Una delle più significative sorprese del festival ci veniva poi offerta da un altro dei padroni di casa, Dario De Luca, a partire da un’antica fiaba calabrese […] è davvero sorprendente la polifonia di voci realizzata dall’attore, tra le chiacchiere del paese e i dialoghi dei protagonisti, evocando luoghi incantati, mescolando grida, canti e sussurri, passando dal verso alla prosa, dall’italiano al dialetto, e sviluppando una ricca fioritura di sguardi e gesti, in contrappunto con il clarinetto, il flauto e il magico theremin di Gianfranco De Franco. Fino al finale aperto, per cui è il pubblico femminile a scegliere una conclusione tra le tre suggerite, e in questo modo si rivela quanto quei fantasiosi avvenimenti non siano poi così lontani da noi.
Una favola antica. Una principessa moderna. Una storia d’amore a finale da decidere. Il “Re Pippuzzu” in calabrese si fa capire da tutti e dimostra che il teatro di narrazione non è morto
Storie d’amore o d’avventura, raccontate con la stessa semplicità e passione dei menestrelli medioevali, finiscono sempre per conquistarci, grandi e piccini. Certe fiabe, si sa, sono per tutte età e per tutte le lingue, quasi universali, anche quelle in dialetto, così musicali alle orecchie di chiunque si metta in ascolto. E non importa da quale regione proveniate, il dialetto è lingua viva e ammaliatrice. […] “Re Pipuzzu fattu o manu. Melologo calabrese per tre finali” di e con Dario De Luca e Gianfranco De Franco, un piccolo gioiellino capace di far vibrare il pubblico.
Dario De Luca, regista, autore e attore (fondatore della compagnia Scena Verticale con Saverio La Ruina) a piedi nudi e in gonna lunga ci racconta la storia di Re Pepe. Anzi no, di Reginotta, vera protagonista di questa storia, una donna moderna, libera, coraggiosa soprattutto per una storia antica come questa, liberamente tratta dalla fiaba calabrese “Re Pepe” raccolta da Letterio Di Francia e riscritta da Marcello D’Alessandro (Italo Calvino l’aveva inserita nella sua raccolta “Fiabe italiane” con il titolo “Il reuccio fatto a mano”).
Di fronte alla richiesta insistente del re padre affinché si trovi un marito Reginotta cosa fa? Decide di impastarlo con le proprie mani: acqua, zucchero, farina, e un bel peperoncino al posto della bocca. E sei mesi dopo ecco pronto un marito fatto proprio come voleva lei, altro che eterna attesa del principe azzurro… Ma un giorno lo “malu ventu” se lo porta via. Reginotta si metterà in viaggio alla ricerca del suo sposo, incontrerà degli eremiti, fino ad arrivare dalla Draghessa, donna malvagia che a modo suo dovrà sfidare. Il pubblico segue parola per parola. Segue i movimenti del setaccio che De Luca continua ad agitare, impastando nello stesso tempo il dialetto calabrese con suoni, filastrocche, modi di dire amplificati dagli strumenti della tradizione (in particolare il theremin) e dall’elettronica moderna di Gianfranco De Franco. Insieme ci raccontano un’antica fiaba modernissima, dove a scegliere il finale – fra i tre proposti da De Luca – sarà proprio il pubblico.
Chi pensa che il teatro di narrazione sia morto si sbaglia. Basta svuotare il palcoscenico di scenografie costose o ingombranti e riempirlo di arte e talento per rendere grande anche un piccolo spettacolo.
Un biscotto per marito: la novella femminista di Dario De Luca
L’attore calabrese arriva a Roma con Re Pipuzzu fattu a manu, fantastico melologo calabrese per tre finali con i paesaggi sonori di Gianfranco De Franco. Al teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma domenica 12 novembre alle ore 17.
RUMOR(S)CENA – ROMA – È una di quelle perle da non perdersi Re Pipuzzu fattu a manu, melologo calabrese per tre finali di Dario De Luca che fa capolino a Roma. La gestazione è stata lunga, addirittura pre-pandemia, quando in felice sintonia con Gianfranco De Franco (responsabile dei paesaggi sonori di questa fiaba bella), l’attore di Scena Verticale si è dedicato a cesellare una storia dagli echi radicati nella tradizione con accenti dialettali sulla scorta del lavoro di Letterio Di Francia, studioso di fine Ottocento appassionato di novellistica e dalla riscrittura di Marcello D’Alessandro.
Re Pepe – da cui è stato ispirato il melologo – si trasforma così in racconto moderno dal sapore antico, capovolgendo le prospettive e aprendo finali a piacimento. La protagonista assoluta diventa la Reginotta, figlia del solito re che la vorrebbe maritata come si conviene nei menù familiari dell’aristocrazia, ma la fanciulla non ci sta. Questo pretendente è brutto, l’altro noioso. C’è chi puzza e chi è cecato. Per carità che campionario scadente! Alla fine, tuttavia, deve trovare un compromesso dietro le insistenze paterne e così se lo fa a mano, impasta farina e zucchero e se lo biscotta come meglio crede. Si scorda il sale però e quindi gli viene un marito un po’ sciocchino, ma fa lo stesso, anzi meglio che la Reginotta sa gestire la vita di entrambi. Almeno finché la Draghessa non ci mette lo zampino e si invaghisce del re biscotto. Fine delle anticipazioni, perché non vogliamo spoilerare oltre: il melologo va visto dal vivo, imperdibilmente!
Dario De Luca è una macchina da guerra, un contastorie – ovvero un cantastorie in versione più attoriale – che macina parole come un magico carillon. Alza un sopracciglio e si fa sovrano imperioso, diventa felpato ed eccolo trasformarsi in reginotta astuta. Fra sbuffi di fumo e stridio di metalli eccolo virare in Draghessa. E’ un one man show affabulante, in ritmica sintonia con i fischi, i suoni, le percussioni del suo complice sonoro, De Franco.
Re Pipuzzu fattu a manu è la dimostrazione che il teatro può essere meraviglia anche senza dispendio tecnologico sgargiante. Come diceva Peter Brook basta un attore (bravo) e uno spettatore. Qui, poi, c’è anche l’accompagnatore di suoni e un immaginario crepitìo del fuoco attorno al quale raccogliersi tutti come bimbi, grandi e piccini e persino nonni. C’è solo il rammarico che questo piccolo grande spettacolo non giri dappertutto come meriterebbe. A Roma avete una possibilità: non perdetela. Io ve l’ho detto.
