Rassegna Stampa Via del Popolo

Controscena.net – Enrico Fiore – 08/12/2022

MILANO – Mentre assistevo alla «prima» nazionale dell’allestimento del nuovo testo di Saverio La Ruina, «Via del Popolo», presentato da Scena Verticale al Teatro Menotti, mi è tornato in mente «Co’Stell’Azioni», uno dei più belli e significanti fra i copioni di Enzo Moscato. Vi s’immagina che, nella magica notte di fine d’anno, i Morti vengano tra i Vivi: «[…] per farvi sapitori ‘e sta ferita, / per chiedervene scusa, / scusa e perdono di una differenza, / dello stare nel diverso di un altrove».

Ebbene, la caratteristica pregnante e il pregio straordinario di «Via del Popolo» stanno nell’annullamento di quella «differenza» e di quella «diversità» e, dunque, nella trasformazione dell’«altrove» nel qui. E tanto a cominciare dalla sequenza d’apertura: La Ruina dice che, quando torna al paese, insieme con l’amico Tonino fa sempre una passeggiata nel cimitero; e aggiunge che davanti alla lapide del padre «ci sono sempre fiori freschi, anche quando mamma non può. Sono per le lapidi più in alto, ma siccome quella di papà è la prima in basso, pare che i fiori li portino apposta per lui».

In breve, «Via del Popolo» mette in moto un’inarrestabile (e ad un tempo virtuosistica e commovente) girandola di slittamenti e dislocamenti di senso, che nascono e si susseguono nello spazio fra il desiderio delle cose e il loro effettivo essere. Lo spazio, appunto, tra il fatto che i fiori davanti alla lapide del padre di Saverio sono stati portati ai morti le cui lapidi stanno più in alto e l’impressione che siano stati portati a lui, la cui lapide sta in basso. In altri termini, al testo di La Ruina si potrebbe apporre come epigrafe l’avvertimento decisivo che riguardo a se stesso diede Carmelo Bene: «Io sono là dove manco».

La strada richiamata nel titolo è quella di Castrovillari in cui Saverio ha trascorso in pratica tutta la vita e tuttora abita. E lui dichiara che a percorrerla sono due uomini, uno del presente e uno del passato: il primo impiega a percorrerla due minuti, il secondo trenta. Sicché scopriamo subito che il tema centrale di «Via del Popolo» è il tempo, che poi, ovviamente, configura proprio lo spazio fra il nostro desiderio delle cose e la constatazione dell’autonoma consistenza delle stesse.

La battuta-chiave, allora, è quella che pronuncia zio Nicola quando regala a Saverio un orologio, un cronometro Omega degli anni ’70: «Tè, Savè, cu quistu si patronu d’u tìampu, u poi firmà, u poi fa jì annanti e u poi fa jì arrìatu, insomma ci poi fa quiddu chi vùai».

Sarebbe inutile precisare che l’uomo del presente e l’uomo del passato sono la stessa persona vista in età diverse e che quella persona è Saverio La Ruina. Ma la precisazione serve ad indicare che qui si tratta non solo del predetto spazio fra il desiderio delle cose e le cose in sé, bensì (ed è questo l’approdo alto del testo) soprattutto del rapporto strettissimo che si stabilisce fra il desiderio delle cose, le cose in sé e colui che di quel desiderio e di quelle cose scrive.

Ripenso, nel merito, alla profondissima osservazione di Charles Singleton circa il capolavoro dantesco: nella «Commedia» ha luogo la rappresentazione di un «doppio viaggio», «un duplice “itinerarium ad Deum”»: un «viaggio letterale», in cui «il protagonista è determinato», è Dante, e un viaggio allegorico, in cui «il viandante è qualsiasi cristiano: l’”homo viator”… Che tale viaggio “hic et nunc” sia una possibilità aperta a tutti, resta il postulato fondamentale e, per Dante, la dottrina su cui egli può costruire l’allegoria della “Commedia”… In nessun punto dell’opera queste cose ultraterrene vengono presentate come visione o come sogno. Queste cose accaddero, e il poeta che fece quel cammino in carne e ossa e le sperimentò, è, ora che è tornato, uno scriba che le registra come avvennero».

