È importante perché accende discussioni. Saverio e Chadli vs Mario e Saleh, che il Menotti di Milano ospita in una bella personale di un autore/attore di talento, Saverio La Ruina, è un dialogo a due voci sull’Islam di seconda generazione e noi. Materia bollente, lo provano le difficoltà attraversate dallo spettacolo stesso: tre riscritture, una per esplicitare il disagio del coprotagonista, Chadli Aloui, attore e attivista italiano di famiglia tunisina, verso il personaggio di Saleh, poi le grane giudiziarie dello stesso Chadli, sostituito da Alex Cendron. I dialoghi del testo e quelli reali, registrati, tra La Ruina e Aloui spingono a riflettere sulla non-accettazione interculturale, ma alcune cose che dice il “vero” Chadli, fanno paura.
Saverio La Ruina il teatro lo fa, e lo fa sul serio, restituendo al verbo la pienezza del suo significato. Impasta le parole ed i gesti, ci restituisce un teatro che sa di pane e del sudore del vivere, dei fegatini ala brace di Capossela, di quella filosofia del sud dei santi che ha il sapore della Magna Grecia, dei perché che s’agitano nella mente e nel cuore di tutti gli Amleti della working class. La scena è essenziale, una tenda montata dalla protezione civile per dare una casa ai terremotati, e due esseri umani, un occidentale cristiano e un arabo, si tagliano vicendevolmente con parole con le lame affilate, per verificare shylockamente quanto il loro sangue sia uguale. Cristo si è fermato ad Eboli, ma Hegel no, e dialetticamente i due si cercano nello specchio distorcente dell’altro. Brecht qui brucia di più sulla lingua, come la’nduja calabrese, o le spezie dei piatti dell’Africa Occidentale. Qui non ci sono regole, ma solo eccezioni, a questa latitudine l’umano si confronta con se stesso, senza sconti. Ma La Ruina ha un’intuizione meravigliosa, quella di aggiungere al testo la scrittura metateatrale, i suoi dialoghi con l’attore Chadli, la volontà contagiosa di quest’ultimo di sfuggire alla prigione del testo, di rompere spartachisticamente le catene, per aprire un dialogo, libero, sincero, svincolato, con l’autore, perché la ricerca della verità è difficile quanto un parto podalico, fa male all’anima e al cuore. Come nel paradosso della tartaruga il testo scenico, ovvero Achille, sta sempre un po’ più indietro rispetto al testo scenico, alla sua magmatica e cangiante realtà. Non c’è alcun confortante happy end, dunque, ma lo sferzante interrogativo di uno schiaffo che brucia idealmente sulla guancia della platea tutta. E questi momenti metanarrativi, queste voci uscite dalla fonoteca di un Krapp contemporaneo, sono risolti scenicamente dal tableaux vivant di un controluce, che riporta i personaggi all’ombra della caverna di Platone, ma la possibilità di una risposta sta in quel dialogo bruciante, caustico, materico, restituito dalle casse del teatro. Due culture si confrontano, per una volta non nella comfort zone dei dibattiti intellettuali, nei salottieri, mediatici, blabla, che hanno spesso, come unica sostanza, il suono delle parole, ma nello spazio ridotto di una tenda, nella tragedia di un fine (o di un inizio) partita tutto da giocare nei piccoli, grandi momenti che animano questa strana quotidianità. E Saleh, lottando per il valore del suo ramadan, del suo digiuno, può permettersi anche di smentire l’adagio brechtiano, non sempre la pancia viene prima della morale. E poi l’11 settembre, il terrorismo islamico, le guerre, diventano una linea di confine, di identità culturale, umana, spirituale, tragicamente irriducibile, non meno fatale di quella linea rosseauiana, tracciata dal primo uomo che rivendicò la proprietà di quanto contenuto al di qua di essa. La ragione e il torto si combattono, si mischiano, mentre tra di esse cerca di interporsi disperatamente il buon senso. La separazione, la trincea che divide è una lacerante ferita, che fa arrabbiare, che fa piangere, che è difficile da reggere come quella di Filottete abbandonato su un’sola dai compagni. Le parole di La Ruina sono gli odori di una cucina rustica, in grado di riportare immancabilmente ai propri sensi, al proprio sentire, al proprio corpo, al proprio essere lì, in forma di essere umano, seduto in platea, dedito al partecipe ascolto di un altro essere umano, che prende letteralmente a picconate la quarta parete con ogni fonema. Svegliano dal torpore oppiaceo di tutti i “già detti e “già recitati” del teatro infiocchettato. Si muove come un lupo, fiuta la platea come un lupo, e ci guarda con quella verità, quell’istinto, immediatezza degli occhi di quell’animale. Più vero del vero, mette tutta la sua anima lì, in quei pochi metri quadrati di tenda, e la musica amata dal suo personaggio, “Ricominciamo”, suona come un mantra, come una preghiera ripetuta di ricostruzione non solo materiale, ma anche morale. Se la dimensione antropologica, il teatro sociale di impegno hanno un odore, questo si sente distintamente nel teatro di La Ruina. L’attore che interpreta Saleh, Alex Cendron, che ha sostituito l’interprete originario, Chadli, impossibilitato a partecipare, si immerge letteralmente nel suo personaggio. Lo vive proprio come la preghiera musulmana che mostra sul palcoscenico, è una poesia dolorosa, reale, corporea, un dialogo tra lui e il dio nascosto, tra lui e l’assoluto poetico, tra lui e a platea, e con l’altro personaggio. Si ha la netta sensazione che questa battaglia di un povero cristiano e di un povero musulmano, sia combattuta sì con forza e decisione, ma con le lacrime di chi si rende conto che dietro la divisa del nemico dell’eterna guerra di Piero, c’è un essere umano con lo stesso identico umore. La lacrima che sta lì, sospesa, annunciata da più fonemi, e nasconde una voglia struggente di avvicinarsi tanto da potersi abbracciare. Ma la risposta è in mano alla platea, i due attori si allontanano dalla scena perché la risoluzione del conflitto è idealmente nelle mani di ogni spettatore.
