneo. Ci vuole audacia per recuperare e dare vita a parole – come ‘violenza’ o ‘femminicidio’ – ripetute così tante volte che paiono aver smarrito il loro significato. Ha rischiato molto, quindi, Saverio La Ruina con il suo Polvere, al debutto in prima nazionale all’Elfo Puccini dal 20 al 25 gennaio, all’interno di una personale a lui dedicata. Un’ottima occasione per conoscere una delle personalità più interessanti della nostra scena, o per approfondire un percorso attorale e autoriale di grande coerenza e spessore. In cartellone sono previsti Dissonorata e La Borto, due splendidi monologhi dedicati allo scandaglio di figure femminili del Sud, interpretati in un dialetto calabro denso, immaginifico, capace di improvvise vette poetiche. Amato da pubblico e critica, efficace animatore culturale (il suo festival Primavera del Teatri ha reso la piccola Castrovillari una capitale del teatro italiano), La Ruina tenta qui uno scarto: abbandona i lidi sicuri del racconto popolare, rinuncia alla seducente delicatezza con cui dà vita ai suoi personaggi femminili, mette da parte la straordinaria capacità di raccontare il meridione. Polvere sembra abdicare, sorprendentemente, a ogni genere di effetto teatrale, di ornamento, di trasposizione poetica. Come un biologo, La Ruina mette sotto il microscopio le dinamiche umane senza alterazione alcuna. Non si tratta di una semplice fotografia delle realtà, quanto di una accurata operazione diagnostica: vengono messe a fuoco con precisione le radici di una patologia, quel terriccio umido e scivoloso dove questa attecchisce, la polvere che si deposita leggera sulla psiche fino a alternarne la capacità percettiva. […] Per avviare l’ingranaggio La Ruina mette in campo tre strategie: il livellamento del linguaggio, la reiterazione, il coinvolgimento del pubblico. Al lessico vivo e magmatico dei precedenti lavori si sostituisce qui un italiano standard, anodino, di disarmante banalità: frasi fatte e luoghi comuni che tutti, prima o poi, ci siamo trovati a pronunciare. Jo Lattari (l’intensa e coinvolta interprete femminile) e La Ruina modulano la loro recitazione rendendola altrettanto monocorde, piatta, masticata a mezza voce […] Il senso di oppressione è accentuato dalla struttura drammaturgica, costruita per scene che si susseguono con poche variazioni, reiterando identiche sequenze: «siediti, parliamone», incalza continuamente il carnefice, sottoponendo la compagna a interminabili e vani interrogatori senza variazione (fulminante la scena dedicata per intero all’indagine delle ragioni dello spostamento di una sedia). Ed ecco che a sottoporsi alla violenza è anche il pubblico, costretto ad assistere al processo, a farsi raccontare ancora e ancora dettagli che già conosce, inchiodato sulla sedia proprio come Jo Lattari. Divenuti vittime, gli spettatori reagiscono: c’è chi sbuffa, chi si contorce sulla sedia, chi grida «sparagli!» proprio come le nostre nonne davanti alle prime televisioni. A dimostrazione del fatto che non c’è bisogno di aggressività fisica (quasi del tutto assente nello spettacolo) perché si possa parlare di sopruso. Diretto, efficace, di semplicità drammaturgica e attorale solo apparente, Polvere è una svolta significativa nel percorso di La Ruina, un insegnamento di come talvolta sia necessario farsi da parte e togliersi dal centro della scena. Da far girare nei teatri, nelle scuole, nelle università, ovunque ci siano ad ascoltare un uomo e una donna.
Invidio un po’ chi non conosce Saverio La Ruina […] Li invidio perché potranno entrare nella poetica di questo autore e attore unico nel panorama della scena contemporanea e concentrarsi nelle prossime settimane sulle diverse tappe del suo lavoro. Un po’ come certi film che vorresti non aver ancora visto per rivivere le emozioni che ti hanno procurato. […] Polvere si svolge qui, ora, intorno a noi. Ed è ancora più agghiacciante. […] Non si assiste a momenti di violenza fisica sulla scena, a parte un accenno, forse, la “polvere” che distrugge la donna è più sottile, invisibile, mina lentamente ma inesorabilmente le sicurezze. A un certo punto ero così coinvolta da ciò che stavo vedendo che avrei voluto alzarmi dal mio posto in platea e urlare alla malcapitata, di scappare, di filarsela al più presto. Mi è stato difficile tener sotto controllo la rabbia. Il teatro di La Ruina è così, non prevede filtri, ti tira dentro, con le parole e i silenzi, il tamburellare delle dita sulla sedia, le musiche perfette di Gianfranco De Franco. Non ti lascia respiro fino alle fine. E poi, lunghi applausi.
[…] «Primavera dei Teatri» 2015 si raggruppa intorno a sei giorni fitti di appuntamenti. Tra le cose che è stato possibile vedere, tre in particolare sono sembrate assai incisive. Si parte da Polvere. Dialogo tra uomo e donna, l’ultimo lavoro del padrone di casa, Saverio La Ruina: dopo il debutto milanese, questo capolavoro di scavo psicologico, che mette di fronte un intellettuale/fotografo di successo e una donna che si suppone appartenga alla borghesia, è emerso in una chiave ancora più forte grazie al cambio di interprete femminile. Cecilia Foti – che è anche l’attuale compagna del drammaturgo/performer – prende il posto di Jo Lattari, e la violenza quotidiana, asfissiante e subdola dell’uomo acquista echi superiori e profondi, mentre una nuova scena, appositamente costruita per Castrovillari, attenua il giudizio, spesso moralisticamente indignato, nei confronti di una figura che vessa e strozza la sua amante quasi «per forza». Perché – parafrasando il testo – è la prima volta che riesce ad amare davvero, e questo può essere un trauma insostenibile. Polvere è uno spettacolo straordinario, che mette tutti sull’attenti, facendoci capire, neanche troppo velatamente, che i rapporti sentimentali, i disastri che li attraversano e a volte li distruggono, sono appannaggio di tutti, e dunque non derubricabili alle pagine di cronaca dei quotidiani. «Tanto poi facciamo l’amore e passa tutto», questo disarmante epilogo certifica l’ideale continuità di questo lavoro con le tre perle che l’hanno preceduto – Dissonorata, La borto e Italianesi – pur dando atto all’artista lucano-calabrese del coraggio avuto nel cambiare stilemi, nel progredire in uno studio poetico e al tempo integerrimo della violenza che colpisce i singoli. […]
Polvere, il nuovo graffiante testo di Saverio La Ruina, è passato in tournée anche per il Teatro Santa Marta di Venezia. In quello che sta diventando in Italia, con i conseguenti rischi di saturazione e convenzionalità, quasi un sottogenere – il teatro «civile» sulla violenza contro le donne – il nuovo lavoro di Saverio La Ruina spicca per originalità di prospettiva e intensità di sguardo. […] Quante cose ci dice allora questo testo, costruito con sapienza di ritmo e di gesto dallo stesso La Ruina, sulla crisi dei ruoli e sulla miseria morale dei nostri tempi, sulle dinamiche di coppia che oggi si avvitano su se stesse finendo per devastare esistenze e coscienze per ragioni ben più sottili della banale brutalità di un maschio possessivo e manesco. Qui l’ambiente non è degradato, la donna ha (aveva) una propria vita di relazione, l’uomo è un fotografo che ha girato il mondo e sa parlare bene, anche troppo. Come in una pirandelliana stanza della tortura psicologica, lui assedia la giovane donna con richieste insistenti di spiegazioni e confessioni. […] Alla fine le speranze di redenzione o di strappo liberatorio, che il serrato meccanismo dialogico alimenta nello spettatore, restano deluse. Non c’è rivolta né catarsi. Anche dopo l’ultimo violento litigio che provoca nella donna una crisi nervosa, lei rimane tra le braccia dell’uomo, che la stringe a terra disarticolata come una marionetta, lui stesso eterodiretto da un dispositivo che lo sovrasta e lo condanna: «Adesso facciamo l’amore e tutto passa», ripete con effetto grottesco. Solo apparentemente lo spettacolo si distacca dai precedenti, fortunati esiti di La Ruina (Dissonorata, La Borto, Italianesi). Siamo sempre di fronte a storie in minore, dimesse, neglette. E in fondo i due personaggi in scena si possono leggere anche come le due facce di un’unica figura, quella dell’incomunicabilità. Come una sorta di monologo sdoppiato, ovvero come un tentativo di dare forma alla schizofrenia di un personaggio la cui tenerezza trascolora nella prepotenza, e viceversa, senza soluzione di continuità. Del resto ha qualcosa di sensibilmente femminile la gelosia che l’attore riesce a suggerire nelle sue misurate reazioni recondite. E va da sé che tanta sapienza gli viene dalle intense interpretazioni di ruoli femminili di Dissonorata e di La Borto. Ciò che lascia perplessi di questo nuovo esercizio di discrezione – tale ci è sempre parsa la cifra del teatro di Saverio La Ruina – è la prevedibilità di un meccanismo drammatico efficace nel suo sviluppo quanto privo di vie di fuga propriamente teatrali. L’interno domestico è statico, gli attori sono bravissimi ma la drammaturgia non conosce climax e l’uso del microfono ad archetto costringe le voci a lavorare su un tono basso, trattenuto, funzionale alla ricerca di sfumature più delicate – perfettamente riuscite nei precedenti spettacoli – ma a volte inadeguato alla potente materia vocale che qui vorrebbe, e non può, entrare in gioco nel dialogo.
What can I say about IVP, the International Voices Project? I have been attending IVP productions since its inception of Season 1, and I have attended a lot of the plays in each season. A well-put production is always appreciated, but being a lover of the arts, as well as a writer of plays, monologues, songs and poetry, you get to see with a different eye. […] There are several things I can write about having attended so many of the plays put on by IVP, but I will write about one in particular. That is “Dust” written by Saverio La Ruina, an Italian production. WOW!!! Although Italy is across the ocean from the United States, it hit home in so many ways, not just for me, but for all who attended. This particular reading, with its two actors, was very well put together. This is the first time that I wanted to get up and join in the action, not to be a part of the reading, but to take part in the reality of it. This reading came alive in the hearts of all who attended. More than my mind thinking, my feelings arose, and then I began to speak. You should have heard the things I was telling the actors, as though it was real. I was giving advice to both characters. “Faye,” I told myself; “it’s just a play.” The reading was so real, I actually shouted aloud several times. This reading grabbed me by my neck and said “DO SOMETHING!!!” The topic if the reading is already a touchy subject around the world, but coupled with good actors, who imitated their roles in an excellent fashion … let’s just say, “job well done.” The character of the woman, playing oblivious to what was really going on, was key along with her struggles, to being sucked into acceptance of being beat down in her personhood. The character of the man, disguising manipulation and control under the guise of counsel and concern was on point. Both of the actors NAILED IT! What was written as a real life matter became alive on the stage. I have never been more emotionally passionate about one of IVP’s productions than this one. I could cover more things on this performance and the actors, but for now, I will continue to echo, “JOB WELL DONE!!!”
[…] “Polvere” non ha raccontato la storia di una sconosciuta coppia di innamorati in cui lei si trovi a subire il subdolo gioco di violenza psicologica da parte di un uomo insicuro, fragile e malato. Ha raccontato la mia, e con una precisione così chirurgica da crearmi disagio. In un crescendo. Scena dopo scena, quadro dopo quadro, accusa dopo accusa, svilimento dopo svilimento. Mentre il maglione nero e informe sostituiva l’aderente maglietta rossa, mentre il silenzio prendeva il posto della gioia di cantare. A metà pièce ho iniziato ad avvertire nausea, verso la fine volevo salire sul palcoscenico e spaccare il muso a La Ruina, reo di essere stato troppo convincente. […] Posso dire solo questo: ovunque voi siate in Italia, qualunque età voi abbiate, qualsiasi convinzione abbiate dell’amore, andate a vedere questo spettacolo. Soprattutto, portateci i giovani, che in pochi oggi sceglierebbero autonomamente di recarvisi. Portateci le ragazze, fatele prendere coscienza subito di quanto sia sbagliato considerare “amore” certe attenzioni malate, certe gelosie immotivate. Portateci i ragazzi, fate in modo che riconoscano la propria fragilità in quelle dinamiche disgustose e imparino a non emularle. Ristabiliamo gli equilibri, facciamo scomparire la polvere.