Per la cronaca, Saverio La Ruina rievoca puntigliosamente tutti i personaggi più in vista che un tempo animarono Via del Popolo: Pino del Ristorante Pino, che beveva un bicchierino di Kambusa dietro l’altro, De Simone, il bigliettaio del cinema Ariston, Giannino l’elettricista che aggiustava gli elettrodomestici con un semplice colpetto, il sarto zoppo Mastu Giuvannu che si vestì per sempre a lutto dopo la morte della signora Ida, la proprietaria della merceria della quale era stato segretamente innamorato, Tonino il macellaio, che somigliava spiccicato a James Caan de «Il Padrino», zu Franciscu e mastu Ninu, che avevano praticamente attaccati, non più di 20, 30 centimetri fra l’uno e l’altro, i negozi di alimentari e falegnameria, il dottor Schwarz, capace di fare ingessature che sembravano il ponte di Calatrava…

 

Ma, mi affretto a sottolinearlo, il testo di La Ruina non si arena nelle sabbie mobili di una sterile nostalgia da «amarcord». A parte il fatto che la rievocazione di quei personaggi, delle loro attività e persino dei loro vizi obbedisce allo scopo di richiamare l’attenzione sulla perdita di valore umano e di posti di lavoro prodotta dal passaggio alla società globalizzata, con la sostituzione dei supermercati ai negozi, una salutare e leggera (leggera come un’affettuosa carezza) ironia interviene a «straniare» l’esercizio della memoria.

Quando l’uomo che impiega trenta minuti a percorrere Via del Popolo chiede a De Simone: «U putimu vidi stu filmu o è mìagghiu ca ni stamu a la casa?», il bigliettaio del cinema Ariston risponde: «Vidi tu, tantu sti bell’attrici un è c’aspettinu a tija, u film u fanu u stessu». E accade che, data la vicinanza dei negozi di zu Franciscu e mastu Ninu, il panino con la mortadella del primo ha il sapore del legno e gli infissi del secondo hanno l’odore della mortadella: sicché, se ti distrai un attimo, addenti il legno e inchiodi il panino.

In un contesto del genere, a poco a poco lo sguardo di La Ruina si allarga fino a toccare dimensioni e circostanze assai più rilevanti rispetto al piccolo mondo di quella strada. E avviene che, tanto per fare un esempio, si dia luogo a una rievocazione dell’epoca dei movimenti extraparlamentari che si fonda, insieme, sulla precisione e sulla partecipazione emotiva.

Si parla del luogo di ritrovo dei giovani attivisti di Lotta Continua, del Collettivo Carlo Marx e di Avanguardia Operaia: «Erano gli anni ’70. Li trovavi appoggiati tutti in fila sul muro del Bar ‘900, con eskimo, capelli lunghi e jeans a zampa d’elefante. Io me ne stavo sul gradino del bar e li guardavo estasiato. Per la prima volta si vedevano ragazzi e ragazze passeggiare insieme. Per la prima volta si vedeva qualcuno che si baciava per strada. Per la prima volta si vedeva la passione, l’allegria. Era una situazione esaltante, che io mangiavo con gli occhi, anche se un po’ in disparte, anche se dai gradini del Bar Rio (il bar gestito dal padre di Saverio, (corsivo)n.d.r.). Una libertà che non s’era mai vista in paese».

Ma, ancora una volta, ecco, ad evitare il rischio della retorica, il ricorso all’ironia demitizzante. La maggior parte della gente di Castrovillari non li capiva, quei giovani, e li guardava con disgusto: «S’i guardisi a rìatu, un si capisci mancu si su masculi o fiammini». E l’uso del dialetto calabrese, che, come si sarà capito, attraversa la gran parte del testo, rende ancora più eclatante, per contrasto, l’apertura al mondo costituita, poniamo, dall’arrivo in quella landa dimenticata del Living Theatre di Julian Beck, con l’annesso muro opposto dagli attivisti politici ai carabinieri che volevano interrompere lo spettacolo di un uomo nudo e legato al quale un altro uomo infliggeva scariche elettriche.