La definizione “fiaba per adulti” sembra una contraddizione in termini. In vece è la perfetta sintesi per descrivere Re Pipuzzu, favola calabrese ripresa anche da Calvino nella sua antologia che ci porta dentro storie medievali di dame e cavalieri. Un narratore, Dario De Luca in grande for ma, in gonna da far venire invidia a Damiano dei Måneskin, e un musicista, Gianfranco De Franco, che spazia tra campana tibetana, flauto traverso, theremin e tastiere per creare un suono che non è semplice tappeto ma, a tutti gli effetti, un dialogo con le parole secolari del racconto. O meglio del cunto alla maniera di Mimmo Cuticchio o Davide Enia quando De Luca, sulla sua sediola, si inerpica in gesti e movimenti di mani e braccia, a staccare le sillabe, a cercare un tempo, un ritmo, una scansione sintattica. In un Paese lontano la figlia del Re, Reginotta, deve prendere marito ma nessuno le va bene. Allora decide di farselo da sola, con le proprie mani: acqua, farina, zucchero, lievito e impastando esce fuori questo omino di burro, pupazzo di pastafrolla. Nel miscelare gli ingredienti aggiunge tutte le qualità necessarie per il proprio modello di uomo: intelligenza, bontà, passione, fedeltà, simpatia, gelosia, solo che la boccetta del coraggio le cade a terra rompendosi. È anche una narrazione on the road, una sorta di romanzo di formazione perché Reginotta, una volta che il marito è rapito dalla Draghessa (come una Circe per Ulisse), va a cercarlo e, tra mille difficoltà e prove da superare, riesce a liberarlo dalle catene e dal giogo, psicologico e fisico, del mostro. È Reginotta la forte tra i due. Ma il dubbio finale, se riaccogliere Pipuzzu a palazzo dopo il tradimento (non aveva opposto resistenza essendo mancante di coraggio), deve essere sciolto dal pubblico in sala che voterà una delle tre soluzioni proposte, interagendo e scegliendo di fatto il finale che fa partecipare rumoreggiando e divertendosi la platea. Una narrazione vibrante, piena di sprint, gagliarda e fresca. Ci ha ricordato, come atmosfere, La bella Rosaspina addormentata di Emma Dante.
Si tratta di un racconto popolare scovato dal fine letterato Letterio di Francia, nato a Palmi nel 1877, il quale si interessò alle tradizioni della Calabria mettendo insieme una enorme raccolta di fiabe poi incluse nella antologia Fiabe e Novelle calabresi, pubblicata nel 1929. Sono tutte di grande bellezza e potenza immaginifica. Storie tramandate oralmente di generazione in generazione soprattutto dalle donne e che evocano gli odori, i sapori e il fruscio degli alberi di quella terra.
Il melologo di De Luca è liberamente tratto dalla fiaba Re Pepe e si avvale della riscrittura di Marcello D’Alessandro. A dispetto del titolo, la vera protagonista della storia è Reginotta, una ragazza intraprendente e volitiva che il marito vuole sceglierselo da sé, anzi, se lo vuole costruire con le proprie mani. Il povero padre vedovo non può che accontentala, visto che la figlia ha rifiutato i pretendenti più appetibili. Nessuna donna avrebbe snobbato un Roderigo di Castiglia, un Giannetto dell’Orbo, un Aldobrando dell’Aglione e tanti alti ancora. A uno puzzano i piedi, all’altro l’alito, un altro ancora è cieco da un occhio. Impossibile accontentarla.
Ma come si fa a crearsi un marito? Il padre le dà grosse quantità di zucchero e farina e lei con molta pazienza setaccia la farina e poi la impasta. Ci aggiunge tanta intelligenza, una buona dose di bontà, una bella quantità di simpatia, quel tanto che basta di gelosia, tanta fedeltà e tanta passione e poco coraggio, perché l’ampolla che lo conteneva, nel frattempo. si era rotta. Al posto della bocca mette un peperoncino rosso fuoco. Ci mette sei mesi e ne impiega altri sei per dargli la parola. Quando il marito è pronto, lei lo porta fuori in carrozza ma, come in ogni fiaba che si rispetti, sopraggiunge un colpo di scena. Il vento si porta via Re Pepe e Reginotta rimane sola e disperata. Ma non demorde. Si mette in viaggio per cercarlo affrontando numerosi pericoli. Attraversa terre abitate solo da belve e serpenti. Una specie di viaggio iniziatico in cui deve superare tante prove di coraggio. Incontra tre eremiti che la omaggiano con una castagna, una noce e una nocciola, Questi doni sono magici e sono la chiave di volta per ritrovare l’amato re.
Il racconto lascia con il fiato sospeso e crea momenti di suspence che attanagliano l’attenzione degli spettatori. Non è il caso di proseguire il racconto o di svelare come va a finire, anche perché si spera vivamente che questo spettacolo possa permettersi una tournée in tutta Italia.
De Luca possiede capacità interpretative mirabolanti. Vestito con una gonnella morbida verde chiaro e una maglietta bianca, non si limita certo a raccontare fatti nel suo comprensibilissimo dialetto calabrese. Il suo camaleontismo vocale, la sua mimica facciale che modifica di continuo, i suoi doppi sensi sensuali appena sfiorati, il suo dolce cantilenare interrotto di quando in quando da brusche battute comiche, contribuiscono non poco a dar corpo ai numerosi personaggi ai quali dà voce. E i personaggi sono davvero tanti. Oltre ai protagonisti principali, ci sono i vicini di casa impiccioni, gli eremiti, la Draghessa che con semplici effetti di luce appare come una dragqueen di oggi, la sua ancella timorosa, i carcerati della prigione vicina al sontuoso palazzo della Draghessa. Tutti vivono di vita propria, soprattutto Reginotta e la sua rivale, ma non è difficile immaginare anche gli altri, grazie alle mutevoli tonalità vocali e alla ricca gestualità di De Luca.