[…] Così, come fu per i suoi bellissimi “Dissonorata” o “La borto”, “Polvere” tocca nervi scoperti del nostro quotidiano, sfiora cronache inquietanti e costantemente presenti, affrontando il tema forte della violenza dell’uomo sulla donna. E lo fa in modo anche inconsueto, leggendo questa violenza costante e terribile, come percorso quasi seducente della mente. […]
[…] Dirò allora di due spettacoli, visti ed applauditi. Di “Polvere- dialogo tra uomo e donna” con cui Saverio La Ruina percorre il tema certamente abusato, ma mai abbastanza, come la violenza sulla donna. Quella terribile che rimane chiusa nelle stanze di casa, affrontata in modo inconsueto e lieve […] Scrittura per brevi passaggi, per silenzi e sussurri, gesti misurati, carezze trattenute e violenze appena accennate. Inquietante e cattivo, non lascia al pubblico il tempo di un sospiro di sollievo, certo per ferire l’anima di chi preferisce ignorare. […]
Quando ho sentito quelle parole, ho trasalito. Le ho riconosciute subito. “Tu non ti rendi conto”. E poi “Bastiamo io e te”. “Lo vedi, non sei affidabile”. E “Posso?”, pronunciato sommessamente, quasi con un sorriso gentile. Io non sono una vittima di violenza di genere, ma, come tutte le donne, o quasi, ho riconosciuto quella polvere impalpabile che in certe relazioni – vissute, sfiorate, sentite raccontare – piano piano si sostituisce all’aria, sfarfallando, sottilissima, impalpabile. Fino a che, guardandola da fuori, una coppia non è completamente avvolta dalla sua propria polvere, e diventa invisibile. Dentro, Lui e Lei non si rendono conto di respirarla, di averla negli occhi, nella gola, sulle labbra, tra i gesti. Si chiama violenza. Nell’esplorazione del senso e del sentimento Saverio La Ruina, il geniale drammaturgo e attore calabrese di Castrovillari – tra i fondatori di “Scena Verticale”, che tra l’altro ogni anno organizza proprio lì, sul Pollino, una miracolosa “Primavera dei Teatri” divenuta appuntamento nazionale – sta analizzando da tempo le relazioni e la violenza di genere, fin dal suo “Dissonorata” (2006), il monologo d’una vittima, che gli valse due Premi Ubu e l’amore incondizionato di migliaia di spettatori (compresa chi scrive), non solo in Italia. Stavolta lo declina in altra forma: sul palco, tra la “Polvere” (un’occasione da non perdere), con lui c’è la soave Cecilia Foti, attrice e cantante messinese. Lei, così tenera e solare, incarna alla perfezione la gioiosità fiduciosa che viene progressivamente avvilita e annichilita delle ossessioni di Lui. Lui è un fotografo, un uomo colto e di mondo – ma non ci sono coordinate troppo precise, personali sociali o geografiche, per entrambi: incarnano un “codice” applicabile a qualsiasi relazione di qualsiasi latitudine, ceto e condizione. D’altronde, se fate un giro in un qualsiasi Centro antiviolenza d’Italia le somiglianze e le analogie tra le storie e le persone saranno senz’altro molte più delle differenze. Ed è esattamente quello che La Ruina ha fatto: la sua drammaturgia è incisivamente attuale e impegnata, vorrei dire addirittura politica, proprio perché, per quanto potente e immaginifica, nasce sempre da una minuziosa indagine (ricordiamo ancora quella alla base di “Italianesi”, del 2011, che racconta alla sua maniera, individuale e universale, la tragedia ignota degli italiani internati in Albania dopo la seconda guerra mondiale), si nutre di storie vere, di dolori reali, la cui sostanza emotiva e verità umana viene plasmata e restituita, senza sconti, allo spettatore. È uno spettacolo sommesso eppure violentissimo, dove solo due volte una voce si alza di tono, e nessun gesto è meno che misurato: lo stesso inganno felpato della prevaricazione. “Sembrava così innamorato” sentiamo dire, abbiamo detto: lo era, ma in modo malato. Come il Lui di La Ruina, che in molte donne (me compresa) ha suscitato un miscuglio di odio e rancore, di rabbia e paura, tanto la sua apparente calma, la sua attenzione meticolosa stanno sul filo dell’istruttoria perenne e morbosa, dell’ossessione, della volontà di impadronirsi di tutta Lei, togliendole piano piano ogni luccichìo, ogni colore (lei perde via via il braccialetto, la maglia rossa ricamata, il canto, la postura: Lui non può che svuotarla nel tentativo di possederla). Sentiamo salire, piano piano, un sentimento d’oppressione e ingiustizia: quello che dovremmo provare ogni volta che un delitto di genere insanguina le cronache. Forse, più ancora, dovremmo provarlo ogni volta che in una relazione “normale” s’infiltrano semi di quella polvere, la violenza viene deposta come un uovo nel buio, e cresce, alimentata da gesti minimi, parole sommesse, silenzi. Certo, Lui è pure una vittima, di se stesso e delle sue ossessioni, ma non sta, né potrà stare mai, sullo stesso piano della vittima che è Lei. Lei che lascia agire senza opporsi tutti i meccanismi “classici”, individuati dagli esperti e ben noti, ma qui trasformati da La Ruina in viva sostanza drammatica: controllo parossistico, colpevolizzazione, svilimento. Lui tende a fare il vuoto intorno a Lei, trasforma ogni cosa, anche la più banale (la sedia cambiata di posto, il quadro alla parete), in una sfibrante inquisizione. La polvere, così tossica e velenosa, satura piano piano – nel suo modo insensibile, invisibile agli occhi – l’ambiente, che diventa una camera di scoppio. Non sappiamo cosa sarà di Lui e Lei: se quel crescendo, quello sfarfallìo che diventa cumulo – che sentiamo anche noi, nel respiro – farà detonare davvero la violenza fisica, o se Lei, che forse nell’ultima scena recupera una postura diritta, forse di ritrovata consapevolezza se non proprio di opposizione, riuscirà a escludere Lui dalla sua vita. Non ha importanza. Usciamo, come sempre dai lavori di La Ruina, con una trafittura nel cuore, una smania nel pensiero. Nella polvere vorticano cose che abbiamo sentito, saputo, forse agito. Forse la catarsi che ci tocca oggi è questa, quando uno spettacolo di teatro funziona talmente da parlare di noi, profondamente (e per questo sarebbe da proporre ai giovani e giovanissimi, nelle scuole). Perché questo malessere, questa scomodità di cui siamo grati all’autore, questa sensazione è preziosa: ci dice che la nostra anima ha un’ombra.
[…] teatro necessario, assolutamente e violentemente. Una violenza che è non meno ossessiva di quella che racconta e che arriva dritta e dolorosa nella pancia degli spettatori.Un’avvertenza è utile: “Polvere” vi (ci) fa male, lascia tramortiti, sanamente tramortiti. Perché la violenza che il pubblico subisce è quella di prendere coscienza di come la “polvere” che avvolge i rapporti di forza all’interno di una coppia sta sempre accanto a noi, se non dentro di noi. E sono ossessive la scrittura letteraria e quella scenica, fatta di un’interpretazione e di una regia capace di portare in primo piano ogni particolare, anche il più piccolo […] L’abilità del drammaturgo calabrese è anche quella di ricostruire scenicamente una sorta di stanza della tortura. […]Poco importa se qui, a parte un “solo” schiaffo, tutto sta nel sottile confine che di volta in volta ci pone la mente. […]La Ruina attore dona accenni soavi, disegna una prevaricazione gentile e ancora più pericolosa e cattiva[…] La Ruina regista fa scelte che colpiscono ancora più direttamente la platea.[…] Accanto a La Ruina, interprete straordinario e incredibile nella sua ripetitività dei gesti della follia non riconosciuta, Cecilia Foti, attrice e cantante messinese, è perfetta nel descrivere il passaggio da donna a vittima e le debolezze di chi ancora non ha imparato a difendersi.
C’era qualcosa di spiazzante nel dialogo tra Saverio La Ruina e Jo Lattari nei primissimi minuti di Polvere, visto alla prima romana al Teatro India. Percepivo una stonatura nelle voci amplificata anche dall’uso dei microfoni e mi chiedevo cosa stessero facendo, perché si trastullassero sul palco come i due interpreti di una pubblicità o di una fiction televisiva… Li ho odiati in quei primi cinque minuti, me ne sarei andato, ma poi è accaduto qualcosa di impercettibile, o meglio, cominciavo a percepire una forza che lentamente attirava qualsiasi cosa dentro a una psicosi vorticosa, dalla quale non sarei più uscito. Il La Ruina monologhista lo conosciamo e apprezziamo, in molti hanno già speso parole per riflettere su questo cambio di registro, eppure qui più che evidenziare il passaggio dalla modalità solitaria che lo ha reso un autore e attore pluripremiato, è interessante anche notare come il direttore artistico del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari cerchi di portare il peso dell’intervento estetico sulla materia prossimo allo zero. Sembra di essere di fronte a un esperimento sociale più che a un pezzo di teatro, in questo senso la drammaturgia ha una precisione chirurgica: […] Il dialogo scorre con facilità mentre i due cercano le appoggiature giuste, dopo il riscaldamento iniziale La Ruina si prende in spalla l’orribile personaggio, un fotografo de l’Espresso, senza quasi mai cedere all’affettazione o ai facili cliché; Jo Lattari invece ha il compito di sparire e lo fa con naturalezza, eleganza. […] Siamo quasi di fronte a un finto dialogo, sappiamo già dove potremmo arrivare, non ci sono molte opzioni e tra queste abbiamo sondato anche quelle più cruente. In questo senso la pièce ha qualcosa di brechtiano, proprio nella sua struttura a tesi, nella mancanza di tensione verso il finale, nella finalità quasi didattica. C’è chi ha lodato la compagnia calabrese per la sensibilità con cui il tema è stato trattato, chi proprio per l’aderenza con le dinamiche relazionali reali e chi ne ha evidenziato certe lacune poetiche. […] L’efficacia è però proprio in quella scena vuota inquadrata da perimetri di luce che circondano un tavolo e due sedie; nelle battute semplici ma affilate, credibili – «se ti nascondi per una sigaretta non sei affidabile» – nel tamburellare di La Ruina sul tavolo. È vero, forse, non c’è poesia, non ci sono quei segnali tipici di una manifesta ricerca teatrale e allora forse per leggere fino in fondo questo spettacolo bisognerebbe ribaltarlo su noi stessi: ascoltare le reazioni nascoste che ci provoca, le risatine nervose, confrontarsi con la vergogna provata nell’attesa che la violenza si compisse, guardare il mostro negli occhi perché ha la nostra faccia pulita.
[…] ”Polvere”, l’ultimo lavoro di Saverio La Ruina è una straordinaria drammaturgia di impegno sociale e civile che sposta l’attenzione sull’uomo, essendo la violenza sulle donne soprattutto un problema degli uomini. La Ruina si pone di fronte alla tematica come un faro sempre acceso sul presente, sul fatto, depositario dell’esperienza come strumento di dialogo e confronto, prerogativa di un teatro nuovo di cui è certamente un rappresentante illustre e illuminato. Vogliamo ricordare altri due suoi lavori encomiabili, “Dissonorata” e “La Borto” testimonianze di un percorso analitico e profondo di impegno sociale e civile. […]
In Polvere la sua interpretazione è magistrale. In Dissonorata e La Borto da straordinario attore ed artista unico, riesce a dar vita a personaggi femminili indimenticabili”.