Adesso, per chiudere, dovrei dire della bravura che Saverio La Ruina dispiega in quanto attore, avendo alle spalle uno degli orologi molli di Dalì sotto specie, ovviamente, di simbolo dell’elasticità del tempo. Ma, dopo quanto ho scritto, direi parole scontate e inutili. E allora lascio che commenti la prova d’attore di Saverio il Pasquale Lojacono che, in «Questi fantasmi!» di Eduardo De Filippo, dialoga con l’invisibile professor Santanna: «Neh, scusate?… Chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura?… Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente…».

Corriere della Sera – Franco Cordelli – 19/01/2023

Un orologio surrealista per i labirinti del tempo 

 

Via del Popolo è una via di Castrovillari (Cosenza), dove è ambientato il monologo in cui Saverio La Ruina ricorda la sua gioventù. Si dà il caso che io l’abbia visto al Teatro Basilica che, come il nome stesso annuncia, si trova di fronte a San Giovanni: proprio là dove ho avuto l’opportunità (la fortuna) di essere in mezzo al popolo — ad un popolo innumerevole, folto, lì ad ascoltare Sergio Cofferati, alla direzione della Cgil. È un ricordo indimenticabile, non solo perché ero accompagnato da amici che non ci sono più, ma per il punctum di quell’evento: fu l’ultima volta che accadde a me e, credo, una delle ultime, per un così numeroso gruppo di persone riunite in uno stesso luogo, che si potesse parlare di «popolo».

 

Questo punctum è lo stesso di La Ruina, del suo racconto. Sì, Saverio ci parla dei suoi otto anni, e dei suoi tredici, ma arriva dove vuole arrivare: alla fine di via del Popolo, ovvero alla sua trasformazione. Di tutte le persone che la percorrevano, di tutti quei negozi e negozietti che incantavano il bambino, ora non c’è più nulla e nessuno. Non a caso Saverio entra in scena tra quei lumini disposti a terra, sono i lumini del cimitero; e non a caso l’amico Tonino passa sputazzando, o non ricordando i matrimoni dove incontravano tanti di quelli di cui ora vedono le lapidi, compresa la lapide del padre di Saverio, uno dei personaggi della sua storia. Questi personaggi sono tanti, sono rievocati al volo: un nome, un suono, un numero. I numeri vengono dall’orologio, un Omega: scandiva il tempo che una volta occorreva per percorrere tutta via del Popolo e il tanto che ne occorre oggi.

 

I nomi sono Rita e i suoi Alimentari, zu Franciscu e i suoi altri Alimentari, Ninu il falegname, Mastu Giovannu, il sarto — egli fu fedele tutta la vita a Ida, la vedova che mai avvicinò, poi divenendo il padre della figlia quando lei non ci fu più. In quanto ai suoni: come dimenticare la scansione dei tacchi delle due Giannetto, su e giù per via del Popolo? La Ruina fa l’impossibile per animare la sua voce, ha uno sgabello che sposta di qua e di là, si siede, si alza, si mette per terra, si sposta da destra a sinistra — percorrendo, tra i lumini, piccoli labirinti. Sono i labirinti del tempo — quello che vediamo prima immobile, poi un po’ meno, appeso lassù — sgualcito come un orologio da fiera o, se si vuole, come un orologio surrealista. Ma non è esso, forse, l’orologio segreto del padre? Quel padre sempre puntuale e che per ben due volte non lo è, sparisce e ricompare, sparisce e viene ritrovato disteso nel fango: fu quando Saverio vide il viso della madre illuminarsi come mai prima era accaduto.

Illuminato da ben diversa luce di quella che ora brilla in via del Popolo: la luce del parcheggio, la luce della sede di Banda Intesa, la luce dei supermercati. Fu proprio là, in quel quadrato in cui il popolo è diventato pubblico che Saverio dette il primo bacio ad Annarosa, che fu poi «il primo bacio che ho dato a una ragazza».