La luna nel cielo e le note di un ovattato “Summertime” nella testa. Il terremoto. Una tenda. Una convivenza forzata. Due uomini si fanno da specchio: i loro occhi si scrutano, le loro mani si sfiorano. Eppure essi faticano a riconoscersi. Mario, italiano, cristiano più per etichetta che per vocazione, si ritrova a condividere la tenda con Saleh, arabo e musulmano convinto. “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh” è il nuovo spettacolo di Saverio La Ruina appena arrivato al Menotti di Milano. La pièce introduce una personale dedicata al regista calabrese. In scena anche “Dissonorata”, “La Borto” (ancora in scena stasera) e “Polvere” (30 e 31 ottobre): spettacoli pluripremiati, che negli ultimi quindici anni hanno fatto di La Ruina e del suo teatro un caso internazionale. In “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh” La Ruina, anche regista e attore, si confronta con gli stereotipi più irritanti dell’uomo occidentale alle prese con la cultura araba. Accanto a lui Alex Cendron, chiamato a sostituire Chadli Aloui appena pochi giorni prima del debutto milanese. Lo spettacolo è imperniato sui contrappunti: da “Summertime”, ninna nanna adattata alla tragedia del sisma, alla scelta di Cendron, biondo trevigiano chiamato a impersonare un maghrebino. In scena Mario (La Ruina) è il classico uomo occidentale normalmente razzista, che racchiude il concetto d’identità dentro quello di perimetro geografico. Per Mario l’Islam è un luogo fisico, il tappeto per la preghiera uno scendiletto, le abluzioni una mania igienista, la barba un simbolo obsoleto, la preghiera una semplice ginnastica. Saleh (Cendron) è invece un giovane delicato e devoto che preserva la propria storia e custodisce la sua fede. Alle continue insolenze di Mario prova a rispondere con calma, argomentando senza offendere. Non è chiaro quanto i luoghi comuni che sciorina Mario siano effettivamente frutto del pregiudizio, e non piuttosto una provocazione dettata da un anelito non dichiarato di contatto. Forse il suo atteggiamento di sfida è esasperato dalle contingenze, un lutto familiare e il recente terremoto. Certo se l’intreccio si limitasse al rituale delle ingiurie bislacche (ad esempio quando Mario interrompe la preghiera di Saleh alzando a palla il volume della radio) cadremmo nella più sconfortante sequela di scenette da avanspettacolo, nel solco trito della commedia all’italiana che da Franco e Ciccio arriva a Boldi e De Sica. E invece arriva il salto di qualità che non ti aspetti, nella forma di un backstage sonoro. In scena gli attori di quando in quando si fermano, e il pubblico ascolta fuoricampo frammenti di dialoghi reali registrati tra Saverio e Chadli. Sono conversazioni anche accese, in cui Chadli esprime i propri vissuti di disagio rispetto alla propria condizione di immigrato di seconda generazione. Ed emerge anche il suo disappunto verso lo spettacolo. A spiegarlo è lo stesso La Ruina nelle note di regia: «All’inizio c’erano Mario e Saleh […] Ma alla prima nazionale, Chadli, l’attore che interpreta Saleh, esce dal personaggio e riscrive il finale. Rimango sconcertato. Intuisco in quella ribellione una grande sofferenza. Vorrei accoglierla nello spettacolo. Le repliche continuano, i mesi passano, io e Chadli parliamo. Lui mi racconta di sé, dell’Islam, della sua vita in Italia da arabo di seconda generazione. Spesso registriamo le nostre chiacchierate. Poi faccio la cosa più semplice: faccio un passo indietro, metto Saverio e Chadli accanto a Mario e Saleh e lascio che siano loro a parlare…». È qui il contrappunto più evidente: nell’inadeguatezza della scena rispetto alla verità che erompe da dietro le quinte e preme per farsi drammaturgia. Chadli reagisce al copione. Stigmatizza la spettacolarizzazione del disagio. Rivendica la propria rabbia. Smaschera la retorica che da vent’anni accompagna le celebrazioni dell’11 settembre, l’evento che ha sancito la cesura tra Occidente e mondo arabo. Se prima di quella data noi occidentali subivamo il fascino esotico della “Mezzaluna fertile” e delle “Mille e una notte”, subito dopo gli arabi sono diventati corpi estranei. Abbiamo incominciato a dire “noi e loro”. I media hanno iniziato a diffondere con maggiore frequenza immagini di guerre e disordini, e all’indomani di ogni attacco terroristico ogni arabo è guardato con sospetto. Le voci registrate di Saverio e Chadli sono dunque più autentiche e rifinite dei personaggi di Mario e Saleh in carne e ossa, che si assottigliano fino a diventare ombre bidimensionali in controluce. Come in “Polvere”, anche in questo lavoro di La Ruina il teatro smette di essere santuario; diventa una sorta di megafono e microcosmo del mondo, dove i problemi legati all’uguaglianza, in termini di opportunità, lavoro e potere, integrazione ed esclusione culturale e sociale, esistono concretamente. L’espediente del doppio livello narrativo permette al teatro di operare una continua messa in discussione di sé, delle visioni dell’alterità e delle proprie rappresentazioni del mondo, oltre i luoghi comuni e i pregiudizi. Bravo Alex Cendron a inserirsi in questo doppio rimbalzo senza inciampare. Tra rivolte, confronti verbali, piccoli drammi e paradossi comici, marca con La Ruina le sfide quotidiane che avvengono in una qualsiasi realtà multietnica. Non è un titolo che seduce “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh”. Ma resta lo sguardo intelligente di questo spettacolo. Che, alternando la possibile armonia e l’incombente rottura comunicativa, aiuta a riflettere su quanto l’equilibrio di una convivenza anche non borderline tra un occidentale e un arabo in Europa possa rivelarsi estremamente precario, sempre sul punto di deflagrare.
Come avrebbe potuto essere uno spettacolo che si intitola “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh”, dove il titolo è composto dai nomi degli interpreti, Saverio La Ruina e Chadli Aloui, e dei personaggi che diventano in scena, Mario e Saleh, se Chadli non c’è? Alla vigilia del debutto milanese è stato infatti sostituito da un altro attore, Alex Cendron. Nessuna confusione possibile tra Alex, friulano biondo, e Chadli, magrebino, pare voler dire il La Ruina regista: che la finzione torni finzione, e l’attore solo un attore, non persona. Così però si fa meno pressante e interessante la scelta di inserire sul corpo dello spettacolo (preesistente) le voci dei due che, quasi in un fermo immagine, riflettono tra loro sui temi del pregiudizio razziale, cui danno corpo sul palco. Ma la scelta di cambiare interprete è stata obbligata. E allora, appunto: come avrebbe potuto essere? Molto attesa, la pièce di Saverio La Ruina che inaugura la personale in quattro titoli che gli dedica il Menotti, ha subito l’improvviso contraccolpo di un daspo vecchio di un anno e dell’intransigenza della legge nel far rispettare il divieto di lasciare Palermo e casa imposto al giovane coprotagonista: negata l’autorizzazione allo spostamento fuori dal comune di residenza che occorre anche per un’attività lavorativa. Ma nulla di questo viene detto prima dell’alzata del sipario, solo che l’attore non c’è per gravi motivi personali. Palermitano, figlio di genitori tunisini, Chadli Aloui studente, attore, istruttore sportivo, attivista nei centri sociali, è evidentemente considerato troppo pericoloso per poter raggiungere Milano e lo spettacolo di cui è parte essenziale? Pensando ad altri daspo che hanno fatto molto discutere in questi giorni, viene da pensare che c’è daspo e daspo. A nulla sono valse mobilitazione di intellettuali e raccolta di firme. Nel frattempo, dall’emissione di quel provvedimento, un anno è passato, le cose si sono complicate, è imminente un processo (di qui la scelta di glissare sulle ragioni dell’assenza?). E così, alla fine, forse, anche questo “incidente”, serve e dice qualcosa sul (cattivo) rapporto tra Occidente cattolico e mondo musulmano, che è poi il tema dello spettacolo.Forse un po’ meccanico in questa struttura bipartita, “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh” è però illuminante per come più o meno inconsciamente ci relazioniamo, anzi contrapponiamo, ai figli dell’Islam. Causa terremoto che li ha sfollati da casa, Mario e Saleh convivono forzatamente sotto una tenda della Protezione Civile: spazi ristretti e coabitazione esasperano sospetti e incomprensioni, quanto ai pregiudizi “sono a monte”. Non solo, quindi, Mario contro Saleh qui e ora, ma più in generale un “noi contro voi” sovrastrutturale: difficile da sradicare. L’uomo però è animale sociale e (se non si scanna) alla fine dialoga. Per quadri successivi, le parole spiegano il mal conosciuto e colmano il divario. «Per capire chi sono gli altri dobbiamo capire chi siamo noi», suggerisce il La Ruina drammaturgo. Autore di opere profondamente impregnate del sociale, dopo “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh” (fino al 24 ottobre), La Ruina tornerà sul palco del Menotti con “Dissonorata” (26-27), “La borto” (28-29) e “Polvere” (30-31 ottobre), trilogia che gli è valsa numerosi riconoscimenti (3 Ubu e 2 Hystrio, tra gli altri) e dove affronta dal punto di vista dell’uomo retrogrado del Sud la condizione delle donne, assoggettate e schiacciate dalla (pre)potenza maschile, attraverso temi come il delitto d’onore, l’aborto, le violenze domestiche.