Al suo fianco c’è il grande musicista Gianfranco De Franco circondato da controller del suono e dal theremin, che alterna musiche e suoni elettronici, con il canto del suo flauto . La miscela di parole e musica è perfetta e l’uso di strumenti più contemporanei, ci ricorda che quella antica fiaba di fatto è molto attuale perché si incentra su una donna finalmente libera dalle convenzioni sociali, una donna che sa quello che vuole e che persegue i suoi obiettivi con coraggio e determinazione.
Il pubblico viene coinvolto fino alla fine quando De Luca chiede, soprattutto alle signore, quale dei tre finali possibili vorrebbero scegliere.
Applausi scroscianti e tanto entusiasmo per questo vero capolavoro teatrale.
“La fiaba è cosa da ascoltare, in cui gesto e intonazione, mimica e pause, tengono un ruolo capitale. Ancora un passo e diremo tranquillamente che la fiaba è un genere teatrale, che postula un recitante e un pubblico, anche ridotto a un ascoltatore solitario”. Così scriveva nel 1979 Edoardo Sanguineti a margine di una delle settecentesche Fiabe teatrali di Carlo Gozzi, La donna serpente, ribadendo ancora una volta l’evidente porosità di fiaba e teatro, entrambi luoghi di oralità e finzione. Tempo e spazio speciali di sospensione sono quelli del teatro, proprio come accade nelle fiabe in cui, già a partire dall’iniziale formula incantatoria del “c’era una volta”, le leggi sono sospese e le ambientazioni spazio-temporali sono subito messe in crisi. Ma le fiabe sono anche cosa da ascoltare, e un’ulteriore, felice conferma della loro intima vocazione performativa è arrivata anche in quest’edizione di Primavera dei Teatri, dal cunto di Re Pipuzzu fattu a manu. Melologo calabrese per tre finali, restituito con energia ed efficacia dal condirettore artistico del festival Dario De Luca, regista e interprete della fiaba, accompagnato dalle ottime sonorizzazioni del polistrumentista Gianfranco De Franco.
Il cunto di De Luca è liberamente tratto dalla storia di Re Pepe inclusa nella raccolta di fiabe e novelle calabresi che Letterio Di Francia, fine umanista ed etnografo di Palmi, aveva trascritto all’inizio del secolo scorso dalla voce di “valenti novellatrici ” e “bravi novellatori”, e pubblicato nel calabrese della sua zona con testo italiano a fronte in due importanti volumi nel 1929 (ora disponibili presso Donzelli in due versioni, una scientifica in doppia versione dialetto-italiano a cura di Bianca Lazzaro, e un’editio minor, della stessa curatrice e solo in italiano, dal titolo Re Pepe e il vento magico); e da quel repertorio avrebbe attinto anche Italo Calvino nel 1956, prendendo a prestito cinque storie per le sue Fiabe italiane.
Anche questa fiaba, ritradotta da De Luca nel suo dialetto cosentino con utili innesti in italiano, è aperta dal consueto “c’era una volta” che crea subito incantamento nei bambini, e non solo (“C’era na vota, na vota, na vota c’era nu Re. / C’a mugliera l’era morta, lassànnuli na figlia… Reginotta”). A dispetto del titolo, protagonista della storia non è Re Pipuzzu, ma una donna caparbia e coraggiosa di nome Reginotta, che di fronte all’insistenza del padre perché si trovi finalmente un marito, decide di prendere farina e zucchero e di impastarselo con le sue mani. E mentre impasta a piedi nudi e gonna lunga a balze, Reginotta-De Luca intona una filastrocca propiziatoria (“Re Pipuzzu fattu a manu / senza nchiostru e calamaru / ccu la forza di su vrazzu / ppi mi fa nu masculazzu”), la cui potenza ritmica è sostenuta sia dalla cadenza rimata dei versi, sia dal sapiente movimento delle mani e del corpo dell’attore. La giovane impiega addirittura sei mesi a modellarsi il marito, e per farlo come si deve unisce all’impasto le giuste dosi di intelligenza, bontà, passione, fedeltà, simpatia e gelosia, e avrebbe aggiunto anche il coraggio, se non fosse che la preziosa ampolla che lo contiene va in frantumi, lasciandone privo Re Pipuzzu. Completa il capolavoro di Reginotta un peperoncino rosso posto sulla bocca del pupo, come buon auspicio per un rapporto amoroso loquace e piccante (quello stesso peperoncino che nella sua versione Calvino avrebbe sistemato al posto del naso). Ma una folata di vento in una giornata di sole si porta via Re Pipuzzu, e toccherà alla indomita Reginotta liberarlo dalle catene d’amore di una Draghessa, complice il potere magico di una castagna, di una noce e di una nocciola che approdano in questa fiaba, per via diretta e indiretta, dalla ’Ntroduzzione che apre il Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, così come dallo stesso Basile e dal suo Pinto Smauto è tratta la suggestione (raccolta di recente anche da Emma Dante) del pupo di zucchero creato dalla protagonista Betta, insieme a molta parte di questo racconto. Ma le fiabe, si sa, sono davvero un “pullulare di motivi che vengono da tutte le parti” (G. Celati, Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, 2011, p. 113), e lo sa bene anche De Luca che, con misura e sapienza attoriale, innesta in questo aggrovigliato intreccio di storie anche voci di paese, echi, colori e suoni della sua terra, vivaci espressioni dialettali che esaltano la portata ritmica dello spettacolo, e che gioca persino al rialzo lasciando al pubblico, incantato e divertito, la facoltà di deciderne il finale.
Sceglie la strada della catarsi, infine, Dario De Luca, consegnandoci una fiaba antica, Re Pipuzzu fattu a mano, un melologo per tre finali che ha orchestrato assieme al polistrumentista Gianfranco De Franco. Raccolta dallo studioso Letterio Di Francia, nella riscrittura di Marcello D’Alessandro, l’antica fiaba calabrese Re Pepe diventa, davanti ai nostri occhi, un laboratorio in cui poter convocare l’infanzia e i suoi prodigi. Il cuntu è un’arte rara che rischia spesso l’eccesso di formalismo, l’implosione virtuosistica. Ecco, in questo caso il pericolo non si è corso. Nonostante l’uso della lingua dialettale, Dario De Luca ha saputo parlare agli spettatori, veri destinatari della sua sapiente affabulazione. Ed è così che, senza difficoltà, abbiamo potuto assistere alla gestazione dello sposo perfetto, quel Re Pipuzzo che una principessa molto poco incline al matrimonio combinato, si crea su misura, impastando farina e zucchero. La fiaba ci parla anche di migrazioni e nomadismo. Sciogliendo le avventure di Pipuzzo e Reginotta su tre possibili finali: saranno gli stessi spettatori a scegliere, divertiti, quale ascoltare.