 

Voto: 7.5

Liminateatri.it – Katia Ippaso – 29/01/2023

“Via del Popolo”, la “Spoon River” di Saverio La Ruina

 

«Papà, cumi ti sèntisi?». «Cumi a na frunna ncapu a l’albiru». «Allura, m’agghia mitti d’accordo c’u vìantu» («Papà, come ti senti?». «Come una foglia sull’albero». «Allora mi devo mettere d’accordo con il vento»). Questo frammento di dialogo contenuto in Via del Popolo ci consegna il paesaggio intimo su cui si modula l’ultimo lavoro teatrale di Saverio La Ruina, capace di rivoluzionare il diktat imperante su quello che deve essere o non essere “performance”. «Allora mi devo mettere d’accordo con il vento»: Saverio La Ruina, da solo in scena, rivive uno degli ultimi incontri con il padre, nel momento in cui il vecchio genitore cerca di spiegare al figlio che ormai è venuto il suo tempo. Il vento, i paesaggi naturali e quelli del volto umano, le espressioni plastiche conservate dal dialetto, la paura della morte, l’avvento della morte, il trascolorare di tutte le cose del mondo, sono i motivi dominanti di questa tenera, umanissima, opera teatrale, risolta sul palcoscenico del TeatroBasilica di Roma (ormai inequivocabile calamita delle più sincere e rilevanti espressioni dell’arte teatrale italiana, a prescindere dalle generazioni) come un gesto netto e solitario che sembra far rivivere le atmosfere poetiche del romanticismo tedesco.

Dal dialogo tra un figlio che vuole tenere in vita il padre e un padre che vuole andarsene, parte un requiem che è anche un atto di rigenerazione, in cui il tempo si allarga e si restringe attorno ai quadri interiori e fotografici che compongono la partitura scenica. Un’autobiografia in levare e mai in battere (il monologo si chiude non a caso su un punto di domanda) che prende la forma di una passeggiata tra le rovine, una specie di Spoon River mediterranea (l’opera di Edgar Lee Masters viene esplicitamente citata nello spettacolo) che assume i volti, i nomi e la lingua di un paesino calabrese. Per noi che abbiamo sempre frequentato Castrovillari come uno degli epicentri della scena contemporanea – per via del Festival Primavera dei Teatri che negli anni ha saputo farsi, pur con mille difficoltà, calamita di tanti pensieri e invenzioni sceniche -, quest’ultima opera monologante di Saverio La Ruina (uno dei direttori del festival, assieme a Dario De Luca e Settimio Pisano, nonché fondatore della compagnia Scena Verticale) svela il segreto dell’atmosfera calorosa, vigile e umanissima, che si è sempre respirata da quelle parti. Dopo aver indagato fenomeni antropologici lontani e vicini, La Ruina sceglie di narrare con il proprio corpo e la propria voce, senza nessuna forzatura in senso “performante”, la storia della sua famiglia. C’è, in luce, un romanzo (o almeno un racconto) e, se solo l’autore lo volesse, anche un film, in Via del Popolo, che tiene lo sguardo fermo su un’unica strada, una via del centro che si anima e si spopola, si illumina e si spegne, solo con l’azione illusionistica della parola.

Emigrati da un paesino di montagna, il padre e lo zio di Saverio creano, a Castrovillari, una delle realtà vitali della cittadina calabrese, il bar Rio. Etichettati all’inizio come “scemi” (perché montanari) i La Ruina si conquistano, con sacrifici, giochi di prestigio e piccole grandi battaglie per la sopravvivenza, quella rispettabilità tanto agognata che diventa immediatamente assicurazione di futuro per i loro figli. Ma Saverio cambia rotta, non diventa barista né proprietario di bar, come la famiglia desiderava. Per “colpa” di quella sua infallibile capacità di osservazione grazie alla quale oggi, a distanza di tanti anni dagli eventi trascorsi, ci viene restituita la storia di una famiglia, che è anche storia d’Italia, mitologia della vita quotidiana e trattato filosofico sul tempo. Tra riferimenti cinematografici, siparietti comici e indagine antropologica, Via del Popolo tesse, attraverso movimenti minimi e una narrazione autentica, fatta di vita veramente vissuta, la storia di una famiglia che, sottotraccia, rivela anche la natura di una vocazione artistica.