Ieri sera al teatro dei Laboratori del Dipartimento delle Arti abbiamo visto “Masculu e Fìammina” di Saverio La Ruina. Avete presente quando si ha la sensazione che ci sia solo una precisa forma d’arte “davvero necessaria” per dire una determinata cosa, per raccontare una specifica storia? Vale a dire: per raccontare quella storia serve proprio il teatro, perché se lo si facesse col cinema, col disegno, con la letteratura si otterrebbero racconti che difettano. Io no so come ci riesca ma Saverio rende trasparente questo assunto. È fra i pochissimi che ci riescono. Per questo non mi perderei, se fossi in voi, il suo “classico”, “Dissonorata” (giovedì) e anche “Polvere” (stasera).
#1. Aguzzi frammenti di realtà Francesca Serrazanetti
Polvere traccia il ritratto asciutto di un rapporto di coppia che si trasforma in ossessione: l’iper-realismo del testo, la definizione puntuale delle dinamiche con cui l’uomo stringe la morsa sulla libertà (fisica e psicologica) della compagna degenerano in modo progressivo ed estenuante. Lo spettacolo è un condensato di frammenti di realtà, sconcertante per quanto sia immagine precisa e razionale di dinamiche in cui non è così difficile cadere. […] La drammaturgia opera per sottrazione, mettendo a punto una traccia densa che non lascia spazio al superfluo. Restano tempi minimi – ma sufficienti – per raccontare la dolcezza di un amore che di fatto esiste ma di cui si perde il controllo […] La violenza interpretata da La Ruina è controllata, trattenuta, mai sopra le righe. A renderla insopportabile è forse proprio questo: il suo mascherarsi di dolcezza, di bisogno di controllo, in un rapporto di dipendenza totale. La reiterazione delle dinamiche, delle domande e delle accuse arriva a esasperare il pubblico: il testo è a tratti prevedibile, in certi momenti siamo in grado di anticipare quello che succederà. Ma la ripetitività – che indugia nella noia e nella banalità – è funzionale a coinvolgere chi ascolta nel meccanismo di cui lei stessa è succube. […] Il pubblico è incapace di restare fermo, ha un impulso istintivo a reagire, ad aprire gli occhi alla donna, a commentare ad alta voce dalla platea, coinvolto per estenuazione nella natura malata del rapporto. Il fastidio che proviamo, seduti in platea, è dovuto all’altalenante prevedibilità di quello che vediamo, o piuttosto alla verosimiglianza di situazioni molto più diffuse, nascoste e vicine di quanto pensiamo?
#2. Nitidezza in polvere Corrado Rovida
[…] Gli spettatori sono estenuati dall’impotenza a cui sono stati sottoposti, hanno fatto fatica a trattenersi durante la logorrea insinuante di Lui, davanti alla sua reiterata violenza psicologica (a tratti anche fisica), tanto che una signora sbotta e si permette di dare a Lei un consiglio liberatorio: “sparagli!”. Eppure quel chiamare in causa l’emotività non è affatto inadeguato, anzi, ciò di cui si parla è davvero un’esigenza viscerale, solo non si tratta di amore, come si potrebbe supporre, bensì di prevaricazione. […] La Ruina esamina gli ingranaggi. Lo sguardo dello spettatore, sembra volerci dire, deve essere sgombro da dubbi, lavato da ciò che può ottenebrare un giudizio di aperta colpevolezza. Ed è forse in questa necessità di pulizia, in questa attitudine all’exemplum, al rigore analitico, descrittivo e dimostrativo insieme, che lo spettacolo trova la sua forza ma, al contempo, la sua debolezza maggiore. La forza consiste in una prodigiosa efficienza teatrale: riuscire a provocare, qui e ora, le reazioni del pubblico, sensibilizzare attraverso due personaggi estremamente riconoscibili. Lui e Lei (i nomi propri lasciano il posto ad epiteti da fidanzatini su cui regna sovrano ‘amore’) rappresentano un modello di studio, un luogo comune fatto di concretezza e astrazione: modulati su toni medi, quasi banali, usano frasi fatte (“Qui c’è scritto fragile!”, dice Lei indicando se stessa; “Diciamolo, te la sei cercata, puttana!” esclama Lui all’apice della meschinità) incarnano, fin dalla prima scena, ruoli tipici, universali, nel loro manicheismo. Se dunque il j’accuse di La Ruina brilla per efficacia nelle sue finalità educativo-pedagogiche, il rischio è, viceversa, che lo spettacolo possa risultare assai simile a un’ipertrofica pubblicità progresso, dove al prevalere della bidimensionalità corrisponde un assottigliamento dell’interesse dello spettatore. È così che anche in una delle scene più toccanti e autentiche, quando Lui, tenendola stretta a sé, assiste la compagna, timorosa, nell’offrire una mela a un cavallo, il pubblico, quasi stregato dall’effetto Kuleshov, legge solo costrizione dove, a ben vedere, stava scritto anche tenerezza. Anche la nitidezza può diventare accecante.
[…] Siamo oltre il teatro. È cronaca, è pelle. È un reato, difficile da riconoscere quando si basa sui meccanismi subdoli della manipolazione psicologica. Quello di “Polvere” è un livello etico dell’arte, superiore alla dimensione spettacolare. […] Saverio La Ruina si è documentato. Chi conosce le dinamiche che soffocano una relazione di coppia, lo capisce al volo. È un merito rimarchevole, di fronte alla supponenza di chi sciorina emozioni limitandosi a una conoscenza libresca del fenomeno che denuncia.
[…] La Ruina approfondisce uno dei terreni linguistici più sdrucciolevoli: quello della comunicazione di coppia. Un uomo tartassa una donna a colpi di dialogo. La mette alle corde interrogandola allo sfinimento. Calcola ripicche e vittimismo. Tocca i tasti dell’accusa e della condanna. Indaga presente e passato, intenzioni e ricordi. Pretende di sviscerare pensieri e dubbi. Attraverso lo scacco delle parole e gli artifici argomentativi, attraverso il confronto con altre donne o il tambureggiare ansiogeno delle dita sul tavolo, la taccia d’inaffidabilità e incoerenza. La voce di lei è rassicurante, sincera, addolorata: disorientata e impotente. La voce di lui, sotto una scorza placida, confidenziale e cauta, è fredda, insinuante: artefatta e incapace d’empatia. Ogni frase è ricatto, staffilata che umilia la donna logorandone identità e tenuta. Ogni parola colpisce allo stomaco. Ritenere insopportabilmente tardiva – come fa qualcuno del pubblico – la reazione di lei significa ignorare il rapporto di acquiescenza masochistica che caratterizza la donna che ha subìto una violenza sessuale, sminuire il circuito patologico che unisce vittima e carnefice. Arte civile. Che rinuncia a un surplus di “teatralità” per non svilire il dolore. E che conforta, attraverso l’indignazione interiore, la riflessione dello spettatore capace di interrogarsi su se stesso e sul proprio rapporto di coppia.
Mai sentiti tanti sospiri in un teatro. Ieri sera, nella piccola sala b dell’India, poco a poco l’atmosfera si è fatta sempre più stretta, soffocante, claustrofobica; quando però dopo settanta minuti di crescente tensione le porte si sono di nuove aperte, nessuno si è affrettato a uscire: come colti da sindrome di Stoccolma, gli spettatori sono rimasti paralizzati sulle sedie, schiacciati da un peso che non li lasciava andare via. Cosa è accaduto? Polvere di Saverio La Ruina mostra qualcosa che non si vuole vedere. E nello spettacolo non si tergiversa, La Ruina ce lo mostra fin da subito, lasciando ben pochi margini al dubbio: la violenza è lì, anzi qui, proprio davanti ai nostri occhi […] proprio la repulsione rende lo spettacolo paradossalmente mesmerizzante, stimolando un effetto catartico dalla potenza emotiva sconcertante. […] Descrivere Polvere non è complicato; difficile piuttosto è riuscire a sostenere lo sguardo, a sopportare, a restare immobili a osservare quando a pochi metri da noi un uomo sta coercizzando dispoticamente la fragile psicologia di una donna. Con Polvere, insomma, La Ruina ci immerge in un incubo psicologico di cui non si può fare a meno di condividere intimamente il dramma: un teatro difficile, estenuante eppure innegabilmente necessario.
Se uno dei compiti del teatro è quello di rilevare il vizio di ciò che sembra connaturato nell’animo umano, Polvere ne è un esempio molto ben riuscito. Saverio La Ruina, che è anche autore e regista della pièce, e Cecilia Foti mettono in scena l’involuzione del sentimento e del rapporto di coppia. Lungi dal presentarsi come il paradigma pessimista del dialogo tra uomo e donna, Polvere può vantare una scrittura ed una regia dal grande pathos e compartecipazione. Il sentimento morboso di un uomo insicuro, incapace di fiducia e schizofrenico è l’elemento distruttivo non solo del rapporto, ma anche della vita donna sulla quale ricade il peso di questa subdola follia. Polvere trasporta la scena nel punto più cupo della propria coscienza e rileva la capacità di offesa del pregiudizio che è parte della quotidianità dei rapporti. La scena presenta pochi elementi, tra i quali due seggiole e un tavolo, che diventano lo strumento concreto dell’ossessività di un rapporto che diventa negazione del rapporto. Il femminicidio è portato a termine lentamente ma inesorabilmente con la distruzione psicologica della donna. Lo spettacolo presenta micro-scene che si susseguono presentando spezzoni della vita di coppia dei due personaggi. Dalla nascita del rapporto al suo punto più basso, la costante dei dialoghi è l’accusa e il ricatto. La Ruina e Foti si dimostrano eccezionali nell’incarnare i loro personaggi, capaci di trasportare negli spettatori il nervosismo e il tormento della vicenda, che ha pieno successo nel coinvolgere e appassionare. I dialoghi sono asciutti, le battute rapide e immediate al punto da presentare una realtà assolutamente credibile in quanto quotidiana. Scroscianti gli applausi e visibile la commozione dei due attori, a dimostrazione della fusione emotiva creatasi con il pubblico.
[…] Una drammaturgia incanalata in una struttura episodica la cui apparente frammentarietà – le scene sono intervallate dal buio in assito – diviene un efficacissimo meccanismo che svela un progressivo aumento della tensione dialogica. […] É la preziosa prova interpretativa di La Ruina la cui voce, così monotòna, fa del testo del dramma un orrendo copione di un interrogatorio che si trasforma in estenuante rito ciclico. […] Una maieutica crudele è quella che emerge dal dialogo e che attraverso i banali concetti della vita quotidiana sonda l’inconscio dell’altra ingabbiandola in un incubo perenne che altera la percezione di se stessi e di chi si è scelto come partner. Persino i gesti involontari, anzi soprattutto questi, sono mirabilmente fatti emergere attraverso il dialogo come in un orribile processo psicoanalitico.