All the world’s a stage, and the men and the women merely players dice il malinconico Jacques nel grande As you like it di William Shakespeare. Tutti quelli che vanno spesso a teatro sanno di assistere a una finzione che rivela più o meno profonde verità. Questa adesione della vita al teatro viene spinta all’estremo in Saverio e Chadli vs Mario e Saleh di Saverio La Ruina, seconda versione dell’originario Mario e Saleh, presentato qualche anno fa a Romaeuropa Festival.
La sofferta pièce tratta della dolorosa ferita che separa l’Islam dalla cultura Occidentale. La scena di allora è la stessa. Una tenda da campo, una delle tante messe a disposizione dalla Protezione Civile per accogliere gli abitanti di una città distrutta dal terremoto. Dentro ci coabitano forzatamente un italiano cristiano, Mario, e un giovane musulmano di origine tunisina, Saleh. Mario, interpretato in modo eccellente da Saverio La Ruina, è irritato dalla presenza dell’altro e lo ricopre di insulti originati dalle solite stereotipie associate agli Arabi. Ai tempi della prima versione, l’attore tunisino Chadli Aloui non resse l’impatto delle offese ricevute e interruppe lo spettacolo. Invece di arrabbiarsi, il regista si è messo nei panni dell’attore-personaggio e nel tempo ha riscritto il testo della pièce, pur mantenendo inalterata la traccia centrale dello spettacolo originale. Chadli non ha potuto interpretare il suo ruolo in questa seconda versione per drammatiche vicende personali che confermano i nostri pregiudizi contro i musulmani. La Ruina ha pensato di colmare la sua assenza, inserendo nello spettacolo le sue telefonate registrate in cui scambia idee, pensieri e pareri con l’attore. Portando la verità nuda e cruda in scena, La Ruina non si limita a effettuare un salto mortale metateatrale, ma amplifica il senso dello spettacolo. Al posto di Chadli, sceglie il bravissimo attore Alex Cendron, occhi azzurri e capelli biondi, che interpreta la parte di Saleh con rigore e asciuttezza, restituendo al personaggio forza interiore e dignità. La sua compostezza lascia emergere con estrema chiarezza la complessità dell’Islam e, allo stesso tempo, mette un poco alla berlina i limiti culturali di Mario. La drammaticità dello scontro tra i due abitanti della tenda, a tratti, si colora di sfumature comiche. Quando Mario scambia il tappeto per la preghiera di Saleh per uno scendiletto, oppure quando si arrabbia per non saper usare gli auricolari che Saleh gli porge per poter pregare in santa pace. Mario non capisce il significato delle abluzioni prima della preghiera. Pensa che la tenda sia sua perché si trova in territorio italiano e non perde l’occasione di lamentarsi dei flussi migratori nel nostro paese. Per farla breve, Mario è il rappresentante dell’Italietta xenofoba e del noi occidentale che si scaglia contro il voi della complicata e anche contraddittoria realtà islamica. E il povero Saleh ha perfettamente ragione quando dice Ancora voi? Ma uno deve portare per forza il peso di un miliardo e seicento milioni di persone sulle spalle? Mario, tuttavia, è un personaggio a tutto tondo con i suoi drammi personali e i ricordi di una felicità perduta. Ora è vedovo e il racconto del soffice rumore della neve che lo spinse a trascinare la moglie in terrazzo per ascoltarlo meglio è un momento di incantevole poeticità. Nel non tempo della memoria e fuori dalla tenda i due litiganti sembrano tendersi una mano di amicizia, entrambi estasiati dal ricordo del profumo del gelsomino che cresce anche in Tunisia. Ma dura poco, perché i due rientrano in tenda ricominciano con gli alterchi. Il ritmo registico scorrevole è un po’ rallentato dalle testimonianze registrate che tuttavia dànno la vera misura dei mali provocati dall’incomprensione che allontana le due culture. I toni, le pause e le parole di Chadli Aloui spezzano il cuore di chi le sa ascoltare. Quelle di La Ruina che cercano di capire, comunicano al pubblico un filo di speranza. Sul finale, quando la radio di Mario trasmette la notizia di un attacco terroristico, lui se ne esce con un prevedibile siete stati voi. Saleh reagisce dicendo che il mondo si è diviso in noi e voi dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Versione inesatta e comunque molto semplicistica dei fatti. Più incisive le frasi finali, Siete stati anche voi. La conoscete Bagdad? La conoscete Damasco? La Ruina cerca di abbattere la tenda che è stata campo di battaglia tra Mario e Saleh. Ma la ferita rimane aperta e sta al pubblico pensare a possibili soluzioni. Uno spettacolo che fa discutere. Un’operazione culturale di grande spessore. Una Via Crucis per il bravissimo Saverio La Ruina che mette sempre in scena la verità con il suo teatro artigianale, solo apparentemente semplice e sempre diretto.
Aperta con Mario e Saleh, la ricerca di Saverio La Ruina intorno alla relazione tra Occidente e Islam giunge a compimento e diventa occasione per riconfermare il senso del teatro come mezzo di trasmissione, e di deflagrazione, dei conflitti umani e culturali. Già col titolo, Saverio e Chadli vs Mario e Saleh, l’autore-attore-regista di Scena Verticale ne esplicita questa duplice valenza, conservando la traccia del percorso osmotico tra realtà e finzione, divenuto miscela esplosiva per l’attore tunisino Chadli Aloui nel 2019, e che oggi sembra assumere valore di prologo. Ritroviamo i due personaggi – Mario e Saleh – sotto la tenda della Protezione civile, ma la circostanza è decontestualizzata, sparisce il terremoto dell’Aquila, causa della convivenza forzata in quello spazio angusto di un «italiano» e un «tunisino», mentre la finzione viene esasperata dalla presenza di Alex Cendron – capelli chiari, occhi azzurri, sbarbato – nel ruolo che era stato di Aloui, appunto, Saleh. E, allore, all’Argot Studio (fino a domani) e senza scomodare Diderot e il suo Paradosso sull’attore, è il teatro a trionfare, scoperchiando il pentolone dello scontro. Lì dove Aloui, stretto nei suoi dogmi, non resse il confronto con gli spettatori e improvvisò una ribellione fuori testo, Cendron, forte della sua non appartenenza musulmana, restituisce con l’onestà dell’attore questo mondo e le sue contraddizioni. Una laicità che rimbalza su Mario/La Ruina rasserenandolo e permettendogli sfaccettature comiche, in una dimensione di grande chiarezza concettuale, dalla quale si ricompongono le parole marxiane: la religione è l’oppio dei popoli. In un’ora di spettacolo La Ruina disegna la complessità del quadro, complice la voce registrata di Aloui determinato a riprendersi quello che il colonialismo gli ha rubato.