Che Dario De Luca fosse un bravo attore lo sapevano già, ma non sapevano che fosse pure un formidabile contastorie in grado di ipnotizzare il pubblico di Castrovillari raccontando in dialetto calabrese e in lingua, la favola di Re Pipuzzu fattu a manu, un melologo per tre finali, tratta dalla fiaba Re Pepe di Letterio Di Francia riscritta da Marcello D’Alessandro, accompagnato dalle accattivanti musiche eseguite dal vivo con vari strumenti da Gianfranco De Franco. Agghindato con una lunga gonna verde-oliva, somigliante ad un satrapo seduto su una sedia con un leggio di fronte, De Luca inizia come si conviene con C’era una volta un re …raccontando appunto d’un re rimasto vedovo con una figlia da sposare, qui chiamata Reginotta, una fanciulla tosta che sa il fatto suo, cui non piace nessuno dei pretendenti che il padre le propone. E allora lei decide di farselo con le sue mani come le piace, impastando farina, zucchero e lievito. E voilà Re Pipuzzu l’uomo che sposerà facendola felice. Una gioia purtroppo che dura poco perché un giorno uscendo insieme in carrozza, un vento fortissimo simile ad un tornado lo fa volare via facendolo scomparire alla vista della sua Reginotta. La quale affranta per la perdita andrà a cercarlo per mari e monti, incontrando nel suo cammino tre diversi vecchi saggi dalla lunga barba che le daranno una castagna, una noce e una nocciola, in grado una volta aperte di trovare l’amore suo che nel frattempo ha avuto altre tresche amorose. A De Luca non piace la chiusura zuccherina del “vissero felici e contenti” e allora propone al pubblico della Sala Varcasia tre finali che dovrà votare con alzata di mano. Il primo finale è se la Reginotta dovrà tenersi Re Pipuzzu così come l’ha trovato, il secondo è se deve lasciarlo e il terzo è se deve impastarne uno nuovo. Secondo voi come ha votato la maggioranza del pubblico? E voi lettori come votereste?
Mo vi cuntu in bona sustanza di re Pipuzzu la rumanza, pe chini a vo’ cruda e chini a vo’ cotta vi cuntu ‘i Pipuzzu e d’a Reginotta”.
Tra i molti stimoli che ci sono giunti in questa bella edizione del festival calabrese Primavera dei Teatri di Castrovillari abbiamo deciso di concentrarci su un semplice racconto popolare che ci ha toccato il cuore e la curiosità: “Re Pipuzzu fattu a manu”, raccolto tanti anni fa da Letterio di Francia, e restituitoci teatralmente con vivida accortezza da Dario De Luca.
In tanti anni fra i palchi, il nome di Letterio di Francia non era mai “capitato” in nessuna delle nostre pur numerose frequentazioni vicino alle fiabe o all’immaginario legato ai ragazzi. Se qualcuno ce lo avesse solo accennato, il suo nome, lo avremmo raccordato a un cavaliere medioevale o ad un principe rinascimentale. Invece Letterio di Francia è un raccoglitore di fiabe popolari, come lo sono stati il siciliano Giuseppe Pitrè e il napoletano Giambattista Basile.
Solo che il nostro, che nacque a Palmi nel 1877, si è interessato alle tradizioni di una regione, la Calabria, a cui non eravamo solitamente avvezzi a frequentarne il pur ricco mondo di racconti e fiabe.
E’ grazie al festival Primavera dei Teatri che abbiamo scoperto come Letterio abbia raccolto decine di racconti e, tra gli altri, la fiaba stupefacente “Re Pipuzzu fattu a manu”, che Dario De Luca a Castrovillari ha portato in scena nella riscrittura di Marcello D’Alessandro, definendolo “Melologo calabrese” per tre finali.
Vi si racconta di una principessa, Reginotta, che – insoddisfatta dei pretendenti che le venivano offerti dal padre – il fidanzato se lo costruisce da sé. Ma già dai nomi dei possibili sposi della Principessa, che il regista e autore di Scena Verticale ci presenta, lo spettacolo si fa amare.
Chi non sceglierebbe Roderigo di Castiglia? Leandro di Turnè, Micuzziellu du Timpune? E chi non sposerebbe Almerigo Dellefette, Aldobrando dell’Aglione, Giannetto dell’Orbo, Ernani di Trebisacce, Minicuzzu di Mezzabotta? Gildino di Vuccuzza? Aristobulu della Cerza? Tutte se li contenderebbero, ma lei, Reginotta, a tutti, dice di no!
A uno puzzano i piedi, all’altro il fiato, uno non ci vede da un occhio, insomma sono “tutti ciarciagalli, spampuni, brutti, cicati, pirchi, tamarri e ragapìedi”.
Allora il re si dà per vinto, dà alla figlia zucchero e farina e Reginotta si chiude in una stanza. Prende da una madia un setaccio e comincia ad impastare il suo fidanzato, rifacendolo diverse volte, poiché una volta finito non ne è mai soddisfatta.
Ma intrigante è anche il modo, molto personale, con cui la ragazza se lo costruisce l’uomo della sua vita, perché effettivamente le deve piacere, senza se e senza ma.
Così, con zucchero e farina, da vecchia volpe qual è, ci mette intelligenza (tanta), bontà (mezza dose), una giusta quantità di simpatia, mezza tazza di gelosia, quanto basta di fedeltà (guai se la tradisse, lo disimpasterebbe), tanta passione ovviamente, e un poco di coraggio perché il contenitore si è rovesciato.
Cosa mette al posto della bocca? “Nu pipariuddru: ma russu, add’essa russu russu”. Prende infatti un peperoncino rosso e glielo mette come bocca. Infine, quando dopo un po’ il Principe comincia a parlare, Pipuzzo e Reginotta si sposano con grande felicità di tutti.