La scelta recitativa è preponderante, fruttifero è l’impatto sul pubblico che prova una sensazione di pericolo e di fastidio al contempo, e chiara è la prevalenza del linguaggio non verbale su quello verbale (e proprio quello non verbale definisce i rapporti umani, specialmente quelli di coppia). Una proposta, quindi, che arreca una riflessione profonda non soltanto sull’argomento trattato (la violenza tra uomo e donna, l’assuefazione psicologica, la distorsione della verità), ma sulla capacità della mimesi teatrale di fornire un’accorta e studiata campionatura di gesti e di modulazioni vocali che attimo dopo attimo, nel loro riprodursi e ripetersi sulla scena, veicolano la lenta e inesorabile “decostruzione” della relazione umana, un’invisibile deturpazione del concetto “Amore”, qui solo vezzeggiativo comandato, nome che serve soltanto a negare l’individualità. Se ogni gesto del personaggio di La Ruina è calcolato, platealmente agito come se appunto egli seguisse un copione preciso per uccidere psicologicamente l’altra persona, quello di Cecilia Foti è materia plasmabile, progressivamente indifeso e fragile; […] La violenza approda ad una sistematizzazione precisa così come la polverizzazione dell’individuo assume sempre più consistenza; tali dinamiche sono dunque, rese con piena coerenza nella drammaturgia e nell’impianto formale dello spettacolo. “Bastiamo solo io e te”, “Ci abbracciamo e poi passa tutto, succede sempre così no?” sono le battute che restituiscono splendidamente la morbosa ritualità ed esemplifica il rapporto fra scrittura, forma e recitazione. Lo spettatore è così chiamato ad entrare con i suoi occhi e con il suo udito nelle trame di un’intimità malata, chiedendosi per qual motivo pare che sia impossibile uscirne, e travalicando il mero confine fra vittima e carnefice. La realtà è ulteriormente complessa, la fragilità non è l’innocenza, la paura nemmeno. La banalità del male s’insinua in entrambe le parti, comunica con un linguaggio mistificante ed insidioso che Saverio La Ruina e Cecilia Foti hanno afferrato in pieno.
Quando le parole feriscono più delle percosse. E quando un mobbing psicologico, maniacale, ossessivo mette in ginocchio il partner, lo annichilisce, lo svuota di senso e lo mette in un angolo, in uno stato di assoluta prostrazione. È quanto accade in <<Polvere>>, il lavoro teatrale che Saverio La Ruina mette in scena e interpreta con Cecilia Foti fino a domenica alle 18 alla Galleria Toledo. Un atto liberatorio il suo, una sorta di confessione collettiva gridata al mondo, in cui nessuno può dirsi innocente, pubblico compreso. Quello del gruppo Scena Verticale è una presa d’atto del <<cul-de-sac>> in cui finiscono sempre più rapporti di coppia. Un gioco di sopraffazioni che qui La Ruina declina al maschile, complice una gelosia figlia della personale fragilità esistenziale che lo porta ad infierire sulla compagna con lucida, calma e diabolica fermezza, sottoponendola a un terzo grado reiterato fino allo sfinimento. E che il personaggio interpretato con misurato rigore dalla Foti subisce incredulo, giungendo a sentirsi perfino colpevole. Ma la verità, e La Ruina lo lascia intendere chiaramente, è che l’intero meccanismo relazionale si è inceppato, e che lo stesso gioco perverso potremmo forse riviverlo anche a parti invertite. Figlio di una rivoluzione dei rapporti ancora lungi dal vedere la meta.
Un interno stilizzato, con un tavolo, una bottiglia, due sedie, un attaccapanni e un quadro. È questo lo spazio, che ben presto si rivelerà claustrofobico, in cui si svolge l’ultimo, sconvolgente spettacolo di Saverio La Ruina. Un’efficace drammaturgia che, attraverso rapidi flash, dialoghi scarni ma taglienti, recitati con una esasperante pacatezza, narra la storia di due giovani che si incontrano e si innamorano, ma in un tale crescendo di violenza da lasciare senza fiato. […] una recitazione perfetta: ogni silenzio, ogni gesto, ogni interrogativo ripetuto all’infinito, ma anche ogni tenerezza, contribuiscono a creare quel clima impalpabile, eppure nettissimo, di sopruso e ossessione. Un rapporto di potere che, per fortuna, scatena esasperazione e ribellione nel pubblico che in maniera tangibile vorrebbe salire sul palcoscenico per porre fine a quella situazione ormai insostenibile.
Come nella Stanza d’albergo, nella Casa vicino alla ferrovia, il Sole di Mattina, al modo dell’Ufficio di notte, come in tutte le opere di Edward Hopper, in cui tutto è sospeso, e anche la luce stenta a mantenersi erta, “Polvere”, l’ennesimo grande lavoro del Premio UBU, Saverio La Ruina, presentato al Teatro Kismet di Bari, nell’ambito della rassegna dei Teatri di Bari Teatro di Rilevante Interesse Culturale. E’ evidente come anche questo lavoro di La Ruina sia il frutto di un lungo lavoro preparatorio, costruito attraverso letture di fatti di cronaca, di incontri, interviste, testimonianze dirette. In scena lo stesso La Ruina, che interpreta, tutto come da manuale, perfetto nei tempi, nell’intonazione che sostiene un persistente mezzotono, restando, dall’inizio alla fine, anch’esso come sospeso e facendo incedere l’ossessione in chi guarda ed è allo stesso tempo guardato. Perché il pubblico è come racchiuso in una tela, affissa su un muro, sta, partecipa ed è come impossibilitato a reagire ad un’ossessione che si fa sempre più incalzante e ai limiti dell’allucinazione. Accanto a La Ruina, un’attrice straordinaria, Cecilia Foti. Lei è un’insegnante, e come tante donne, é inconsapevolmente innamorata di un “amore” che si fa ossessivo, nel tempo, non solo nei gesti e nelle azioni di ogni giorno, la parola “amore” diventa essa stessa routine, ritornello, man mano che si svuota di senso e lei diventa sempre più consapevole di essere vittima di un amore che, di amore non ha nulla. La Ruina fotografa e inquadra, cercando di voler leggere e reinterpretare ciò che sta dietro le sue foto e le sue tele. E’ capace di guardare in controluce, per accorgersi e dare in qualche modo una giustificazione reale alle sue ossessioni, ma sotto l’olio su tela, dietro le foto, che rivendicano la loro naturalezza, non riuscirà a rintracciare la benché minima traccia della sua storia d’amore, vissuta solo con se stesso e con le sue stesse proiezioni. In lui si avverte un vero e proprio accasciamento, un degrado che si fa parola, gesto e sconfina nella violenza. Lei, rimarrà sempre più confinata nell’ombra, che si farà buio, ridotta sempre più all’astrattezza della sua immagine, che torna ad essere reale, eccessivamente reale, nelle convulsioni, a causa dell’amore. L’eleganza la fa da padrona in “Polvere”. La Ruina e Foti diventano corde di uno strumento capace di riprodurre suoni sempre più stridenti. Col passare del tempo, i quadri diventano come frame, sprazzi di immagini, di contro alle dissolvenze, debitamente al nero, che si dilatano, incupendo e offrendo al pubblico quella sensazione di insopportabile accettazione di ciò che si sta guardando, vedendo, perché a tutto ciò non si è mai troppo abituati ad esserci. A vincere e a perdere nessuno, perché, sebbene si sia come su un ring, a sostenere quel che rimane dei due amanti è solo un rapporto di potere, fra un lui e una lei, mai così ossessivamente ‘innamorati’ dell’autoannientamento, nell’illusione che tutto avviene “per amore, solo per amore”. Lavoro imperdibile.
[…] sulla scena si fronteggiano La Ruina e Cecilia Foti, a intessere l’inquietante ragnatela (polverosa appunto) di una sopraffazione e di una violenta tanto più subdola, avvolgente e paralizzante, quanto all’apparenza esse sono ammantate di carezzevoli intenzioni e attenzioni. […] Il tutto naturalmente viene fatto “per amore”, anche se sempre più si accentuano dei dati caratteriali inquietanti (in lui) tipo una gelosia morbosa e retroattiva, tipo degli scatti prima repressi poi esplicitati di violenza fisica, oltre che morale. Quando si arriva alle botte e il crinale è ormai superato, la figura femminile qui sfuma come sotto la Polvere, qui si rattrappisce addirittura scenicamente, quasi avvoltolandosi su se stessa, nel dolore e nella desolata solitudine. In fondo poi, resta l’amore, una scopata e tutto passa, vero Amo? Bel testo, questo Polvere, di rattenuta gelida lividezza, con una tensione che sale in un progressione quasi spasmodica, proprio a fronte della spietata rigorosa compostezza delle due dramatis personae, dei due personaggi e dei due attori a confronto, fra un abbraccio, una carezza, uno schiaffo, un’aggressione feroce e una desolata solitudine a due. Molto, anzi moltissimo bravi i due attori, con La Ruina ferocemente suadente e circuente, con i suoi mezzi toni che s’inerpicano, a tratti, in schegge di furore. Cecilia Foti è d’altro canto impeccabile, nelle sue esitazioni e scoperte progressive, nello sgomento e nella passiva sottomissione, con una sua fragilità stupefatta. Applausi assai intensi e convinti ai due protagonisti da parte del pubblico numeroso al Kismet.
[…] In una versione un po’ rinnovata a livello di testo e con una nuova partner in scena, Polvere di Saverio La Ruina è un affondo controllato nel marcio di coppia, nella recrudescenza di un sentimento che finge la normalità per covare sottovoce la sua morbosa ossessione. Un gioco al massacro appena più che sussurrato, con una donna-vittima braccata senza possibilità nella morsa violenta di un uomo pedante e sadico. Un tavolo, delle sedie, un quadro, pochi i segni distintivi di un interno domestico che è una prigione di ombre pesanti e di parole affilate, velenose, asfissianti, amare. Sul palcoscenico Cecilia Foti ha quell’ingenuità e quel candore che ci fanno essere dalla sua parte, testimoni impotenti di un sopruso senza rimedio. E Saverio La Ruina, col suo eloquio denso e misurato, con la sua presenza schiva ma sempre in agguato, umilia, ferisce e annienta ogni resistenza della compagna, rivelandoci il volto senza nome dell’orrore. […]
[…] È glaciale il crescendo con cui l’attore Saverio La Ruina, in scena, mette alle strette la compagna, interpretata da Jo Lattari. Ogni parola, gesto, pensiero, ricordo viene scandagliato in una presunta necessità, maniacale, di controllo. Tanto che personaggi e situazioni, pur nella loro precisa fisicità, paiono evanescenti, incarnazione delle possibili prevaricazioni dell’uomo sulla donna. Da quelle più apparentemente banali, quotidiane (una sedia spostata, l’imbarazzo ad una festa, un quadro che non piace) fino allo schiaffo, all’annullamento dell’altro, ad un abbraccio che mette i brividi: perso il naturale sapore di gioia, diventa quasi il possesso di un oggetto.
Lunghi applausi sono tributati alla fine ai due artisti, in scena giovedì scorso all’Odeon di Lumezzane con «Polvere», ultimo lavoro dell’autore-attore calabrese. Ma non mancano durante la pièce colpi di tosse, segni di fastidio. «Rispondigli per le rime!» verrebbe da ribattere al crescendo di domande assurde a cui la mansueta donna tenterà di reagire solo nel finale. E a una signora fuori da teatro scappa un «Che stronzo!». La Ruina rinuncia alle piacevolezze, così come a un facile realismo. L’anima dei protagonisti sfugge, chiede che sia il pubblico a vestirla di corpo, sensazioni, ricordi. Non necessariamente piacevoli. Recitazione (efficace anche quella volutamente dimessa della Lattari) e drammaturgia sono così ricercate, nella loro apparente piattezza, da richiedere alla platea uno sforzo. […]
[…] Ai due compagni-amanti-fidanzati è sufficiente muoversi in uno spazio minimale […] scandire in dieci scene e in dieci bui – come capitava in Tradimenti di Harold Pinter o Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman – tutti quegli episodi che tengono in vita un rapporto fragile, malato, forse che non doveva neppure iniziare, segnato in particolare dalle estreme gelosie dell’uomo che ossessivamente mette all’angolo la donna, somigliando Polvere ad un incontro di boxe di dieci round che finiscono sempre col mettere knockout la mal capitata. […] consensi e ovazioni finali
[…] In un rapporto morboso e patologico si instaura una dipendenza assillante di sottomissione femminile, tratteggiata molle e con poca autostima (la Wendy di Shining), e la violenza-tortura psicologica del maschio che attua il lavaggio del cervello, la goccia cinese per fiaccare ogni volontà della succube. Un processo alla Garage Olimpo, un thriller, un noir accusatorio fassbinderiano sadico e masochista tra Primo Amore di Garrone e Magda e Furio di Verdone. […]
[…] Nulla è lasciato al caso o alla cronaca scontata, perché il linguaggio in uso si serve di una mitraglia precisa di domande inquisitorie […] Gli strumenti verbali sono dunque l’arma scenica primaria per accelerare in maniera sorda e morbosa un’oppressione sempre più insostenibile, che solo all’ultimo si carica di atti violenti. […] Nessuno si salva, la polvere aumenta e toglie il respiro, […] L’istinto è di prendere respiro dopo ogni battuta, di allontanarsene e cercare una tesi che non c’è, se non nel mezzo di quell’ascolto collettivo che dovrebbe provare a salvare le proprie vittime.