 

L’elemento più sorprendente è la tessitura drammaturgica, che si avvolge come una spirale attorno all’azione del tempo (bellissimo il dipinto di Riccardo Di Leo, che cita Gli orologi molli di Dalì), tenendo come metro di misura un cronometro che lo zio Nicola aveva regalato al piccolo Saverio. Le scene di allargano e si contraggono attorno all’atto immaginario della penna che scrive, e pare di sentire il rumore della carta, ascoltando le storie di Via del Popolo, vissute e rievocate da un autentico scrittore, oltre che da un delicato, solitario artista della nostra scena.

Per un’operazione analoga, Steven Spielberg è stata candidato all’Oscar. Ebbene, Via del Popolo rappresenta, per il teatro italiano, ciò che The Fabelmans simboleggia per il cinema: la storia (mai sottolineata) di una vocazione, l’origine di una favola con i suoi riti di passaggio e le prove di iniziazione, l’incantamento di uno sguardo bambino capace di trasformare di segno ogni evento della vita quotidiana. E tutto grazie a quell’istinto mitopoietico che, in un mondo di consumo macabro e spettacolare, sa elevarsi al di sopra delle trappole seriali della narrazione. Per restituirci con naturalezza i nostri morti e rendere più umani i non ancora morti.

Hystrio – Fausto Malcovati – Gennaio 2023

Saverio La Ruina non è bravo. È unico. Non c’è in Italia nessuno che fa teatro come lui. Che tiene per un’ora e mezzo inchiodato il pubblico raccontando il suo mondo, il suo territorio, le sue radici, i suoi affetti, le sue storie, i suoi fantasmi. E lo fa con una naturalezza, una spontaneità, un calore, una freschezza che ogni volta commuove. Ci si riconosce nelle sue parole, ci si abbandona i suoi ricordi, si è contagiati dalla sua tenerezza, dal suo brio, dalla sua sottile arguzia. Già, è vero, era così, anch’io come lui… Questa volta parla di una via del suo paese, via del Popolo, appunto. Duecento metri, non di più: eppure in quei duecento metri c’era tutta un’epoca, una società che oggi non c’è più, un sistema che è cambiato, un ordine che è scomparso. La Ruina comincia con una visita al cimitero: sulle tombe vecchie fotografie, volti noti, e dietro i volti storie, vite. Vite della gente che un tempo popolava la via centrale del paese: due bar, tre negozi di generi alimentari, un fabbro, un falegname, un ristorante, un cinema. Intorno a loro vita, consuetudini, amicizie, usi e costumi centenari. Ci si conosceva, ci si frequentava, si intrecciavano amori, nascevano figli, crescevano insieme. Uno dopo l’altro i negozi sono scomparsi, la gente si è allontanata. Oggi centri commerciali, boutiques, telefonia, computer. Non solo: la gente non è più quella, cammina veloce, non saluta, non conosce, non condivide, ha altro a cui pensare. Via del Popolo come tante altre vie di tanti altri paesi. La gente del paese come tanta altra gente di tanti altri paesi. Requiem per una via.

Paneacquaculture.net – Laura Novelli – 14/02/2023

La poetica levità dei ricordi in Via del Popolo di Saverio La Ruina

 

Maglia e pantaloni neri, giacca bianca, i passi sommessi di sempre, la voce naturale ma incisiva, lo sguardo luminoso, a tratti vagamente malinconico. Saverio La Ruina arriva in scena, nella sua scena, con la levità di un fabulatore antico. Al bando maschere, artifici, travestimenti. Di fronte al commovente racconto autobiografico messo insieme nel monologo Via del Popolo, l’attore e autore calabrese (diversi premi prestigiosi in curriculum per lavori memorabili quali, tra gli altri, Dissonorata – Delitto d’onore in Calabria, La Borto, Italianesi, Masculi e Fiàmmina) è semplicemente sé stesso. Sua è d’altronde la storia evocata qui. Suoi i ricordi, i legami affettivi, gli aneddoti, le emozioni, le parole che compongono le maglie di una scrittura viva, in costante bilico tra dialetto e italiano, dialogo e narrazione, pathos e ironia, vicenda personale e sguardo collettivo.