Eppure, quando tutto sembra andare per il verso giusto, succede che una tempesta di vento rapisce il nostro principino portandoselo chi sa dove! Certamente vi piacerebbe sapere dove, ma non lo sveleremo. Vi diremo solo che ci saranno, secondo tradizione, un viaggio avventuroso, un aiutante magico, tre prove da superare e un’antagonista davvero particolare.
Non vi diremo nemmeno se la nostra Reginotta riuscirà a trovare il suo Peppuzzu, vi diremo solo che il narratore, conoscendo lo spirito di Reginotta, incuneerà dei dubbi agli spettatori sulla “presunta” fedeltà dell’amato, proponendo tre finali alternativi.
Mescolando sapientemente il dialetto calabrese con l’italiano e la musica, accompagnato con lo straordinario e variegato sussidio sonoro concepito da Gianfranco De Franco, che propone un’alternanza di flauto traverso, clarino, controller del suono e theremin, troviamo Dario De Luca agghindato con una lunga veste, come un antico narratore dal sapore orientale. Infondendo alle parole un’aura quasi sacrale, intrisa di sapida ironia, portatrice di sottotesti sensuali, ci regala un racconto senza tempo, con protagonista finalmente una donna tutt’altro che remissiva, invadendo di letizia e stupore gli spettatori, superando barriere di età e di lingua. E così “Re Pipuzzu fattu a manu, senza nchiostru e calamaru, ccu la forza di su vrazzuppi mi fa nu masculazzu. Ppe sia misi mi ti spastu, ppe sia misi ti rimpastu” ha la forza di restare per molto tempo nella nostra memoria, mantenendo la capacità di poter essere raccontato e tramandato.
Come d’altronde quello di Dario De Luca. Altro componente di Scena Verticale che mette in scena, accompagnato dall’ottimo Gianfranco De Franco, un “cuntu” lussureggiante, fatto di anima e passione popolare. “Re pipuzzu fattu a Manu”, fiaba che incanta. Narra di una regina che un bel giorno il marito decide di costruirselo da sola, con le proprie mani, impastando assieme zucchero e farina… Un racconto che sa di terra e tempi lontani.
“Re Pipuzzu fattu a manu. Melologo calabrese per tre finali” trae origine da una fiaba della tradizione calabrese che De Luca ha risposto attraverso corpo e voce di attore, dando vita a una versione estremamente vitale e coinvolgente. Suoni, luci, gesti accompagnano le vicende di una reginotta tenace e risoluta nella scelta dell’uomo da sposare, tanto da pensare di realizzarselo da sé salvo poi dover fare i conti con gli imprevisti della vita, in uno scenario fatto di boschi e luoghi incantati, incontri fortunati e altri invece dal sapore amaro.
Un racconto popolare tratto da una raccolta di novelle e di fiabe calabresi di Letterio di Francia, di cui l’originale era nel titolo Re Pepe e il vento magico. Una storia al femminile, dove la protagonista è una reginotta che, non trovando marito degno, decide di impastarsene uno con le proprie mani. Perché gli uomini chisti su: inconcludenti, ass’i coppe, votafaccia, brutti, pirchi, tamarri. De Luca, in una lunga gonna blu e maglia bianca, impasta, guardando il mare, acqua, sale e farina, cantando una filastrocca sul setaccio che è un antico tamburo. Il risultato è Re Pipuzzu fattu a manu, a cui aggiunge tutto ciò che serve per farlo giusto questo marito, degno di una principessa: intelligenza, fedeltà, bontà («‘na mezza tazza»), simpatia, gelosia («‘na mezza tazza»), passione. E finalmente, dopo sei mesi, re Pipuzzu è pronto, anche senza coraggio. Ma un vento magico improvvisamente lo porta via e da questo momento Reginotta dovrà affrontare diverse avventure per riportarlo a casa.
I personaggi del racconto si moltiplicano nella colorita interpretazione di De Luca che assume tinte grottesche, ora sapienti, ora terribili, ora burlesche, tipicizzate dalla musica di De Franco, che è co-protagonista. Il raffinato musicista e compositore entra con suoni originali dentro ogni mondo, lontano e diverso, conquistandolo brillantemente grazie ai suoi diversi strumenti, in particolare quando suonando il theremith, che incanta suonando il vento . Così De Luca, camaleontico e regale, dà conferma della sua straordinaria capacità attoriale e affabulatoria che nasce dal linguaggio, ma anche da tutte le varietà dei personaggi che ha dentro: oltre re Pipuzzu e Reginotta, anche la Draghessa, i carcerati e i tre eremiti emergono dalla sua voce, che tutte le contiene e ce le regala con emozioni che vanno dalla tenerezza al riso, dal divertimento al sospetto, nell’incontro tra ogni parte in cui la verità emerge lentamente sul finale, a sorpresa, fatto scegliere per alzata di mano dagli spettatori.
Quella di De Luca è la scelta vincente di portare in scena una fiaba sconosciuta, ma raffinata, aperta a tante interpretazioni nella trama, laboriosa ma dal linguaggio popolare, dall’intreccio narrativo che incanta e lascia col fiato sospeso. Ci piace questa versione tradizionale di un De Luca in gonna e maglia colorati, narratore, cantastorie, trovatore moderno che miscela con saggezza alchemica antichità e modernità in uno spettacolo che ammalia grazie alla parola, a un’espressività vivace e affabulatoria, alla musica che particolarizza l’atmosfera del racconto, suggerendo scene magiche e dal gusto esotico.
Una favola che è capace di far sognare e soprattutto far andare oltre le facili apparenze che ergono tutti a giudici, togliendoci l’originaria innocenza. Applausi forti nella strapiena Sala Varcasia, trasformata egregiamente in uno spazio teatrale urbano e vivo, da cui il pubblico esce cantando la filastrocca di Re Pipuzzu. Conferma che il teatro calabrese è capace non solo di resistere, ma anche di generare appartenenza.
Carismatico affabulatore il primo, sapiente musicista il secondo, hanno costruito insieme, con una regia in scena, un coinvolgente connubio di parola e musica sul racconto di Re Pepe deliziosamente interpretato e accompagnato con l’apparato sonoro costruito dall’alternanza di flauto traverso, clarino, controller del suono e theremin.
Come un cantore, De Luca, ha accolto attorno a sé un pubblico rapito dal racconto surreale madido di tradizione, liberamente ispirato alla fiaba raccolta da Letterio Di Francia e dalla riscrittura di Marcello D’Alessandro.