Un tema attuale e una scrittura che lo rende particolarmente vero fanno dello spettacolo un’esperienza giustamente disturbante. Il tema è quello oggi largamente affrontato, anche in scena, degli abusi sulle donne. Ma il testo di Saverio La Ruina si avventura in un territorio meno esplorato, più indefinito, quello in cui si gettano le fondamenta di un rapporto destinato ad evolversi nella drammatica direzione del femminicidio. La messa in scena si basa su una ricca e puntuale collezione di mezze parole, gesti, toni di voce, ammiccamenti… infinitesimali granelli di quella Polvere che si deposita sul rapporto di coppia finendo per soffocarne la parte più debole. Nello spettacolo la scrittura non indugia in nulla che non sia essenziale e la regia non sfrutta alcun artificio teatrale, risultando proprio per questo ancor più convincente. E disturbante. In scena viene condotta l’anatomia del rapporto […] Sul finale giustamente sospeso arriva in sala un disagio inquietantemente reale, un boccone dal gusto amaro e vagamente nauseante, che sa di vita più che di teatro. E che ci vorrà un po’ per digerire.
[…] già dalle prime battute di Polvere, Saverio La Ruina ci mette a disagio […] ogni gesto è un atto di comunicazione forte ed ogni oggetto di scena un simbolo. Gli oggetti parlano, gli abiti parlano, i silenzi e i bui parlano, i gesti parlano. E’ impressionante quanto lo spettacolo di La Ruina sia un condensato di significati che grondano addosso al pubblico, mano a mano che la violenza si fa più scoperta e palese, facendolo sentire progressivamente più scomodo nelle poltrone, arrabbiato, disorientato. Polvere è uno spettacolo catartico nel senso classico del termine.
Mette in atto un match verbale di crescente e impercettibile violenza relazionale, uno stillicidio di parole, di pensieri, di gesti, che apre la strada a un inferno dell’anima, senza ritorno. Una violenza non esplicita, non fisica, ma sottile come la polvere […] E ci lascia sgomenti, come aver ricevuto un pugno allo stomaco, con un senso crescente di rabbia, di vergogna, e di rivolta contro quell’uomo. La Ruina fotografa ai raggi x, gelidamente, uno stato fisico e mentale, si direbbe da referto psichiatrico. […]
[…]Saverio La Ruina debutta con “Polvere – dialogo tra uomo e donna”, spostando questa volta l’attenzione di uno dei temi più tristemente scottanti, il femminicidio, su un piano inesplorato per una pièce dal forte impatto dissacrante.[…]Dal virtuosismo di un monologo ricco e colorito dell’arcaica potenza del dialetto, La Ruina, dotato di una grande sensibilità nell’esplorare le ferite del femminile, passa, in “Polvere”, al dialogo scarno, serrato, in cui i due attori parlano un italiano secco, atonale, rappresentativo di un contesto borghese. Un testo gelido, una partitura di stati d’animo che permette ai due attori di perlustrare i recessi di menti complesse, disturbate nell’ordire una trama crudelmente conflittuale che diventa il punto nodale della rappresentazione. […] Saverio, maestro del dettaglio, è bravissimo nel restituire la lucida follia fatta anche di gesti minimi, come il tamburellare le dita sullo schienale di una sedia, il muoversi nervosamente con scatti senza senso, che amplificano la tortuosità di una mente bloccata dalla paura […] Il testo è di una semplicità solo apparente perché le sue cadenze ritmate e ripetute come delle nenie fuori tempo, i silenzi tra le battute, lo spazio claustrofobico, aumentano il carico di angoscia anche negli scambi più banali. […] Sembra veramente provata alla fine della rappresentazione, tanto è forte la potenza di questo testo. saltinaria.it – Raffaella Roversi – 24/01/2015 […]Il lavoro di La Ruina si infila sottopelle, strisciante. Talvolta ci disorienta al punto che ne ridiamo, di quel riso nervoso che termina con una smorfia, con un leggero sussulto di paura. “Polvere” è una tappa di quella via crucis che porta alla violenza fisica sulla donna e nel peggiore dei casi, al femminicidio. Spettacolo che colpisce e che lascia un sentimento di disagio nel pubblico per la sua veridicità.
“A un certo punto, un signore voleva salire sul palco a tirargli un pugno”. Mi hanno descritto così Polvere di Saverio La Ruina, come un cazzotto nello stomaco a cui desideri rispondere con altrettanta violenza. Così mi sono assicurato un biglietto e la sera del 4 marzo ho potuto assistere all’opera presso il teatro Giuditta Pasta di Saronno. Le recensioni, gli elogi e i premi sono già fioccati, per il testo e per la recitazione: la critica è concorde nell’elogiare La Ruina, autore e protagonista maschile, per aver scritto e recitato in maniera impeccabile lo spettacolo. L’altra metà del cast, qui Cecilia Foti, interpreta una parte molto complessa con grande capacità: la trasformazione che la protagonista attraversa in poco più di un’ora di scene giustapposte è travolgente, quasi paradossale, eppure sostenuta senza peso dalla bravura dell’interprete. Non c’è quasi niente al di fuori di loro due: due sedie, un tavolo, un quadro e qualche nota nei cambi di scena; poi soltanto il loro dialogo, serratissimo. Un formato asciutto che aumenta il senso di vertigine causato delle richieste di lui, crescenti e ossessionanti, e la passività impacciata di lei. In pochi minuti si arriva dritti al punto e da lì inizia una discesa agli inferi (e allo stomaco). Ogni battuta carica di disagio lo spettatore, una progressione di violenza brutale. L’aggressività possessiva di lui agita la platea e all’ennesima richiesta irricevibile cui lei si prostra, succube e ormai vittima di ogni abuso psicologico, gli spettatori si scatenano come non avevo mai sentito in un teatro. Un uomo, dall’altro lato della sala esclama addirittura: “ma menalo!”. Avevano ragione: Polvere è un’opera che spiega da manuale un rapporto abusante e ti proietta in quella stanza, ne senti l’odore, l’atmosfera opprimente. Forse troppo “da manuale”, se esiste una cosa simile: infatti, ho trovato anche troppo pedante la rappresentazione dell’inettitudine e della gelosia che sono il fondamento di una relazione simile; battute così ben scritte da essere in qualche modo prevedibili. Ma forse esagero; forse ho pagato le mie aspettative e ho sbagliato approccio, facendo quello che in musica si chiama “un pubblico troppo attento”. Ho perso di vista la necessità di godere di questo spettacolo con il giusto senso: quello del disgusto, del fastidio, dell’odio.Andate a vederlo, ve lo consiglio. Lo consiglio anche alle persone di mezz’età, perché credo possano relazionarsi appieno con quella situazione, ritrovare scene già viste, e mi permetto di dire che una certa didascalia della violenza possa aiutare persone meno ferrate o appassionate sui nostri temi. Un’occasione importante di riflessione sulle emozioni alla base dei nostri ragionamenti.
Uno scontro, quasi pugilistico. E i colpi arrivano con ancor più forza perchè i toni sono bassi. È questo che impressiona in “Polvere”, di e con Saverio La Ruina, andato in scena al Giuditta Pasta di Saronno. […] Sembra un uomo riflessivo, profondo, forse persino sensibile, e così lei risponde in modo sincero, comprensivo, in fondo stanno insieme da poco. Da qui parte una progressiva e inesorabile caduta nel baratro. Ogni parola, da quel punto in poi, sarà un chirurgico e devastante colpo allo stomaco: sordo, mirato a fiaccare una donna che è un’avversaria, non – mai – un amore, anche se il termine si spreca. […] Il testo però non si ferma, descrivendo in modo potente e non retorico l’intera escalation di una violenza. La costruzione dialogica rende tuttavia ancora più evidente quanto, quando si giunge alla violenza che non si può più non riconoscere come tale, è già troppo tardi. […] il motivo profondo di questo tipo di scelta è spiegato e giustificato dalle risposte razionalmente incomprensibili, eppure così crudelmente reali, che vengono dal pubblico, […] pochi secondi dopo che il sipario si è chiuso. A predominare è la rabbia, soprattutto da parte femminile. E qui si compie il paradosso: l’astio non è verso il violento, ma verso di lei. Rea di aver aspettato troppo, di avergli permesso di avere tanto potere. Qualche moglie chiede scusa al marito di averlo portato a vedere cose da donne. Da quelle stesse donne, le battute più dolorose del dialogo erano state accompagnate da risatine: senz’altro, piuttosto che di cinismo come si sarebbe facilmente portati a credere, si tratta del bisogno di porre distanza fra sè e ciò che si osserva, di ricordarsi come ciò che si sta osservando avviene – solo – sulle tavole di un palcoscenico. Che, dopo, l’attore prenderà per mano la collega, sorridendo e ringraziando. Sono questi momenti fuori scena a rendere – più ancora che un copione ottimamente scritto – la forza e l’importanza di un lavoro come Polvere. La prova di quanto ancora sia lunga la strada per avere contezza di quanto perverso e difficile da raccontarsi – prima ancora che da affrontare – sia il rapporto psicologico sul quale si sviluppano le dinamiche distruttive tra vittime e carnefici. A fronte di questo, diventa importante testo dove si fa via via meno visibile la teatralità, per dimostrare la durezza di un racconto di realtà. […] quell’uomo che fa credere di essere perdutamente innamorato, e che più avanti calibrerà accuratamente la dolcezza per giustificare delle mostruosità, sta recitando. Sta ingannando. Sta appagando il suo bisogno di possesso, non di amore. Lei intanto progressivamente passa dalla sorridente accondiscendenza di una donna positiva, a una ragazza sfibrata, rinchiusa in un abito scuro e in un volto triste che – saggiamente – la brava Cecilia Foti non lascia neanche a fine spettacolo. Quel volto dice che si fa presto a pensare che a nessuno degli spettatori accadrà mai niente del genere. Ma che, invece, nessuno deve sentirsi escluso, perchè farlo è far vincere i carnefici. In pochi spettacoli come questo – se si riesce invece a viverlo senza depotenziarlo tramite escamotages psicologici – si sente la speranza, persino l’esigenza fisica, che finisca presto. Che ci si possa alzare e tornare a casa. Un sentimento doloroso, che spezza il fiato. Ma che proprio per questo è necessario, per provare a immaginare davvero che cosa si prova. A che cosa ciascuno è potenzialmente esposto.