Non c’è solo il Covid attorno a noi. Attenzione a considerarlo il problema unico. Perché tanto altro è rimasto, a farci pessima compagnia. A cominciare dal razzismo, come ci ricorda, in modo duro e nello stesso tempo “soffice”, Saverio La Ruina con il suo nuovo testo “Saverio e Chadli vs Mario a Saleh”, che ha debuttato in prima nazionale nel Teatro Menotti, appuntamento iniziale di due intere settimane dedicate alla drammaturgia dell’ultrapremiato autore, attore e regista di Castrovillari. È necessaria una premessa: questo spettacolo nasce dalle “ceneri” di un altro precedente, “Mario e Saleh”, andato in scena due anni fa, in cui l’attore Chadli Aloui aveva cambiato il finale senza avvertire La Ruina (una cosa, per intenderci, alla Morgan e Bugo). La reazione di La Ruina è stata completamente diversa da quella di Bugo. Si è messo dalla parte delle ragioni di Aloui e ha scritto un nuovo testo, in cui le inquietudini di un giovane arabo-italiano trovano larga espressione. E che il problema razzismo sia lì sul tavolo, al centro del nostro menù quotidiano, ce lo conferma anche la mancata presenza allo spettacolo di Aloui, l’attore (ma pure istruttore sportivo e attivista per i diritti umani) palermitano di origine tunisina, che è diventato coprotagonista, anche autorale, fin dal titolo. Lui, sorvegliato speciale per un anno proprio a causa delle sue battaglie sociali, qualche giorno fa è stato arrestato a Palermo (proprio nell’occasione in cui avrebbe dovuto avere il permesso per andare a Milano) e poi rilasciato con obbligo di firma, dopo essere stato rinviato a giudizio. Ma Aloui è comunque presente in teatro perché una parte fondamentale della messinscena è data dalle voci registrate in conversazioni private fra i due attori (ecco il perché del titolo), anche se sul palcoscenico è stato sostituito coraggiosamente da Alex Cendron. Non è questa la sede per poter criticare o meno certe decisioni, deciderà il magistrato. Qui bisogna dire che il tema scelto da La Ruina è una ferita aperta in tutta la nostra comunità e che non è certo ignorandolo che può essere risolto. Il testo fa emergere tutti i luoghi comuni in cui, partendo dalla differenza di religione – una sorta di marchio che annulla la singolarità di ogni persona – si determina un’incomprensione che si autoalimenta. Il punto è chiaro subito. Basta citare un dialogo iniziale tra i due personaggi, Mario e Saleh, costretti a convivere in una tenda dopo un terremoto. «M. Oh, ma voi ci provate sempre. S. Voi chi? M. Voi, voi musulmani. S. Vuoi dire che io sono musulmano come tu sei italiano? M. Perché, non è così? S. Pensavo che l’Islam fosse una religione, non una cittadinanza». E più avanti Saleh aggiunge: «Ancora voi? Ma uno deve portare per forza il peso di un miliardo e seicento milioni di persone sulle spalle?». Una separazione netta che è nata in quel tragicamente famoso 11 settembre, in cui «il mondo si è diviso tra noi e voi». La Ruina (sempre bravo come attore, con una gestualità performante anche quando è controllata, che lo rende unico) non si ferma certo a cose che sappiamo tutti, ma, inserendo le registrazioni di Chadli ci porta in presa diretta dall’altra parte del voi, in quel voi che noi occidentali siamo per gli altri. Così in scena trovano posto le ragioni e la rabbia, le presunzioni e le reazioni di ambedue le parti. Non solo, ma la sostituzione improvvisa di Chadli, fatta volutamente con un attore biondo e con gli occhi azzurri, determina, nelle intenzioni di La Ruina, una sorta di spaesamento che aiuti a capire come e perché l’attore arabo contesta il suo personaggio, ritenuto troppo propenso a giustificarsi, in sostanza diverso da lui, orgogliosamente arabo. Alla fine, la caduta della tenda prima del buio (scene e costumi di Mela Dell’Erba), è un invito a una ricostruzione dei rapporti umani e sociali, così come si fa con le case dopo un terremoto.
Più che il tema – l’immigrazione e il difficile dialogo tra l’Occidente e il mondo arabo –, è il modo in cui viene trattato a rendere singolare “Saverio e Chadli vs Mario e Saleh”, scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina, in scena fino a sabato al Teatro Libero, prodotto da Scena Verticale di Castrovillari. Perché è un lavoro che, nella struttura a specchio, mette in continua discussione se stesso e il suo assunto: così come l’argomento ha un’articolazione dialettica, allo stesso modo lo spettacolo si mette in crisi, mischiando realtà e finzione, come dibattito civile di cui il teatro svela i suoi dubbi con ironia. Mario e Saleh, cristiano l’uno, musulmano l’altro, si ritrovano a convivere sotto la stessa tenda della Protezione civile dopo un terremoto che ha distrutto un paesino italiano; il primo è provocatorio ed insofferente, il secondo paziente e tollerante. È subito scontro di culture, elastica e individualistica nel pragmatico Mario, rigida e formalistica nel fiero Saleh. Ed il terreno è quello dei luoghi comuni e dei pregiudizi occidentali sull’aspetto, gli usi e i rituali islamici. Sarebbe tutto molto ovvio, se non fosse che ad interpretare l’arabo Saleh c’è Alex Cendron, un attore alto, glabro, biondo e dagli occhi azzurri. C’è un antefatto che l’autore racconta a sipario alzato: al debutto, due anni fa a Milano, nel ruolo di Saleh c’era il palermitano d’origine magrebina Chadli Aloui, che aveva sorpreso tutti, uscendo dal personaggio e modificando il finale. Come, non è difficile immaginarlo: l’autore, infatti, introduce nel corso delle scaramucce tra i due protagonisti la registrazione dei loro dialoghi privati, nei quali Chadli sfoga con Saverio la sua insofferenza per non aver potuto restituire appieno il suo vissuto. Che entra così nello spettacolo dalla porta secondaria. Dopo l’attacco alle Torri gemelle, i due mondi sono entrati in eterno conflitto, e gli occidentali hanno visto in ogni musulmano un terrorista, mentre i tappeti volanti delle fiabe orientali sono diventati missili letali. E se poi, per motivi personali, Chadli non è potuto essere in scena, è stato sostituito, con felice spiazzamento, da un attore con caratteristiche antropologiche che sfatano i nostri stereotipi. Nonostante l’impianto macchinoso, La Ruina sa sciogliere ancora una volta il suo talento, mostrandoci che anche nel deserto può scendere la neve.