Le favole non sono collocabili in alcuna dimensione temporale e fanno parte di un patrimonio comune che solletica il nostro inconscio e i più genuini moti dell’animo. Volendo giustamente attingere anche in questo campo alle fonti calabresi, Dario De Luca si è rivolto alla prezioso lavoro di Letterio Di Francia, nato a Palmi e vissuto tra fine ottocento e inizi novecento, massimo studioso della novella italiana, focalizzandosi sulla storia di Re Pepe, riscritta da Marcello D’Alessandro. La favola è parte della raccolta Re Pepe e il vento magico. Fiabe e novelle calabresi, edita da Donzelli, ripresa anche da
Italo Calvino nell’Antologia delle fiabe italiane. Nonostante il titolo, il protagonista non è il sovrano bensì sua figlia che, indispettita dalle pressanti richieste del padre affinché si trovi un marito, un bel giorno decide di crearselo da sé e comincia letteralmente a impastarlo con farina e zucchero. Per dargli l’aspetto migliore ci impiega alcuni mesi ma il risultato infine la soddisfa. C’è però un problema: la creatura non ha il dono della parola, ma lei non si perde d’animo e, ficcandogli in bocca un peperoncino rosso, riesce a farlo parlare. Ha così inizio la loro sofferta vicenda che vede alternarsi gioie (quei piaceri carnali a cui la fanciulla è particolarmente votata) e sventure, gelosie, ripicche e vendette. Per il suo affascinante melologo Re pippuzzo fattu a manu, Dario De Luca propone tre diversi finali che il pubblico potrà votare decretando quello definitivo. Con la sua efficacissima performance, De Luca dà voce, variandone il timbro, a tutti personaggi, rendendoci partecipi delle loro traversie, stimolando la nostra fantasia e arrivando a farceli immaginare come in un rutilante film a colori, oltre a superare brillantemente l’ostacolo del dialetto calabrese che finisce col diventare familiare anche ai nordici. Un validissimo supporto è offerto dallo strumentista Gianfranco De Franco che, anche con presenza scenica, crea una molteplice gamma di suoni con tastiere, campana tibetana, flauto traverso, theremin e altri inconsueti dispositivi che s’intonano al meglio con le diverse fasi della fiaba.
Di Dario De Luca abbiamo apprezzato, per anni, sia i registri espressivi comici, sia quelli drammatici: questa volta Dario ci cattura, con la sua consueta ironia, raccontandoci una favola dalle ascendenze remote, che ha messo però radici anche in Calabria: Re pipuzzu fattu a manu – Melologo calabrese per tre finali. Fondamentale, nella sua restituzione (ove Dario lascia un finale aperto, a discrezione del pubblico), è la suggestiva colonna sonora prodotta dal vivo dal valoroso polistrumentista Gianfranco De Franco (clarinetto, flauto traverso, theremin).
Sembrerebbe che questo bisogno di certezze antiche, questo rimestare nei ricordi di intere generazioni, non lasci spazio alla tridimensionalità della parola teatrale, alle sue molteplici possibilità sceniche. Non vuole essere simbolo, ma dichiaratamente mezzo. Non accetta trasfigurazioni, non vuole caricarsi di mistero. Eppure è lì che rifulge, è quello il momento in cui si àncora al luogo teatrale, ne trae potenza, in qualche modo compie sé stessa […] O come quando si annoda alla voce di Dario De Luca e ai suoni di Gianfranco de Franco per impastare il Re Pipuzzo fatto a mano […] Ecco che il demone sommerso del festival si palesa per parlare, finalmente, dal presente e del presente.
«Un ritorno all’infanzia, quasi una regressione felice, l’immersione in una atmosfera magica evocata già nell’incipit con quell’attacco che sa di calore e di affetti domestici, «C’era ‘na vota… ‘Na vota c’era». Un omaggio alle novellatrici di un tempo, custodi preziose della tradizione orale, maestre di vita e di fantasia. È Re Pipuzzu fattu a manu. Melologo calabrese per tre finali di e con Dario De Luca, attore, autore, regista della compagnia Scena Verticale e co-direttore artistico del festival Primavera dei Teatri e il M° Gianfranco De Franco. Lo spettacolo, andato in scena per la nuova stagione teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, è liberamente tratto dalla raccolta di fiabe e novelle calabresi Re Pepe e il vento magico di Letterio Di Francia (Donzelli Editore). A dispetto del titolo, la protagonista è una donna, Reginotta, figlia di re e orfana di madre. Con il solo potere di parole antiche, suggestioni e incantesimi rivivono attraverso la voce e i gesti di Dario De Luca, in gonna lunga a balze e piedi nudi. La sua lingua, cullante come una cantilena, abbraccia i tanti dialetti che gravitano nella provincia di Cosenza e risulta felicemente contaminata da preziosi inserti sonori, filastrocche in rima baciata o alternata, modi di dire attinti dal linguaggio popolare, nomi altisonanti seguiti da commenti che ne amplificano, ironicamente, la pregnanza. De Luca è una straordinaria Reginotta. Si porta dentro una forza che riesce a comunicare con semplicità. Questo personaggio femminile diventa una creatura modernissima che rivendica il diritto di scegliere chi amare. Libera, volitiva e impavida, lontana dai cliché delle principesse bionde, pallide e in eterna attesa del principe azzurro. Reginotta proietta il pubblico in un passato spiazzante, matriarcale e femminista dove sono le donne a tessere i destini della vita e, come colta da delirio di onnipotenza, reclama per sé il potere della creazione e il marito se lo impasta da sola. La ricetta? Un cantaro di farina, un cantaro di zucchero, tre barili di acqua della Sila, una tazza di lievito e un peperoncino rosso juschente al posto della bocca perché «quandu mi vasa m’a da vrusciare e quando mi parra m’a d’appicciare». E ancora, un pizzico di sale, tanta intelligenza, mezza tazza di bontà, una tazza di fedeltà, simpatia quanto basta, mezza tazza di gelosia, una tazza di passione, tanto coraggio, sperando che di quest’ultimo non ne abbia troppo bisogno. Tempo di preparazione: 6 mesi. Difficoltà: alta. Seguendo i movimenti lenti e decisi del setaccio, le mani di Dario De Luca disegnano amorevoli carezze nel vuoto, la figura di Re Pipuzzo si materializza nello spazio mentale dello spettatore attraverso lo sguardo stellato di Reginotta «Mo a sustanza c’è». Un fragrante reuccio di pastafrolla, coacervo di simboli culturali e valenze