[…] La scenografia assolutamente minimalista permette allo spettatore di concentrarsi completamente sulla storia e di ammirare le grandi capacità attoriali dei due protagonisti. […]Ciò che più mi ha colpito di questo piccolo gioiello di spettacolo, è quello che lascia addosso una volta terminato: ho sentito uomini presenti in sala descrivere il loro nervosismo, l’odio che è cresciuto dentro di loro nei confronti del protagonista maschile, la voglia di alzarsi e andarsene. […]
Normalità. Ecco che cosa indaga “Polvere”, ultimo spettacolo di Saverio La Ruina, ecco perché mi ha disturbato, inquietato, fatto arrabbiare. Indaga la normalità, prova a chiedere a ciascuna e a ciascuno seduti in platea che cosa è normale, qual è la tua personale misura in una relazione che si vorrebbe d’amore (e che in parte o all’inizio o in qualche momento, o in qualche maniera, è anche amore). Alza la polvere, come da titolo, confonde, sovverte. E lo fa in maniera inquisitoria, chirurgica… quanto lontana dalle parole di Vittoria – protagonista de La Borto – e di Pasqualina – sempre lui Saverio a dar voce alla protagonista di Dissonorata – parole che erano viscere e sangue e coraggio e ironia, che erano meraviglioso dialetto calabrese che risuonava di mille storie, di mille vite. Che commuoveva, faceva ridere e piangere […]
[…] il coinvolgimento è sempre crescente, quasi toglie il fiato, provocando via via un senso di paura, scoramento, rabbia in chi guarda. Perché il teatro, a differenza di televisione o cinema, trae forza dal momento, dalle parole che arrivano dirette al cuore e allo stomaco come frecce scoccate con estrema precisione, dai silenzi intervallati dagli inserti musicali originali perfettamente incastonati in una sorta di mosaico della tortura quotidiana […] Con coraggio, determinazione, una sensibilità profondissima che da sempre ne ha caratterizzato la scrittura, attraverso una parola affilata, tagliente, precisa, attraverso gesti reiterati La Ruina abbandona la forma monologante che con “Dissonorata” prima e ” La Borto” dopo gli ha permesso di tratteggiare personaggi femminili indimenticabili […] una perfetta struttura che La Ruina restituisce stavolta in italiano, abbandonando – ed è questa un’altra novità, un altro rischio, un’altra scommessa che il più volte premio Ubu vince – il dialetto calabrese, per rivestire di universalità la storia raccontata. […]
[…] La replica vista a Castrovillari ha segnato il cambio dell’attrice che affianca La Ruina, non più Jo Lattari, che ha collaborato anche alla drammaturgia, ma la messinese Cecilia Foti, convincente nel dare corpo ad una storia dove la violenza non deflagra quasi mai, ma scorre e cresce subdola e sotterranea tra gli sguardi dolorosi e le parole cercate e quelle non dette. La “Polvere” di La Ruina, quella di una coppia che si ama e si distrugge, trova nella Foti interprete sensibile e recettiva, capace di rendere palese un’involuzione, di trasformarsi in donna succube e impotente.
[…] Saverio La Ruina, in Polvere – dialogo tra uomo e donna, per denunciare una drammatica realtà che molte volte fa sentire la sua voce, ma che ancora più volte resta taciuta, fa un originale percorso a ritroso, portando in scena l’anticamera di delitti efferati, dei femminicidi: l’annullamento della mente che precede la mortificazione del corpo. […]Un gioco impari tra la vittima e il suo carnefice, fatto di omissioni e reticenze, di complicità e paura, sporcato dalla polvere dei frantumi di un amore, o di quel che ne resta. La parola amore viene pronunciata spesso, quasi abusata nella pièce: amore come pretesto di appartenenza e, ancor più, di possesso, l’amore che vince anche la morte, l’amore che giustifica la gelosia. La parola amore che alla fine, in un ossimoro violento, come un pugno nello stomaco, esce dalle labbra di lui, chino sul pavimento con lei morente tra le sue braccia: Tanto poi facciamo l’amore e passa tutto. Settanta minuti per guardare. Settanta minuti per ascoltare. Settanta minuti per riflettere. Polvere – dialogo tra uomo e donna di Saverio La Ruina, con una magistrale interpretazione di Saverio La Ruina e Cecilia Foti.
Uscire da quel minuscolo teatro di periferia con la netta sensazione di aver spiato una vita che non ti appartiene ma nella quale ti ritrovi rumorosamente incastrato. Uscire da un teatro intimo e quasi nascosto e sentire mille mormorii provenienti da persone che hanno ricevuto un pugno allo stomaco ma che non hanno la forza di replicare. Come te. Uscire da un teatro e sentirsi stranamente pieni. Traboccanti di un qualcosa di imponderabile. […] Polvere non è solo uno spettacolo teatrale. Polvere è fastidio. Polvere è carne viva. Quella che sanguina. Quella che si riempie di lividi neri ma
invisibili. Che fanno male. Non sempre le botte sono l’unica cosa che rende un corpo inerme. Le parole, se usate come arma, lacerano più in profondità di una coltellata.
[…] Lo spaccato di vita che il drammaturgo ci restituisce, lungi dall’essere circoscritto ad un caso isolato, assume valore universale. A La Ruina va attribuito il merito di essersi saputo calare nella psicologia femminile, riuscendo a decifrare, con inaudita efficacia, senza isterismi né moralismi, i codici della violenza psicologica domestica che, poco affrontata dalle cronache dei quotidiani, è più difficile da riconoscere e, perciò, da sradicare. “Polvere” ben può allora rappresentare un monito e una possibile mano tesa per chi, più o meno consapevolmente, è dentro a questa violenza più subdola di quella fisica, e desidera uscirvi.
[…] La Ruina e Jo Lattari sono straordinari interpreti di una polvere opaca che confonde, fatta di parole che umiliano e feriscono […] E se all’inizio il pubblico sorride di fronte alle assillanti scaramucce tra i due, il tutto diventa ben presto angosciante e drammatico. Ogni frase è ricatto, staffilata che umilia. E poco importa che la, violenza non arrivi al suo compimento più tragico: il femminicidio in questo caso non colpisce il corpo, ma l’anima.
[…] Man mano che si va avanti ogni scena diventa più insopportabile di quella precedente. Il pubblico mormora, lo spazio diventa asfissiante, claustrofobico. Quello che avviene sulla scena tocca tutti, nessuno escluso, un estremo senso di repulsione nei confronti del protagonista maschile che fa rimanere in tensione perché non si è mai certi di quello che succederà nel quadro successivo. Poi, dopo circa settanta minuti, lo spettacolo termina ma lo spettatore rimane spiazzato, non è completamente sicuro che l’incubo sia finito, ha paura che ci sia ancora dell’altro. Il finale, infatti, sembra essere aperto, sospeso. […] La forza espressiva di Polvere, di e con Saverio La Ruina e Cecilia Foti, sta nella forte partecipazione emotiva dello spettatore rispetto a quello che succede in scena. Si attiva un atteggiamento catartico, che nasce proprio dalla avversione che si prova nei confronti del personaggio tanto che quasi si fa fatica ad applaudire per quanto si è coinvolti. Così uno spettacolo del genere diventa uno spettacolo necessario, indispensabile dove l’interpretazione di un tipo diventa l’interpretazione dell’universale. […]
[…] La violenza imposta dalle parole diventa premessa alla violenza successiva, che mai appare in scena, mai è accennata, ma che tutti attendono. È proprio il “limen” invalicabile su cui La Ruina costruisce l’intera storia che rende il tutto profondamente angosciante […] Il pubblico appare coinvolto o infastidito, dimostrando comunque una reazione alla visione e al testo. Non possiamo parlare di denuncia sociale, né di femminicidio vero e proprio, nonostante il discorso potrebbe facilmente scivolare sulla comune e ormai popolare attenzione rivolta all’argomento. In realtà il profondo intimismo che caratterizza questa storia ci trascina violentemente dentro un luogo privato, fisico e psicologico, costringendoci, altrettanto violentemente, ad assistere senza poter far nulla. […]
Tra i tanti (troppi?) spettacoli andati in scena a giugno occorre tornare ad altri appuntamenti della Fabbrica delle Idee […] Ad esempio, al tesissimo “Polvere”, presentato nel parco dell’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi il 19 dalla compagnia calabrese Scena Verticale e in particolare da Saverio La Ruina, drammaturgo, regista e ottimo attore, qua non in uno dei suoi acclamati monologhi (come “La borto” o “Dissonorata”, con cui nel 2007 vinse due Ubu) ma in coppia con Cecilia Foti. Tema implicito del dialogo è la violenza contro le donne, che viene affrontata partendo da una situazione di coppia al limite del banale per poi precipitare progressivamente in una storia di
sopraffazione a tratti insostenibile a vedersi. La Ruina, per una volta, non interpreta una vittima ma un carnefice e lo fa con tale intensità che la sua partner sembra realmente travolta dalle sue assillanti e ossessive sevizie psicologiche (e non solo).
[…] La progressione dell’escalation vessatoria è praticamente geometrica, condotta sulla scena da un Saverio La Ruina magistrale nel comporre il suo personaggio […] Dall’altra parte c’è una donna – l’ottima Cecilia Foti, assai convincente nell’incarnare una credibile donna normale del nostro tempo.
L’altra sera a Bassano per B.motion “Polvere. Dialogo tra uomo e donna”, di Saverio La Ruina, anche interprete con Cecilia Foti (…). Nel lavoro di La Ruina, potente denuncia della violenza sulle donne, il tempo è trattenuto, quasi rallentato nelle singole scene e tra l’una e l’altra. Verrebbe da definirlo reale, non teatrale: lungo e piatto, fatto di ore su ore, giorni su giorni, cornice estenuante nella quale si consuma il rapporto malato tra Lui, uomo all’apparenza moderato e gentile, e Lei, donna solare e trasparente, che finirà con l’essere soffocata dalla polvere velenosa, sporca e asfissiante di un amore non amore, che strappa la dignità, la forza, la vita. Un tempo che sfinisce, come il continuo interrogare di Lui, il suo insinuarsi in Lei, sradicandola dalle radici. Disturba, irrita. Ma va bene così, perché coinvolge nel disagio, nel dolore, nella rabbia per quella rabbia che Lei non riesce ad esprimere. Vorresti urlare, salire sul palco e far cessare quell’assassinio senza sangue, dove a morire è un’anima. Testo folgorante. La Ruina di fredda e tagliente violenza, Foti assoluta e generosa.
[…] Lucido, penetrante e claustrofobico. […] una sequenza di scene nelle quali nasce, cresce e divampa quello che molto presto si presenta come un sentimento lontano dall’amore. I toni sono pacati, le scene scarne e brevi, le parole poche, ma pesanti come macigni. L’angoscia iniziale è velata, grazie alle musiche di Gianfranco De Franco, ma la musica non basta a coprire una chiara ossessione che ci accompagna con un peso alla gola fino alla fine. Questa è l’atmosfera che avvolge i due attori e il pubblico in sala: sono soprattutto i numerosi e ansiosi interrogativi che l’uomo pone alla sua compagna ad entrare nella testa di ogni spettatore. Domande sul passato, sul presente, domande improvvise, ripetitive, banali: “perché hai spostato quella sedia?”. La violenza fisica, quella forse più evidente e dall’esterno più crudele, non è presente, ma sembra esserne il passo successivo, in bilico. […]
Con Polvere Saverio La Ruina porta ancora una volta in scena il tema della violenza sulle donne e lo fa con una storia morbosa e tormentata che colpisce per impatto emotivo e intensità. […] Una storia di malamore incentrata su una dinamica vittima/carnefice subdola e pericolosa che unisce un uomo fragile e vittima delle sue ossessioni, e una donna solare, coraggiosa, vittima inconsapevole di una relazione malata. La Ruina porta così sulla scena il non amore, un rapporto autoreferenziale e malsano, che degrada lentamente verso una forma di persecuzione fisica e psicologica che rende la donna cavia prescelta e inconsapevole dell’egoismo maschile.
[…] Quello che si compie sulla scena è un femminicidio di natura psichica, l’annientamento della donna e delle sue emozioni, la distruzione di un cuore e di un animo. La Ruina riesce così a dare voce a tutte quelle storie di cui nessuno parla, a tutti quei “femminicidi” che si compiono quotidianamente e che la polvere, talvolta, nasconde per sempre. 4/5
[…] Una rappresentazione molto intensa e coinvolgente in cui la parola “amore” viene abusata e svilita; in cui il rapporto di disparità imposto dall’uomo annichilisce la donna; in cui i traumi passati dei personaggi risorgono e, nonostante possano potenzialmente fortificare la relazione, la portano all’atrofia. La violenza fisica nelle relazioni è spesso solo la punta dell’iceberg, una manifestazione ultima e estrema di quelle tensioni sotterranee e latenti che Saverio La Ruina e Cecilia Foti rappresentano mirabilmente in questo spettacolo.