È la fresca serata di un aprile palermitano. Fuori dal Teatro Libero, un gruppo di persone discute dello spettacolo appena visto, accalorandosi come raramente accade. Molti sono scettici, lo accusano di essere inadeguato, superficiale, addirittura islamofobo. Altri sono più cauti. Una cosa è certa: Saverio E Chadli VS Mario E Saleh di Saverio La Ruina è una storia che suscita un confronto di idee, nonostante il suo riferirsi all’attentato delle Torri Gemelle possa sembrare un’operazione archeologica. Eppure, anche in un momento in cui le attenzioni sono dirottate su fatti più vicini per spazio e tempo, il capannello di spettatori testimonia quanto il nervo toccato da questo lavoro sia ancora scoperto. Una storia piuttosto accidentata, quella di Saverio e Chadli, la cui genesi sembra coerente con le difficoltà del dramma. La Ruina la ripercorre in una sorta di prologo: dapprima era previsto che la parte di Saleh fosse di Chadli Aloui, ma questi, a un certo punto, ha rifiutato di interpretare il ruolo assegnato. Le motivazioni della sua scelta sono espresse all’interno di telefonate che La Ruina, con il consenso del collega, ha registrato e inserito nella nuova versione del dramma, ora interpretato da Alex Cendron. Cendron entra in scena: è biondo, ha gli occhi azzurri. La vicenda si svolge all’interno di una tenda da campo, che occupa quasi per intero lo spazio scenico (design di Mela dell’Erba). Un ambiente angusto, popolato dai pochi, essenziali oggetti ai quali si riduce l’intera biografia di uno sfollato. Qui, Mario (Saverio La Ruina) e Saleh (Alex Cendron) abitano in seguito a un evento disastroso. La loro è una vicinanza coatta, esasperata dalla situazione emergenziale; ma il problema di fondo è legato al modo in cui viene inteso l’ambiente comune. Per Mario è un’estensione del proprio territorio, della propria patria, è casa sua. Sentendosi legittimato in tal senso, si rivolge all’altro ricorrendo a insulti e stereotipi. L’unico momento in cui muta la dinamica relazionale si svolge, non a caso, fuori dalla tenda: ma rispetto al complesso della scrittura, si tratta di un attimo improvviso e decontestualizzato. Da parte sua, Saleh non oppone nulla alle provocazioni subite, se non una flemma inverosimile e rari scatti d’ira. È questo il punto in cui si era verificato lo scarto tra Chadli e il suo personaggio: ha sentito una responsabilità etica nei confronti del proprio “popolo”, e ha rifiutato di darne una rappresentazione vittimistica, suscettibile della pietà dei privilegiati che, ammettiamolo, frequentano i teatri. Dunque la tenda, dimora transitoria per eccellenza, si presenta non soltanto come il luogo in cui si svolge la storia di Mario e Saleh. Essa è il punto di incontro e di scontro, fisico e simbolico, tra un noi e un voi universali, costretti loro malgrado alla convivenza. Un problema attuale, che in parte trascende la scena; è il dialogo fuori campo tra Saverio e Chadli il nucleo attorno al quale si sviluppa il dramma, non quello agito da Mario e Saleh sul palco. Le parole di Aloui proiettano la rappresentazione in una dimensione altra, intrisa di un vissuto reale e quotidiano: in questa lo stereotipo è un affronto concreto, non un’invenzione letteraria. Mettendo in discussione Mario e la sua ignoranza, Chadli accusa anche e soprattutto Saverio, che dello spettacolo è l’ideatore. Si crea insomma uno slittamento di piani in cui personaggi e attori si scollano l’uno dall’altro, per partecipare tutti alla messa in scena. Sul fisico di Cendron si imprimono idealmente differenti tratti somatici, una barba, una carnagione più scura, mentre diventa difficile tenere presente che gli insulti vengono pronunciati da Mario, e non da Saverio. Privi della maschera, gli interpreti sono nudi, esposti al giudizio dei presenti. Buona l’interpretazione di Cendron: semplice e asciutta, la si potrebbe definire intellettualmente onesta. Nel dare corpo a Saleh, l’attore rifiuta di appropriarsi a fini retorici del vissuto di Chadli – e il rischio c’era. Questa rispettosa cautela lo pone al riparo da possibili condanne. La rappresentazione è disgregata, scomposta nel limite in cui, convenzionalmente, racconto e realtà si saldano nella finzione drammatica. Da un lato è lo spettacolo in atto davanti al pubblico del Libero, compreso entro coordinate spaziali e temporali definite. Dall’altro è lo spettacolo che avrebbe dovuto svolgersi, il quale incombe sul primo sovrapponendosi in filigrana, attraverso il filtro delle resistenze di Chadli. I diversi livelli si intersecano in un gioco di riflessi, per ricomporsi a stento nell’orizzonte morale dello spettatore che osserva la vicenda, si interroga su di essa e, soprattutto, prende una posizione. Al termine di tutto, è La Ruina la persona più scoperta: colpito frontalmente dalle accuse di Chadli, è anche meno tutelato di Cendron dalla distanza fisica rispetto al proprio personaggio. È qui l’intoppo, il cortocircuito che gli ha attirato le critiche di cui sopra. Ma è pur vero che, nell’ambito di quel famoso capannello, molti hanno difeso Chadli ricorrendo ad argomenti paternalistici, sostenuti anche a costo di incoerenze e forzature. Senza rendersene conto, qualcuno ha biasimato in Mario/Saverio i propri limiti: con maggiore astio ci si schiera contro ciò che svela la nostra fallibilità, soprattutto se mostrata così apertamente. Comunque sia, dopo Mario e Saleh, i presenti hanno riflettuto a lungo, per strada, sul rapporto tra noi e loro, prendendo in qualche modo parte al confronto che aveva dato senso alla rappresentazione. A questa è stato aggiunto un altro livello: quello nel quale si colloca il punto di vista dell’osservatore. Si può considerare un successo.
Dopo aver ritratto con stoicismo gli ultimi, i diversi, e l’ignoranza dei nocivi, l’ispirato autore-interprete Saverio La Ruina affronta un’impresa coscienziosissima, e in un suo lavoro pervaso di disputa e poesia, in “Mario e Saleh” al Romaeuropa Festival, drammatizza umanamente il mistero delle differenze interreligiose. Lo fa costringendo alla coabitazione, in una tenda per terremotati, un se stesso in panni di sfollato di modesta consapevolezza cristiana, e un attore di origini tunisine, Chadli Aloui, che esprime la sua identità (vera di musulmano). Non è docu-teatro, è un istintivo, delicato e indelicato confronto di pregiudizi tra due uomini, il cui pregio è nelle scaramucce delle ignoranze reciproche, e la cui toccante lezione è il ritrovarsi sempre a un passo dalla disarmonia tra il ‘noi’ e ‘voi’. Mario non capisce le regole di Saleh che prega inginocchiato, Saleh non elabora l’accusa a tutti gli arabi per l’attacco alle Torri Gemelle. Le polemiche su ospitalità e radici causano un muro di suppellettili. Un crocifisso e un quadro con scritte del corano sembrano contrapporsi. Ma ci sono anche spifferi di segrete intese. Il racconto che Mario fa della neve è un incanto. E la partecipazione di Saleh al bene comune dell’accampamento sa di intima civiltà. Quando Mario perde dei soldi, Saleh fa finta di trovarli, usando proprie banconote, ricambiato da Mario che bonifica quella cifra alla sorella dell’altro. Ma resterà un vuoto. Strepitosa la calma (con scossoni) di Saverio La Ruina. Notevole la sensibilità (sopra le righe) di Chadli Aloui. Gran teatro verità.
Saverio La Ruina è un giovane quasi sessantenne che si è affermato nel 2006 con un memorabile Dissonorata. Insieme a Chadii Aloui, nato a Palermo da genitori tunisini, è e tornerà in scena con Mario e Saleh(sotto, foto di Tommaso Le Pera) a fine settembre per la rassegna Primavera dei teatri di Castrovillari. Nel racconto siamo a L’Aquila, dopo i giorni del terremoto del 2009. Mario è vedovo e non ha più casa. Vive in una tenda, è al telefono, gli comunicano che un musulmano è sul punto di raggiungerlo. Se ne lamenta. Perché un musulmano? Perché, gli viene risposto, non vuole vivere con altri musulmani. Non se ne conosce la ragione. Sarà l’ossessione di Mario. Perché sei voluto venire qui? Perché non stai tra la tua gente? Te lo dirò al momento giusto. Ma le domande, i litigi, le inquietudini cominciano dal primo momento. Oh, voi ci provate sempre. Voi chi? Voi, voi musulmani. Vuoi dire che io sono musulmano come tu sei italiano? Poi c’è la questione del tappeto. Di chi è quel tappeto? Non è un tappeto, è uno scendiletto. Quella «s» l’ha ricamata mia sorella, è un tappeto. E dopo il tappeto la questione del «pigiama». In verità niente altro che il giusto abito per pregare Maometto. Ma tu mi passavi davanti e ti mettevi tra me e Lui. E non solo, tenevi pure la radio ad alto volume. Eccoti le cuffie, così potrai sentire la radio mentre prego, così potremo andare d’accordo. Un brutto momento tra Mario e Saleh è quando Mario mette a terra un libro del suo convivente, di cui non riesce a diventare amico, e Saleh gli dice che quello è il Corano. Metteresti i piedi sulla Bibbia? Non importa poi si scopra che quello non era il Corano. E alla fine neppure importano (se non dal punto di vista romanzesco) la faccenda di quel crocifisso appeso da Mario e di quella sura del Corano, quasi in pura risposta, appesa da Saleh; e, di più ancora, la faccenda dei cinquecento euro che Mario perde con il suo portafoglio e che Saleh, proprio lui, ritroverà (ma più tardi Mario scoprirà che Saleh doveva mandare alla sorella Aisha, che vive a Londra, proprio cinquecento euro — che non le ha più mandato e che invece manderà, proprio lui, il nuovo amico Mario). Restava la questione del perché Saleh non aveva voluto rispondere alla domanda sulle ragioni che lo avevano spinto a chiedere di non dimorare con altri musulmani. Nella replica cui ho assistito (di uno spettacolo che ha fatto e farà crescere i non semplici rapporti tra i due interpreti, fino a una pacificazione) Chadii Aloui al momento di rispondere ha salutato gli spettatori ed è uscito di scena. Con ogni probabilità aveva raggiunto una tale identificazione con il personaggio, e di più con una zona profonda di sé e della sua cultura non italiana, da non avere retto alla veritiera tensione delle parole dette e di quelle che avrebbe dovuto pronunciare. In realtà erano parole buone, parole di pace. Avrebbe detto: «Perché dovevamo conoscerci fino a quando il “noi e voi” che lo avevano spinto a chiedere di non dimorare con altri musulmani non sarebbe più esistito».