antropologiche. La farina, in tutte le sue varietà, è l’alimento base della dieta mediterranea; lo zucchero, bianco e dolce, il desiderio proibito dei poveri; il peperoncino rosso, piccante e afrodisiaco ha segnato l’alimentazione e l’identità di un intero popolo, simbolo di erotismo, viene collocato al posto della bocca che è legata alla parola, al nutrimento e, soprattutto, al bacio, primo contatto erotico-sensuale con la persona amata. Così la fiaba assume un valore fortemente desiderante e identitario. Ma la felicità è un respiro breve e dopo il rapimento di Re Pipuzzo da parte di un malu ventu che lo porta via come un uccello, una foglia, un pensiero, la fiaba acquista il sapore dell’avventura ma, anche, di un viaggio di formazione. Reginotta parte alla ricerca disperata del suo amato e incontra gli altri personaggi della fiaba, tre vecchi eremiti che le fanno dono di una castagna, una noce e una nocciola i cui poteri magici sono anticipati da nebbie azzurrine e vapori sulfurei: la Draghessa e la sua cameriera, e la guardia del carcere. E proprio della Draghessa, il cui nome prelude ad una figura femminile di “mangiatrice di uomini”, De Luca traccia, in filigrana, un mirabile ritratto di dark lady, femmina a tutto tondo, di verace sensualità e audace erotismo, spietata e perdente che da carnefice diventa vittima, soprattutto di sé stessa. L’incantevole paesaggio sonoro creato da Gianfranco De Franco con strumenti della tradizione (flauto traverso e clarinetto in do) in dialogo costante con una strumentazione elettronica moderna (theremin, sintetizzatori e pedali per effettistica), non è solo di accompagnamento – come pure accade nella gioiosa esplosione della tarantella finale – ma sottotesto dell’azione scenica, si fa personaggio indispensabile per mantenere la vivacità dello spettacolo ricreando i suoni della natura, comunicando elementi narrativi non rappresentati e funzionali all’intreccio, commentando gli stati d’animo e i sentimenti dei protagonisti insieme alle luci che, sapientemente distribuite, variano in colore e intensità. La trasposizione in melologo di questa antica fiaba calabrese è straordinariamente inquieta e ricca di innumerevoli possibilità di attraversamento, così come i tre finali proposti da De Luca alla fine di ogni rappresentazione e che il pubblico femminile è chiamato a scegliere. Il risultato è un mirabile esempio di teatro di parola dove scrittura, rappresentazione scenica, presenza attoriale, testo e musica si fondono in un corpo unico di grande seduzione».
«Dario De Luca riscopre una storia tutta calabrese e lo fa alla maniera dei racconti dei nonni di una volta, quelli che incantavano i nipotini davanti al focolare con storie e leggende. In scena sta seduto e legge la favola in dialetto (il lavoro di Di Francia era stato pubblicato in italiano) da un leggio posto accanto al mixer delle luci e alla macchina del fumo, dosa gli effetti personalmente. È scalzo e indossa una gonna ampia, che lo rende un po’ nonna, un po’ Reginotta quando corre incontro al suo destino. Il resto del lavoro, molto suggestivo, lo fa Gianfranco De Franco, musicista di spessore che suona strumenti e oggetti, creando suoni e atmosfere a metà tra magia, mito e illusione. Quello che è interessante, però, al di là del valore artistico, è il lavoro di ricerca all’interno della tradizione calabrese e il suo rilancio. Rilancio doppio, visto che la tecnica del melologo è evidentemente collegata a quella dei cantastorie di una volta, figure anch’esse, assolutamente patrimonio della cultura della nostra regione. Uno spettacolo che fa venire voglia di riscoprire le favole calabresi e che ci lascia il sospetto che ancora oggi avrebbe davvero tanto da dirci».
«Si chiamava Concetta Basile, la donna che consegnò a Letterio Di Francia, palmese della fine del XIX secolo, la storia di Re Pepe. Basile è un cognome importante nella tradizione novellistica italiana e quella che appare solo coincidenza, peraltro unica nell’intero corpus del Di Francia, in verità inventa un legame importante con storie che per molto tempo sono state considerate di minor pregio. Bisognerà aspettare Calvino, nel 1956, per restituire dignità letteraria a molti cunti dialettali della tradizione popolare degli ultimi cento anni. La verità è che l’arte di impastare fiabe è arte antichissima e la grammatica del racconto non è dissimile a certi balli che si ripetono più o meno uguali in tanta parte del mondo. […] Nel racconto di Re Pipuzzu fattu a manu, ripercorso ed interpretato Dario De Luca […] Persino l’elemento musicale, portato in dote da Gianfranco De Franco, resta sottotraccia del testo, eco di una musicalità generata dal soffio del vento. Se è vero che le fiabe sono spesso il teatro del meraviglioso è altrettanto certo che le più strane epifanie si materializzano a partire da una noce o una castagna. È questo probabilmente il maggior pregio di questo piccolo allestimento […] che rinuncia ad ogni forma di velleitarismo persuasivo, consegnando zucchero e farine alle nostre mani di spettatori. Persino il finale ricalca le formule sbrigative delle fiabe di Di Francia. Si resta letteralmente a mani vacanti, quando a fine narrazione il gioco del dopo, mutuato dalla grammatica della fantasia costruisce un seguito. Un seguito provvisorio costretto a convivere con mille altri probabili impasti».
«Aedo di paesaggi che dal cuore narrativo della Calabria approdano nel Pollino lucano, a Noepoli, in “Re Pipuzzu fattu a mano”: Dario De Luca rilegge e interpreta in un melologo dolce e irriverente il personaggio femminile di una fiaba calabrese. L’attore ci racconta una figura pronta a trasformare la tradizione, il dictat della ricerca obbligata del marito, in un atto creativo fatto di pastafrolla, riscatto e caparbia femminile. La platea segue attenta il Bildungsroman, il percorso di formazione, di Reginotta, in una scena accompagnata dal setting di strumenti elettronici e a fiato armonizzati da Gianfranco De Franco. Una timbrica emotiva che mischia accenti e dialetti popolari con armonizzazioni contemporanee. Tra tarantelle e theremin, memoria e presente, si spalanca la regione aperta dell’arte che nel caso della Compagnia “Scena Verticale” si fonda in un potente pensiero meridiano».