[…] La messa in scena pomeridiana è stata accompagnata da commenti e sussurri irrituali per il pubblico solitamente composto del Teatro del Grillo […] perché qualcuno possa essersi riconosciuto nel dramma scenico o possa aver fatto improvvisa autoanalisi su di sé o su persone vicine; oppure ancora per la pregevole peculiarità di una messa in scena che costringe lo spettatore a subire gli stessi estenuanti interrogatori della donna, inchiodato come lei alla sedia, a subire domande le cui risposte conosce già. […] un testo molto coraggioso, una recitazione accurata senza concessioni agli effetti teatrali ma tutta puntata sulla descrizione analitica del rapporto perverso tra i due, che lascia più di un segno nella memoria e nella riflessione sullo stato dei rapporti di coppia e sul sottilissimo confine tra premure e controllo, ossessione e violenza, “amore” e volontà di annullamento della personalità dell’altro. Da vedere.
[…] un dialogo “a parola armata” dove la parola non ha nulla da dire e una sola cosa da fare: esercitare potere; un dialogo-non-dialogo, che è già violenza, senza esserlo veramente. Le domande, serrate e ripetitive, non domandano, ma affermano, alludono e insinuano. E i silenzi non ascoltano, ma accusano e puniscono. 70 minuti, ben recitati […] l’irritazione degli spettatori raggiunge l’apice, palpabile è la rabbia per la crudeltà psicologica di lui e per l’incomprensibile, pericolosa e dolorosa docilità di lei. Sembra che la violenza si consumi tutta nella parola ma il dialogo, questo dialogo, non è che il preludio alla violenza fisica che fa in tempo ad apparire in un gesto, l’unico, sul corpo, che gela lo spettatore e, forse, ci pare, svegli la vittima: arriva il primo vero “Basta!” Intensissima l’interpretazione di Jo Lattari nell’incarnare il paradosso della complicità della vittima con il proprio carnefice. Bello il testo di La Ruina che cerca di dire che il problema non è solo delle donne, ma anche e soprattutto degli uomini, e che la risposta non è solo nella psicologia, ma anche e soprattutto nella cultura.
Ogni effetto ha la sua causa. Più la causa è rarefatta-impalpabile-subdola più l’effetto che ne conseguirà sarà devastante. Da questi presupposti nasce “Polvere” […] Accade dunque che La Ruina abbandoni il fuoco vivo dei suoi precedenti monologhi, nei quali la violenza veniva mostrata come effetto – difatti, qui, s’abbandona il dialetto, sostituito da un italiano semplice che aumenta la rarefazione del delitto psicologico in compimento -, costruendo una scrittura in apparenza realista ma invero più che mai allegorica – si pensi alla scena della sedia spostata. La morbosità, che nella propria volontà di potenza vorrebbe esserne esaltazione, si trasforma in tentativo d’annullamento dell’Io e dell’Altro – procedimento che il pubblico sembra subire, senza accorgersene, parallelamente al personaggio/vittima: la polvere, dunque, diventa diegetica ad uno sguardo meta-teatrale. La volontà d’amare, paradossalmente e senza scampo, diventa inversamente proporzionale alla capacità di farlo.
[…] Una coppia che emana cattivi odori – di putrido, cadaverici – non è certo cosa rara. Né lo sono gli esercizi di potere all’interno, l’effetto domino, vittima e carnefice, ruoli, spazi, parti. Ma raro è il mostrare in scena delle sembianze appartenenti a ognuno – l’universalità del teatro – sebbene tenute accuratamente nascoste. La scena che smaschera. Che diventa pruriginosa perché ci scandaglia, ci sgama, ci denuda sul palco. La forza drammaturgica e di approdo in platea di Polvere è questa più di altre: provocare. Nel senso di suscitare, coinvolgere, causare reazioni. Sì, l’intensità emotiva non è quella cui Saverio La Ruina ci ha abituato con i suoi spettacoli. Diversi il tratto, la tematica, il recitato. Qualcuno ha detto che la resa ne risente quando l’attore calabrese non è monologante, ingiusto: un artista degno di questo nome è un artista in qualsiasi veste e in qualsiasi prova. La Ruina ha addosso la pelle fatta per la scena. […] Gli attori comunicano in linguaggio d’uso, sebbene borghese e teatralizzato, dialogano in modo serrato, lasciano lo spettatore terzo. Un taglio raccapricciante, un tono di epicità su un drammatico e così ‘naturale’ quotidiano. Lui e lei e la prepotenza, la gelosia ossessiva, il possesso, la violenza psicologica, morale, fisica di lui (in fondo fragilità e insicurezza). E di lei l’amore che fa battere il cuore indifferentemente ai modi, alle sopraffazioni, sentimento che la fa vittima e amante del carnefice. Ma l’ennesima apparente denuncia al violare il femminile sottende in realtà un doppio fondo: le fragilità psicologiche dell’umano e le aberrazioni insite nella stessa natura. Uno sguardo sulla scena osservazione di archetipi, di prototipi. Uno sguardo su noi. La donna è consapevole ma incapace di reagire, predestinata e preda, l’uomo, un uomo come tanti, come tutti, come ognuno nascosto dal segreto delle proprie mura. E la vita appare sul palco. Appare e scompare al buio di sala. Si traveste, si trasforma, si lascia guardare, penetra.
[…] Saverio La Ruina […] Un piacere rivederlo ma anche una sorpresa, nel constatare la sua capacità di rinnovarsi, di cambiare registro come attore, mutando anche la sua autorialità. Interrotti i sentieri del racconto popolare, rinunciando alla sublime, quasi commovente delicatezza con cui dava vita ai suoi personaggi femminili, offrendoci un meridione infelice e rassegnato, musicalissimo nella sua lingua, scolpito nella sua irripetibile e ormai perduta gestualità, Saverio ha volto ora il suo sguardo, quasi con la precisione di un entomologo, a differenti dinamiche dell’agire umano, quella – nello specifico – più recente e attuale della vita di coppia (per questo non è più solo in scena, ma con un’attrice, l’altrettanto brava Cecilia Foti). […] Le modalità con cui La Ruina dipana l’ingranaggio del rapporto hanno del sorprendente, sembrano tratte dalle esperienze di un operatore dei c.d. centri antiviolenza. Interessante, soprattutto, l’operazione sul linguaggio: non più la magmaticità del lessico propria ai precedenti lavori, ma un italiano corrente, monocorde, piatto, pieno di frasi fatte e luoghi comuni; lo accompagna una recitazione a mezza voce leggermente e progressivamente insinuante, comunque inquisitoria, che comunica un senso di oppressione alla vittima ma in certo qual modo anche agli spettatori, che si rendono conto di quanto violenta possa essere l’aggressività psicologica e verbale, non meno di quella fisica. L’attore si è tolto dal centro della scena, ma ha offerto un saggio di quel teatro di parola che recupera solo così il suo tradizionale potere di seduzione sullo spettatore, di convincimento e coinvolgimento nei suoi confronti, ma anche di riflessione da parte sua sulle più subdole manifestazioni della sua vita intima, di cui spesso solo la finzione teatrale riesce a svelare la terribile verità.
[…]è davvero difficile che si torni a teatro per lo stesso spettacolo, […] E’ capitato, nel caso specifico, per le scritture drammaturgiche di questo straordinario autore-attore, sempre intense, profonde, a volte struggenti, altre volte con qualche guizzo d’ironia, a loro modo comunque perfettamente compiute, come partiture musicali, appunto. E, come queste, più godibili all’ascolto che alla lettura, anche quando a connotarle non sono più le sonorità, aspre e dolci al tempo stesso, di una lingua ormai perduta, ma le inflessioni, i toni di una voce suadente, apparentemente dimessa, propria ad un lessico familiare, tuttavia ugualmente inquietante. Che è poi quanto avviene in Polvere […] Le modalità con cui La Ruina dipana l’ingranaggio del rapporto hanno del sorprendente; interessante, soprattutto, l’operazione sul linguaggio, […] un italiano corrente, monocorde, piatto, pieno di frasi fatte e luoghi comuni, sottilmente rilevati. Lo accompagna una recitazione a mezza voce, leggermente e progressivamente insinuante, comunque inquisitoria, che comunica un senso di oppressione alla vittima e, in certo qual modo, anche agli spettatori, che si rendono conto di quanto violenta possa essere l’aggressività psicologica e verbale, non meno di quella fisica.
[…] “Dissonorata”, “la Borto” e “Polvere (dialogo tra uomo e donna)”[…]un crescendo di emozioni rossiniano, in cui le capacità di La Ruina, di modulare corpo e voce, hanno messo a nudo la forza, le difficoltà e le paure delle donne: ieri come oggi, nella Calabria più primitiva così come in una moderna metropoli, vittime coraggiose del morboso bisogno maschile ed ancestrale di averne il controllo […] In tutti e tre i casi è lo sguardo del drammaturgo sul mondo femminile che viene proposto cristallino, invadente ed emozionante. Tanto invadente che Saverio La Ruina non sceglie di guardare ognuna delle protagoniste dall’esterno, come fosse il narratore onnisciente di un romanzo ottocentesco, ma diventa lui stesso ognuna di loro esprimendosi con la loro voce, con le loro sensazioni, con le loro forze e debolezze. Una immedesimazione che parte dalla scrittura, per tutti e tre i testi, e che diventa totale quando l’artista si presenta davanti al pubblico su di una sedia, unico elemento scenico, indossando gli abiti e le anime delle protagoniste, come in Dissonorata e la Borto. […] Saverio La Ruina, in questo complesso processo di analisi, non sbaglia un colpo a partire dalla gestione del corpo: nessun movimento e nessuna espressione risultano mai fuori posto anche laddove la tentazione di cedere alla retorica e al sentimentalismo si fa pressante. Il linguaggio stesso, significativo nella sua caratterizzazione territoriale inequivocabile, è tanto importante nella forma quanto talvolta si fa quasi superfluo nel contenuto. Bastano infatti gli sguardi, le movenze delle mani e il tono della voce a squarciare il velo dell’indifferenza per assistere alla cruda realtà dei fatti[…] Mai nulla nel trittico a cui abbiamo assistito è apparso stonato ed evidente è il lavoro di cura e affinamento che hanno preceduto la scrittura di ognuno dei tre testi, a partire dall’esperienza con i centri antiviolenza per raccogliere testimonianze e confessioni. La drammaturgia impietosamente vera di Saverio La Ruina diventa pertanto un’autentica forma di Verismo contemporaneo […] in questo lungo percorso, compiuto quasi completamente in solitaria, spicca, oltre alle suggestioni delle musiche di De Franco, l’interpretazione sommessa ed efficace di Cecilia Foti in Polvere. […] Anche in questo caso una prestazione fatta di una gestualità attenta, che non sfiora mai la caricatura, nel rispetto del profondo dissidio interiore che la protagonista sta vivendo e subendo.[…] Chiunque possa pensare che quello proposto al Magnolfi sia un trittico riservato ad un pubblico esclusivamente femminile, compie un grosso sbaglio. Saverio La Ruina, infatti, sfrutta le storie di tre donne, eroine a loro modo, per smascherare quanto ancora manca all’evoluzione del pensiero maschile per poter raggiungere quello stesso livello di forza e dignità. Se le spettatrici escono dalla sala con la rabbia dell’ingiustizia che sono storicamente costrette a subire, ogni spettatore ne esce denudato, impoverito di tante certezze e arricchito di indignazione verso il proprio essere tanto da vergognarsi a guardare negli occhi le donne alla riaccensione delle luci in platea. Ogni emozione ed ogni sensazione instillano un desiderio di rivalsa e di cambiamento che rendono il teatro di Saverio La Ruina un potente mezzo di introspezione personale e collettiva, fine ultimo di quello che noi intendiamo il Teatro.