«No, no, no, questa cosa non la potete fare. Ma che vi dice la testa a voi? Dopo tutto ‘sto sfracello portate pure altri rivolgimenti? Perché non è un rivolgimento, questo? Ma a voi vi pare una cosa sensata questo miscuglio?». Parlando al cellulare con un funzionario pubblico, esordisce così Mario, uno dei due personaggi protagonisti dell’atto unico di Saverio La Ruina, «Mario e Saleh», che Scena Verticale ha presentato in «prima» nazionale nell’ambito del Romaeuropa Festival. E il «rivolgimento» e il «miscuglio» a cui si riferisce consistono nel fatto che nella tenda che lo ospita dopo il terremoto dell’Aquila viene mandato anche un tunisino, per l’appunto Saleh. Sembrerebbe, dunque, che l’atto unico in questione si riduca all’illustrazione delle schermaglie – tra il religioso, il razziale e il politico – che si sviluppano fra quei due, un occidentale cristiano e un arabo musulmano. Ma il pregio rilevante dei testi di La Ruina è che la loro trama, in superficie semplice e persino schematica, funziona in profondità come la pietra gettata in uno stagno: dal punto in cui cade in acqua partono onde che assumono la forma di cerchi concentrici sempre più larghi. Così, per fare un esempio, nella circostanza accade che dal piccolo diverbio iniziale fra Mario, che considera un semplice scendiletto quello che ha trovato all’ingresso della tenda, e Saleh, che invece lo considera un tappeto, si arrivi prima alla scoperta che si tratta di uno dei tappeti da preghiera in uso, giusto, presso i musulmani e poi alla battuta di Saleh che suona: «[…] il terremoto sta diventando un’opportunità per costruire una città ancora più bella e una comunità ancora più unita». A tanto, del resto, conducono anche i ripetuti scontri circa l’attribuzione di determinati passi canonici all’uno o all’altro dei due testi sacri, la Bibbia e il Corano, venerati rispettivamente da Mario e da Saleh. E indico in proposito un caso su tutti: il passo «Chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso l’umanità intera. E chiunque avrà salvato una persona sarà come se avesse salvato l’umanità intera» viene commentato da Mario con un «Questo lo dice la Bibbia» e da Saleh con un «No, no, questo lo dice il Corano». Naturalmente, lo dicono sia la Bibbia che il Corano. E in breve, il testo di La Ruina pone l’accento sul concetto-cardine del pensiero contemporaneo: ogni cosa non è mai una sola cosa, ma è sempre più cose, tante quante le persone che con quella cosa a qualsiasi titolo vengono in contatto. Lo stesso tema centrale del testo – la migrazione che provoca il conflitto tra religioni e razze – è svolto alla luce di questa legge: rappresenta, in sé, un fatto doloroso che spesso sfocia in esiti tragici, ma contiene, nello stesso tempo, la radice di una verità salvifica. La sottolinea, quella verità, proprio il Corano, con la sūra XLIX di cui si cita qui il versetto 13: «Vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina, e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosciate a vicenda». Io avrei aggiunto la citazione del versetto 72 della sūra VIII: «Coloro che avranno creduto e saranno andati raminghi per le vie del mondo e avranno combattuto nel sentiero del Dio (pagando con i loro beni, pagando di persona) e avranno offerto il profumo dell’ospitalità e l’aiuto ai credenti sono da considerarsi intimi amici gli uni degli altri. Non sarete amici di quei credenti che ancora non si son dispersi per le vie del mondo, fino a quando essi non abbiano intrapreso il cammino dell’emigrazione». E mi spiego. Avrei aggiunto questa citazione perché chiama in causa l’altro e complementare tema di rilievo messo in campo da La Ruina: quello del viaggio come fonte di conoscenza. È il tema che s’incarna con impressionante forza simbolica nella sequenza in cui Mario racconta di quando accompagnò la moglie Filomena sull’autoambulanza del 118. «Lei se lo sentiva ch’era l’ultimo viaggio», commenta Mario; e aggiunge che Filomena, dopo avergli detto: «Ci siamo fidanzati viaggiando e ci voglio pure morire viaggiando insieme a te», gli chiese: «Pensi che finisce tutto qua o ci rivediamo?». Ecco, proprio questo è il punto: la morte, certo, è una fine, ma nello stesso tempo è il passaggio obbligato perché possa darsi un nuovo inizio. Il seme, perché possa produrre prima il fiore e poi il frutto, dev’essere seppellito. Ora, dovrei concludere rilevando la linearità della regia di La Ruina e la precisione della prova d’attore sua, nel ruolo di Mario, e di Chadli Aloui, nato a Palermo per l’appunto da genitori tunisini, in quello di Saleh. Ma la sera della «prima» è successo un fatto imprevedibile, e ai limiti dell’incredibile. Chadli Aloui avrebbe dovuto pronunciare la battuta: «Dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Da là è cominciato tutto. Da quel momento il mondo si è diviso tra noi e voi». Ma non l’ha pronunciata, quella battuta. Invece è venuto alla ribalta e, guardando fisso gli spettatori, ha detto: «Noi restiamo noi e voi restate voi. Buonasera a tutti». Ed ha abbandonato il palcoscenico. L’episodio costituisce, credo, la prova inconfutabile di quanto «Mario e Saleh» sia uno spettacolo necessario. Ci sono ferite ancora aperte e che ancora sanguinano. E certi eventi sono assolutamente emblematici, accadono perché devono accadere e nel momento in cui devono accadere. È morto al-Baghdadi. E ho visto Cladli Aloui che s’aggirava nel mio stesso albergo con le braccia strette spasmodicamente intorno al petto, come a difendersi e, insieme, a separarsi dal mondo.