«Il riscatto della donna, artefice del proprio destino, unito all’anelito di rilancio della tradizione calabrese, ha dominato la fiaba “Re Pipuzzu fattu a manu”, messa in scena al Teatro Comunale Grandinetti dalla compagnia calabrese Scena Verticale e raccontata nel melologo dall’ attore, regista e drammaturgo Dario De Luca, supportato dall’accompagnamento musicale di Gianfranco De Franco. […] Su un palco semibuio e allestito con grande semplicità, Dario De Luca ha tenuto il numeroso pubblico, composto da adulti e ragazzi, con il fiato sospeso per un’ora intera di spettacolo dando corpo e voce a “Re Pipuzzu fattu a manu” e narrando l’avvincente storia in dialetto calabrese intercalato da passaggi in lingua italiana, insieme a Gianfranco De Franco che, utilizzando strumenti a fiato tradizionali ed elettronica, ha creato suoni ed atmosfere sospese tra magia, miti e illusioni. Lo spettacolo, ispirato ad un racconto popolare tratto da “Re Pepe e il vento magico” del palmese Letterio Di Francia, a dispetto del titolo che cita il re, vanta come protagonista una donna, Reginotta, che viene interpretata da Dario De Luca, quasi sempre seduto, scalzo, in gonna lunga e maglia bianca e in tutta la sua forza combattiva e voglia di autonomia.[…] E lo fa coniugando mirabilmente le parole, il canto di una filastrocca (Re Pipuzzu fattu a manu) e la suggestiva gestualità del corpo e arricchendo la sua narrazione con l’ipotesi di tre possibili finali sull’innocenza o meno di Pipuzzu che il pubblico femminile presente dovrà scegliere ad alzata di mano: la scelta cade sulla terza opzione per la quale Reginotta lascerà Pipuzzu e incomincerà ad impastare a suo piacimento un altro re. Trionfale la chiusura dello spettacolo dominata da applausi ed applausi».
Impeccabile interpretazione di Dario De Luca, abilissimo a modellare la voce a misura dei sentimenti di ogni personaggio. Grazie alla notevole immedesimazione di De Luca, in un attimo siamo accanto alla reginotta mentre dà vita al suo re, poi camminiamo al suo fianco nel viaggio per recuperare il reuccio e lottiamo assieme a lei. Ideale complemento narrativo, il commento sonoro, che riprende a sua volta motivi della tradizione calabrese, anche grazie all’uso efficace degli strumenti a fiato, e li attualizza con effetti elettronici.
«Apre la rassegna Kids Dario De Luca, direttore artistico, attore, regista di uno spettacolo originale, che prende spunto dalle favole della Calabria. Un racconto popolare raccolto da Letterio di Francia da fiabe e novelle calabresi, tratto da “Re Pepe e il vento magico”. È la storia della figlia di Re Pipuzzo, “reginotta” d’altri tempi, messa in scena dallo stesso De Luca che ce la riconsegna come da tradizione, in gonna lunga blu e maglia bianca, scalza, come la libertà e la purezza delle favole, come la sapienza degli antichi che parlano dialetto e amano la musica, la danzano, la vivono, la cantano. È una favola in musica, diretta e scritta da Gianfranco de Franco, un archetipo contemporaneo erede di uno stile ormai personalissimo e segreto, che fa suo, firmando lo spettacolo insieme a De Luca, con un linguaggio tanto antico quanto contemporaneo nella musica, come nel racconto che evoca amori, leggende, spiagge deserte, e mondi lontani, non tanto diversi dal nostro, come quelli orientali, delle Mille e una notte, di Grimm e Perrault. È erede di Turandot e altre cento Reginotta, insoddisfatta principessa di tutti i pretendenti che rifiuta: inconcludenti, ass’i coppe, votafaccia, brutti, pirchi, tamarri (gli uomini chisti su ) e decide di farsi un marito da sola, al setaccio che è tamburo, con acqua, sale e farina. De Luca lo impasta con una filastrocca (Re Pipuzzu fattu a manu) che ha il gusto del racconto e della canzone tipici del racconto di una volta, quello che i piccoli spettatori hanno ascoltato più dai loro nonni che da noi genitori. Intelligenza, fedeltà, bontà, simpatia, gelosia, passione, coraggio sono gli ingredienti che servono per farlo giusto questo marito, degno di una principessa, che lo impasta guardando il mare. E finalmente dopo sei mesi, re Pipuzzu è pronto. Ma in una giornata di sole, durante una passeggiata, vola via rapito da un vento magico. Reginotta, disperata, si chiude nelle sue stanze (mo’ non ne vugghju sapi cchiu nente), finché non decide di andare a cercarlo nel bosco. Magistrale la lettura e interpretazione di De Luca di ogni personaggio della fiaba che incontrerà da questo momento in poi Reginotta: la Draghessa, la sua serva, i carcerati, gli anziani del villaggio. Ogni anima emerge dalla sua, attore ormai sapiente e regista esperto di bravura che più non si commenta. Capace di farci sognare a occhi aperti, tenendoci fino all’ultimo sospesi sul finale, meravigliosamente a scelta, per alzata di mano. Re Pipuzzu è stato rapito dalla draghessa sì, ma sarà stata davvero una prigionia? Avrà sofferto la distanza dal suo amore lontano che lo ha creato con tanta fantasia e poesia, oppure avrà ceduto alle lusinghe della sua carceriera? E soprattutto Reginotta cosa farà di lui dopo averlo rapito alla Draghessa? Lo perdonerà o se ne farà un altro? Il pubblico vota con destra e sinistra alzate, se ne facisse n’ato, se non è innocente. Solo una bambina non gli risparmia la terribile punizione del secondo finale; iettato fora mezzo a na via. Possiamo sperare: neanche le bambine credono più alle favole, se assomigliano alla vita. Il teatro serve a ricamare l’anima, da sempre, e tutto ciò che essa contiene, dando voce alle ferite, ai vissuti, alle delusioni, dando spazio a quelle storie che sono come medicine, specialmente se siamo diventati specie a rischio».