Saverio La Ruina è il drammaturgo vivente più immenso nel saper regalare alla platea colpi allo stomaco talmente profondi capaci di restare addosso per anni. Il suo teatro, semplice, racchiude nelle sue “storie” personaggi di una delicatezza inarrivabile, donne del sud arrese ai propri destini fatti di tragedie. Donne finite, abusate, calpestate. Vive, però, nella potenza rappresentativa del teatro. In Dissonorata (Premio UBU 2007 “Migliore attore italiano”, Premio UBU 2007 “Migliore testo italiano”, Premio Hystrio alla Drammaturgia 2010, Premio ETI – Gli Olimpici del Teatro 2007 – Nomination “Migliore interprete di monologo”, Premio Ugo Betti per la drammaturgia 2008 – “Segnalazione speciale” e Premio G. Matteotti 2007 – “Segnalazione della commissione”) la protagonista (Pascalina) è una donna del Sud che racconta la trasfigurazione di un amore in un incubo: la donna “rotta” da quello che tutti chiamano affetto subisce la violenza della propria famiglia, il suo onore macchiato dal sesso viene condannato con l’ustione del volto. Una cattiveria senza giustificazioni, una legge mai scritta per punire la libertà. Il racconto di La Ruina disegna l’innocenza della donna e le sue parole sembrano una ballata, soave, fino al momento crudele della sottomissione senza possibilità di difendersi. Dissonorata è un capolavoro, un manifesto indiscusso alla salvaguardia della libertà femminile. Le strofe della recitazione di Saverio La Ruina sono abilmente guidate dai fiati musicali del maestro Gianfranco De Franco, colonna sonora perfetta per accarezzare la vita sottile della povera protagonista.
Il monologo La Borto (Premio Ubu come Migliore testo italiano e Premio Hystrio per la Drammaturgia) è (cronologicamente) il secondo fortunatissimo esperimento sul tema, in questo racconto La Ruina, sempre nel suo dialetto calabrese melodioso e carico di gerghi radicati a rendere vive le immagini raccontate, ci presenta Vittoria, una donna data in sposa a 13 anni ad un uomo brutto che non ama da cui ha già avuto sette figli. Il meccanismo del parto non voluto e reiterato viene narrato con il solito melodioso contraltare musicale (Gianfranco De Franco, di spalle, non spia la vicenda, si limita a colorarla di note) finché la tragedia (l’aborto) appare raccontata con tanta crudezza quanta incoscienza possa concepire una mente dilaniata dalla sofferenza. Ferri arrugginiti e nessun antibiotico, il ventre della donna è ancora una volta violato, non più dalla carne ma dalla rudezza di un’altra donna che “raschia” via il feto. La donna ancora una volta vittima della società maschile rinuncia a se stessa, esprime la libertà e ne paga le conseguenze atroci. Il monologo assume livelli onirici quando la protagonista sogna un dialogo con un Cristo silenzioso che non da nessuna risposta. Le lacrime cascano nello stesso momento in cui si ride. Polvere (Premio Lo Straniero 2015, Premio Enriquez 2015 alla Drammaturgia, Premio Enriquez 2015 Miglior Attore, Premio Annibale Ruccello 2015 alla drammaturgia) non appartiene alla trilogia dei monologhi (con Italianesi, Premio Ubu come Migliore attore per l’interpretazione) di cui fanno parte Dissonorata e La Borto. In questo spettacolo La Ruina non è da solo in scena: si sveste dai panni “femminili” delle sue eroine del sud e smaschera il suo teatro anche di quel dialetto calabrese irrobustito e conclamato nella prova attoriale di Italianesi. In Polvere, La Ruina sceglie di mostrare la donna in carne, ossa e corpo (bravissima Cecilia Foti, al suo fianco) e lui disegna per sé il ruolo del Maschio. Un maschio che morde, con le parole e con le invasioni gelose da Otello del sud, la vita della sua compagna, condannata a dover subire le continue superbie paranoiche dell’uomo. Una storia, apparentemente d’amore, che si sbriciola sotto ai colpi violenti delle parole, una forma di violenza ben più nociva di quella fisica: uomo e donna racchiusi nel rettangolo amoroso di una casa-prigione si annientano a vicenda, o meglio, lui annienta lei supponendo e investigando ogni dettaglio della sua vita passata. La coppia si cela, rattrappita e ingabbiata, sotto al manto polveroso della diffidenza: uomo reo e donna succube. Antipasto crudele, nella visione di La Ruina, del culmine di tante tragedie di cronaca nera in cui spesso la donna, spenta e impolverata, subisce addirittura l’omicidio. Troppo pochi i Premi ricevuti per commisurare la potenza interpretativa, drammaturgica e sociale di questi splendori del Teatro Italiano. Saverio La Ruina è e sarà indiscutibilmente uno dei Maestri e dei vanti della nostra Italia nelle epoche a venire. Complimenti al Teatro Quarticciolo, che ha innescato questa trilogia sul “femminicidio” nel periodo della ricorrenza della giornata a ricordo di tutte le donne (repliche il 22, 23 e 24 novembre) violate dal sopruso maschilista, familiarista o sociale.
[…] meraviglioso e terrificante quadretto familiare, fatto di perfide rassicurazioni, sottili e subdoli ricatti, altalene psicotiche di profonda tenerezza miste a processi sommari, sentenze e, quasi sempre, violenze, Saverio La Ruina svuota come sempre il palcoscenico e si avvale di Cecilia Foti e della sua grande interpretazione di una donna che sta lentamente provando a dimenticare e cancellare una violenza sessuale subita e della quale ha preferito tacere[…]Una storia crudissima, Polvere, che somiglia decisamente poco alla poesia sussurrata e codificata, fino alla mimetizzazione, delle altre denunce di Saverio La Ruina, ma che non per questo decreti effetti meno destabilizzanti […] Una bella e indispensabile lezione di vita, che il teatro, più che nelle scuole, dovrebbe portare nelle case dei genitori degli studenti; è lì, che si materializza la Polvere.
L’attualità dell’argomento e la potenza evocativa della messa in scena: ‘Polvere’ ha lasciato il segno. […] l’accortezza minuziosa della scrittura scava nell’inconscio di ognuna delle due metà della coppia sul palco, ma anche di quelle in platea. […] Difficile addentrarsi in valutazioni meramente teatrali in uno spettacolo che scorre lento ma inesorabile, e la scelta registica appare tutt’altro che casuale. Fondamentale soffermarsi invece sulla potenza visiva ed emotiva della messa in scena. Un qualcosa che – nel profondo Sud che La Ruina ben conosce, ma non solo – può costituire un potente mezzo educativo ancor prima che artistico. Perché conoscere (e riconoscersi) attraverso il teatro, può aiutare più di qualsiasi speciale tv in prime time.
[…] «Amore» una parola ovattata, usata come strumento di tortura. Non solo di botte è fatta la violenza. Trova terreno fertile in parole scontrose, in gesti prepotenti, in prevaricazioni, umiliazioni e sottomissioni. […] Si ha sempre il desiderio di salire in scena e aiutare la malcapitata, o di consigliarle di scappare via, ma non resta solo che l’interrogarsi su se stessi. Dopo “Polvere” rimane una catarsi che ha bisogno di tempo per trovare pace, e poi commossi applausi.
[…] Ogni scena è un crescendo di tensione che non trova finale e che non arriva mai allo scontro fisico. Perché la violenza che La Ruina racconta è più sottile, intima e quotidiana, giocata sullo scontro verbale e gesti offensivi che portano il rapporto a due a logorarsi nel tempo, dove l’egoismo maschile cresce e la sicurezza della donna diminuisce. […] Un’analisi cinica e masochista, minuziosa nei particolari, il raffinato testo dell’attore castrovillarese. Un linguaggio rude interrotto da pause che inchiodano lo spettatore alle poltrone. […] L’elegante gestualità di La Ruina arriva fino in platea. Le mani usate coreograficamente come strumento musicale, tamburellando sulla sedia, evocano con perfetta maniacalità il senso del dramma.
[…] La Ruina, con la sua suadente voce, porta il pubblico per mano all’interno di questa narrazione dove l’inquietudine e la rabbia si mescolano talvolta ai sorrisi nei momenti cardine delle inquisizioni, assurde e senza senso, che la donna, a capo chino, accetta senza proferire parola se non quella voluta e dettata dall’uomo […] Cecilia Foti è la voce, il volto, il corpo delle donne che ogni giorno non vivono più la loro vita. Non sono più donne, non sono più madri, non sono più amiche, ma sono oggetti contro cui scaraventare insicurezze, rabbia, odio, violenze. Azioni e sentimenti, che si nascondono dietro la bieca convinzione che è amore, e che tutto si aggiusta con un abbraccio.
[…] Un’ennesima violenza morale e psicologica che accompagna, purtroppo spesso, agiti fisici, come quelli che accadranno, di lì a poco, sulla scena di Polvere. Sulla sedia la mediatrice, che ascolta i configgenti ripetere la lunga e ritrita teoria di dati, fatti, sgarbi e molestie, avverte i sentiti, non detti, di disagio, fatica, dolore, paura, angoscia; li riceve in tutto il loro peso urticante e spaventoso. Esattamente come gli spettatori inermi e spiazzati, mentre provano a trovare una posizione più comoda sulla poltrona del teatro e a consolarsi con una parola sussurrata alla vicina. Un brusio di malessere e insofferenza che la mediatrice trasforma, prima di tutto dentro di sé, in empatia, in contatto emotivo con quella parte, per molti inesplorata e analfabetizzata, che chiede urgentemente ascolto. Ascolto e riconoscimento dell’ umanità di ciascuno al di là dei personaggi, delle maschere e dei ruoli.
[…] La Ruina un grande autore e interprete di teatro “storico” e politico. […] Nella parte finale dello spettacolo in cui riusciamo ad immedesimarci con grande partecipazione e sofferenza, la donna, interpretata dalla dolcissima, leggerissima e, per alcuni aspetti, “ingenua” Cecilia Foti nella sua interpretazione, appare una laica “Pietà”, quasi immagine del Cristo crocifisso, tra le braccia del suo subdolo inquisitore e torturatore. […] In “Polvere”, come in altre sue opere, il teatro di Saverio La Ruina, pur partendo dalla microstoria, da storie particolari tutte vere ( la finzione teatrale è realtà ), si innalza al livello dell’universalità, diventando storia narrata […] Nel lavoro, che scenograficamente può sembrare minimalista, vi è grande potenza drammaturgica e un contenuto immenso di grande eticità. […] Il pubblico numerosissimo nelle sei serate, ha applaudito con grande entusiasmo Saverio e Cecilia e certamente è in attesa della prossima opera.
[…] Mi ha colpito, particolarmente, oltre per la bravura degli attori, per l’originalità della trama e per la delicatezza e profondità con cui viene trattato il tema della violenza di genere, nell’aspetto, soprattutto, dell’abuso psicologico e del maltrattamento, oltre che l’aspetto della violenza sessuale e la violenza domestica, subita nella sofferenza a volte pure isterica della donna e nell’indifferenza dell’uomo.
Un dialogo serrato quello dispiegato tra lo stesso attore calabrese e Cecilia Foti, dalle intenzioni nouvelle vague che impreziosiscono la prima parte (l’attrice come rediviva Jeanne Moreau, ispirazioni in stile Louis Malle) alle tensioni latine del finale prodotte da asprezze provinciali e ruvidezze comunicative. […] Il pubblico rumoreggia più volte, segno di un transfert forse atipico per le attuali produzioni teatrali. Grazie all’abilità degli attori – al netto di manierismi e semplificazioni necessari per allargare il campo dal particolare all’universale – interpreti di un disagio diffuso soprattutto in Meridione: il sano spirito di provincia, più resistente di ogni modernità.
[…] Splendidi i dialoghi che fanno vivere questo percorso attraverso gesti, atteggiamenti e sguardi che minano la donna nella sua dignità fino ad umiliarla nella sua intimità. Uno spettacolo da non perdere.