A prima vista Mario e Saleh pare la coniugazione poetica di un’urgenza argomentativa imposta dalla cronaca: la complessità coabitativa del multiculturalismo, le tensioni tra nativi e stranieri, l’io contro te per (ir)ragioni di pelle, lingua, religione. Italia-Tunisia, Cristo-Maometto, noi-voi e «siete ospiti», «sembrate un gregge di pecore», «statevene nel vostro Paese». Tuttavia così si nota solo l’aspetto più evidente, e più didascalico, di un testo che si basa sui fraintendimenti continui (il tappeto usato come scendiletto, la tunica chiamata «pigiama», la preghiera scambiata per ginnastica) e che in scena genera ripetute dinamiche di contrasto: mettendo sotto la stessa tenda un terremotato italiano e un tunisino senza fissa dimora l’opera, infatti, li costringe a una lotta ossessiva per la conquista di un po’ di spazio, il possesso di qualcosa, la rivendicazione di un micro-privilegio domestico. Ma è proprio badando a come i due litigano per la sedia, la radio, l’esposizione del crocifisso o di una sura coranica che lo spettacolo svela un senso ulteriore. Mario e Saleh, infatti, mostra due uomini che, per riconoscersi in quanto uomini, devono lasciarsi tutto alle spalle: l’orrore del terrorismo e dell’informazione tv, l’incidenza dei discorsi collettivi e generici, il valore assoluto dei soldi, questi oggetti che hanno e che trattano come fosse l’unica cosa che conta. Tant’è. Mario e Saleh termina in proscenio: dimenticata la tenda con quel che contiene, i due se ne stanno lì, assieme, a sentire la neve che scende. Denudati metaforicamente dall’oppressione imposta loro dalla contemporaneità, tornati a uno stato di natura (il cielo per tetto, dinnanzi i fiocchi di neve che cadono), capiscono di essere due ultimi della Terra: entrambi fragili, feriti dalla vita e dunque con qualcosa di prezioso da dirsi e da darsi. A tratti incerta, o ancora troppo tesa, è la relazione attoriale tra Chadli Aloui e Saverio La Ruina: come gli fosse preclusa quella fluidità “di mestiere” propria d’uno spettacolo e delle sue repliche; realistica la tenda di Mela Dell’Erba; le luci calde e fredde di Michele Ambrose accompagnano questa vicenda d’incontro-scontro, di conflitto e di pace.
Sul palcoscenico, qualcuno ha montato una tenda da sfollati. Uno dei due personaggi ci vive da prima, dentro questo tenda. Scopriamo che si chiama Mario (lo interpreta un certo Saverio La Ruina), ed ha delle idee balorde sul ragazzo che la protezione civile gli mette dentro la stessa tenda. Lui è prevenuto perché l’altro, Saleh (Chadli Aloui), è d’origine tunisina. Per tutto il tempo, gli spettatori del castello si chiedono che cosa accadrà. Non c’è da stare troppo tranquilli. Che Saleh sia veramente un terrorista? E Mario che cosa nasconde? Capiamo ad un certo punto che lui è uno sfollato serio, cioè uno che anche prima del terremoto era stato picchiato dalla vita. Saleh, invece, non fa cose poi così strane, persino pregare su un tappetino non sembra una cosa pericolosa. Però a un certo punto spariscono dei soldi. La tensione aumenta. La cosa incredibile è che mi ricordo benissimo i volti dei due attori. Perché loro avevano un modo di guardarsi e di parlarsi che sembrava nascere proprio lì, non si sentivano né sicuri né sazi. Avevano anche un po’ paura. Veramente. Erano disposti a giocarsi tutto. Insomma, una di quelle cose che vengono spiate in segreto, una di quelle scene vere della vita quando c’era la vita. Nessuno, nel castello, osa fiatare, anche se ci piove addosso.
Una esigenza forte di raccontare, un teatro necessario dove coabitano ragione e sentimento e le parole sono armi potentissime e non lasciano scampo né vie d’uscita. L’ultimo lavoro di Saverio La Ruina, narratore sapiente e visionario è un dialogo che documenta l’incontro tra un cristiano e un credente musulmano costretti dal caso a una coabitazione forzata sotto una tenda da campo dopo il terremoto in Abruzzo. In scena il regista-autore e un attore di origine tunisina, in Italia fin da bambino, sono i protagonisti di un confronto duro e mai buonista, tra le molte insofferenze e i pregiudizi di Mario e una certa disponibilità all’incontro da parte di Saleh, che vede nel terremoto «una opportunità per costruire una città ancora più bella e una comunità ancora più unita». Certo si ritrovano a solidarizzare sulla gestione dell’emergenza, si raccontano le incongruenze di una organizzazione che ha previsto per alcuni sistemazioni in tenda e per altri negli alberghi della costa, ma Saleh si sentirà offeso quando Mario scambierà per uno scendiletto il suo tappeto in cui si inginocchia per pregare. Così le diverse interpretazioni della Bibbia e del Corano apriranno diatribe infinite e la distanza tra i due diventa incolmabile quando a Saleh La Ruina assegna la battuta sull’attentato alle Torri Gemelle: «Da là è cominciato tutto. Da quel momento il mondo si è diviso tra noi e voi». Nella vita e sulla scena. Lasciando aperti tutti gli interrogativi in questo momento irripetibile di teatro-verità. E tuttavia Mario e Saleh, tra mille contraddizioni, restano testimoni di una speranza a raccontare un paese che non ha ancora perduto la sua anima.
Un testo che fa riflettere sui rapporti umani, sui nostri pregiudizi e su come, tante volte, specie ai nostri giorni, siamo prevenuti nell’approcciarci con l’altro. Stiamo parlando dell’atto unico “Mario e Saleh” di Saverio La Ruina, proposto al Piccolo Teatro della Città di Catania […]. Si tratta di una pièce delicata, dalle tante sfaccettature e che ci porta a ragionare sulla eterna contrapposizione tra il “noi” ed il “voi”, sui rapporti con chi è diverso da noi, come razza, religione, abitudini e che induce alla riflessione su come confrontarsi con chi viene da un altro paese, con chi ha un diverso colore e professa una religione diversa dalla nostra e che si trova, però, nella nostra terra, magari nelle nostre stesse condizioni. Sulla scena, di Mela Dell’Erba, una tenda allestita all’indomani di un sisma, sul luogo del terremoto, dove convivono, tra pochi oggetti (una radio, degli zaini, due sedie, un tavolino, una croce, il Corano), all’improvviso e non per propria scelta – per uno strano “rivolgimento”, per un “miscuglio” – i due protagonisti: Mario, un occidentale cristiano e Saleh, un arabo musulmano. I due si affrontano duramente e soprattutto Mario non vuole accettare le abitudini, la religione ed i silenzi di Saleh. Le liti, i pregiudizi di Mario riguardano il pregare inginocchiato sul proprio tappeto di Saleh, si disquisisce sulla Bibbia e sul Corano, mentre Saleh non elabora l’accusa a tutti gli arabi per l’attacco alle Torri Gemelle. Continue le contrapposizioni, le diversità, i pregiudizi tra i due, fino a quando nascono segrete intese, il tendersi reciprocamente una mano, fino alla notte fuori dalla tenda, con il racconto che Mario fa della neve. La pièce vede continui ribaltamenti di situazioni esterne che mutano lo stato d’animo, la coesistenza di Mario e Saleh ma con il passare dei giorni si scopre che entrambi sono segnati da traumi che ne hanno condizionato l’esistenza ed a poco a poco i due imparano, nel piccolo spazio della tenda, a comprendere le rispettive usanze, abitudini, fino a quando si fanno compagnia, si scambiamo i loro segreti e si ritrovano accomunati dalla stessa sorte e solitudine. Quella dei nostri oscuri e problematici giorni. L’atto unico, di circa sessanta minuti, di Saverio La Ruina, in giorni difficili e di insofferenza verso l’altro, verso il diverso, come quelli attuali, risulta davvero di grande significato. Lineare la regia dello stesso autore che dosa l’elemento, il momento drammatico e sociale, con quello magari più leggero. Convincenti, profondi e ben calati nei ruoli del problematico Mario e del diffidente Saleh risultano rispettivamente Saverio La Ruina e Chadli Aloui che danno vita ad uno spettacolo di teatro civile, di impegno sociale, un momento di necessaria riflessione e di verità, di incontro di cui tutti, in questi giorni così confusi e contraddittori, abbiamo bisogno.
E’ uno spettacolo necessario, “Mario e Saleh”, di Saverio La Ruina che lo ha scritto, diretto e lo interpreta insieme a Chadli Aloui […]. Uno spettacolo necessario perché fa capire, costringe a mettersi dall’altra parte e che per una volta ti fa vedere il disagio di chi si sente ospite a vita in un paese, nonostante in quel paese sia cresciuto fin da piccolo. […] Saleh prega, si vede che ci tiene, fa parte della sua cultura, della sua tradizione. Mario inconsapevolmente lo disturba in tutti i modi: con la radio alzata, parlandogli, passandogli davanti. Intolleranza? Macchè, basterebbe un po’ di educazione. E a una domanda semplice semplice che gli rivolge l’arabo (“Come preghi tu?”), Mario va in difficoltà, forse non ci ha mai fatto caso, forse non prega mai, forse, esattamente come tanti occidentali, non dà troppo peso alla “forma” della preghiera. E come tanti occidentali parla per slogan, per frasi fatte, impastate di superficialità (“Siete tutti tristi, avete tutti la barba, vi prendete troppo sul serio, non vi si può dire nulla, siete permalosi”) fino a quando va a sbattere violentemente sul muro della realtà, quella realtà che ha preso un bivio in una data precisa: l’11 settembre del 2001. Ognuno si ricorda dov’era, ognuno si ricorda cosa faceva, racconta Saleh, per sottolineare che da lì in poi è cambiato tutto, “ci siamo divisi tra noi e voi”, e la colpa di un attentato devastante è ricaduta di colpo su tutto il mondo islamico, anche su un ragazzino di nove anni – ricorda ancora il personaggio – che da lì in poi ha iniziato a chiedersi perché tutto il mondo che gli stava intorno avesse iniziato a guardarlo con occhi diversi. Chadli Aloui si rende protagonista di una prova convincente e che cresce replica dopo replica […] Per una volta, attore e personaggio non sono due entità diverse, ma si sovrappongono. Lui non interpreta Saleh, lui è Saleh. Lo è quando prega, quando reagisce alle provocazioni di Mario, lo è quando gli balena nello sguardo quella commozione figlia di un’infanzia difficile e vissuta tra tanti pregiudizi che evidentemente resistono anche da adulto. Ha una fisicità importante, che dà bellezza e plasticità al suo personaggio e che sovrasta La Ruina, autore, a sua volta, di un’altra bella prova di attore e di drammaturgo. La scelta di Aloui è sua ed è una scelta indovinata. E che ci fa capire che se imparassimo ad accettarci, tutti, con le nostre paure, le nostre esigenze, le nostre fragilità, tutte quelle che ci accomunano in quanto esseri umani, allora probabilmente il mondo sarebbe un posto migliore, nel quale riconoscere l’altro semplicemente guardandoci allo specchio.
[…] In una tendopoli allestita nei luoghi del sisma, si ritrovano, come coinquilini forzati, due uomini. Mario, italiano e cristiano, e Saleh, arabo e musulmano. […] I due uomini non sono più creature attraversate da storie personali di dolore e disadattamento che agiscono, soffrono e vivono sotto uno stesso cielo e condividendo il medesimo disagio, ma barriere che si dispongono l’una contro l’altra in nome di identità distinte e opposte, a prescindere, senza lo spiraglio di una conciliazione. Un incendio di logiche che hanno perso ogni cognizione, una tempesta di rifiuti contro ogni invito all’ascolto, fomentati da avvenimenti esterni utili solo a rinsaldare le reciproche posizioni. Finché, come uno scroscio d’acqua a spegnere il fuoco, come un arcobaleno a porre fine al fortunale, irrompono la ragione, il buonsenso, la purezza e la poesia, a ricordare a entrambi i personaggi la propria umanità. “Mario e Saleh”, scritto e diretto da Saverio La Ruina, coprotagonista assieme a Chadli Aloui, è una storia comune, pienamente incastonata nei tempi aridi e violenti che stiamo vivendo. […] Una drammaturgia secca e diretta, quella portata in scena da La Ruina e Aloui. Un confronto serrato tra due mondi, accentuato dalle difficoltà logistiche della convivenza forzata e fatto di dialoghi semplici ma per questo immediati, nei quali ognuno può riconoscersi […]. Siamo debitori verso La Ruina e Aloui: le paure iniziali dei loro personaggi sono le nostre paure, quelle dei nostri vicini e conoscenti, quelle di chi abita le nostre città. […]
[…] Mario e Saleh arriva sulle assi del Morelli per accompagnare gli spettatori in un viaggio intimo ed estremamente attuale, sulle diversità religiose. Attraversare i pregiudizi per abbatterli senza l’uso della forza ma con una limpida razionalità […]. I problemi nascono sempre dal controllo degli spazi personali, di cui si teme (o si vive con fastidio) l’invasione e dal raffronto tra le diverse abitudini quotidiane. Oggetto dello scontro (e del confronto) le differenze culturali, appesantite dai tanti pregiudizi che la mentalità occidentale ha costruito sul mondo musulmano. Ed ecco che nello spettacolo si alternano liti che portano all’innalzamento di barriere e riavvicinamenti quando i due personaggi abbandonano i reciproci rancori per comprendersi. Il momento è delicato per entrambi: Mario e Saleh sono due uomini che, al di là delle differenze culturali e religiose, affrontano un disastro da soli. Sono nudi davanti alle difficoltà, affrontano la solitudine nel modo più difficile e per questo tendono a riversarsi addosso a vicenda le proprie frustrazioni. […] Ma vivere una situazione così particolare e precaria provoca emozioni: le difficoltà sono forti per entrambe le parti, e tutti e due gli uomini vedono l’altrui sofferenza. Capiscono che entrambi provano lo stesso dolore e la stessa solitudine. I sentimenti non generano alcuna differenza e sono in grado di unire le persone sensibili. Saverio La Ruina scrive dialoghi diretti, senza una sola parola di troppo. Niente banalità, perbenismi e pose politicamente corrette: la realtà è raccontata senza filtri, in modo diretto e cristallino. L’interpretazione è catartica: rimuove ogni pregiudizio e stimola l’interpretazione e il giudizio razionali: ogni persona è giudicata per quello che è, non per quello che potrebbe o meno rappresentare. […]
In una tenda di una tendopoli – all’indomani del terremoto dell’Aquila – , Mario (Saverio La Ruina) si presenta con la sua corazza di pregiudizi di fronte al suo compagno di “stanza”, Saleh, tunisino di fede islamica. Ma la straordinarietà del dialogo consiste proprio nella chiave di lettura delle divergenze. Nulla appare scontato e La Ruina non ripropone il duello ormai sdoganato tra il musulmano vittima di razzismo culturale e il cristiano con il crocifisso in mano. Ma mette a nudo entrambi i personaggi in tutti i loro limiti. Lo stesso Saleh si presenta poco propenso all’integrazione, limitando le involontarie azioni di Mario nella tenda durante il sacro rito della preghiera ad Allah. Questi atteggiamenti provocano in Mario incredulità prima ed esasperato orgoglio poi, nel difendere le proprie abitudini al grido di “voi siete ospiti e vi dovete adattare”. […] Tanti applausi in entrambe le serate per uno spettacolo, che per la sua disarmante semplicità, tocca le corde dell’animo e richiama la quotidianità potenziale di ciascuno. In una tenda con due brandine e un tavolino, due mondi contrapposti si annusano, si respingono, fino ad avvicinarsi. Chadli Aloui, nei panni di Saleh, è a suo agio sul palcoscenico, al cospetto di una Saverio La Ruina grande nella sua umiltà di attore. In Mario e Saleh non c’è un protagonista e una spalla, ma due uomini veri, apparentemente differenti ma molto simili nei sentimenti, sotto quel vestito fatto di pregiudizi reciproci.