E non potrebbe essere diversamente visto che la Via del titolo è una strada reale, concreta, quella dove La Ruina è cresciuto, ha giocato, studiato, lavorato, vissuto. E dove vive tutt’ora. Un luogo intimo dunque. Che al contempo si impone come il cuore pulsante di una cittadina del Sud, Castrovillari, che dagli anni ’60 ad oggi ha visto la sua fisionomia trasformarsi, cambiare, morire e rinascere profondamente mutata: un’intera comunità vibra dunque in questo affondo sociale dove tutti possiamo ritrovare qualcosa di noi.

 

Non è un caso, d’altronde, che la pièce (vista al TeatroBasilica di Roma e ora in tournée) si apra con una passeggiata nel cimitero locale: «Con un amico d’infanzia, quando torno al paese, facciamo sempre una passeggiata al cimitero. Ci piace prendere un viottolo senza sapere chi ci trovi. Tanto, dove vai vai, in un cimitero trovi sempre qualcosa di interessante. Passando davanti alle fotografie dei morti, Tonino, ch’è una persona spiritosa, comincia: – “Guà guà, Savè, t’u ricòrdisi a quistu?”. Appena vediamo la foto di uno che conosciamo, vummm… si apre un pezzo del nostro passato. Dopo una serie di t’u ricòrdisi a quistu, Tonino si ferma davanti a una foto e senza dire niente, prende la rincorsa e puuuu, ci sputa sopra, ma una sputazzata enorme, che la foto manco si vede più. – “Ma chi cazzu fai, Tonì?”, gli dico».

 

Ed ecco che, come in un viaggio di foscoliana memoria, i “sepolcri” dei compaesani defunti diventano trampolini rivolti verso il passato; pretesti affettivi per ricordare e, ancor più, per raccontare. Ma il racconto, muovendo da una drammaturgia di magistrale raffinatezza tecnica, slitta continuamente da un piano all’altro, dall’allora all’oggi, dall’udito alla vista: ciò che l’attore dice – con quel suo stile semplice, persino scivoloso, eppure cadenzato e ritmico; stile che qui sembra trovare una dolcezza nuova rispetto a precedenti prove, complici la frequente “traduzione” dei dialoghi scritti in dialetto calabrese e i sorrisi che regalano levità all’ordito dell’interpretazione – diventa immagine, scena nella scena, visione quasi cinematografica capace di costruire mondi nei diversi mondi degli spettatori.

 

Ogni slittamento torna poi al suo punto di partenza, intercetta la coerenza di una scrittura che dal biografico – difficile, d’altronde, non immaginare questo lavoro essenzialmente come un viaggio di formazione e di riappropriazione identitaria – curva verso una più ampia riflessione sui cambiamenti sociali di un’Italia (e di un Meridione) forse lontana ormai dallo spirito di sacrificio postbellico e dalla matrice “umanistica” del successivo boom economico ma ancora capace di tenersi strenuamente in bilico tra passato e presente.

Motivo per cui le lapidi dell’incipit, alluse scenicamente in modo molto lineare attraverso una geometrica disposizione di lumicini poggiati a terra (allestimento a cura di Giovanni Spina), segnano e demarcano questo passaggio trasformandosi esse stesse in memoria attiva, presente. La prossimità con la morte finisce così col caricarsi di suggestioni personali, ora allegre, ora dolorose, ora nostalgiche, declinate sempre con compostezza e rispetto, che trovano la loro acme emotiva nel ricordo dell’anziano padre Vincenzo, splendida figura centrale dell’intero lavoro: «Passando da un morto all’altro arriviamo… a papà. Davanti alla sua lapide ci sono sempre fiori freschi, anche quando mamma non può. Sono per le lapidi più in alto, ma siccome quella di papà è la prima in basso, pare che i fiori li abbiano portati apposta per lui. E mi ricordo il momento ch’è venuto a mancare. Qualche giorno prima gli avevo chiesto: – “Papà, cumi ti sèntisi?” E lui m’ha risposto: – “Cumi a na frunna ncapu a l’albiru”. “Come una foglia sull’albero”. – “Allura, m’agghia mitti d’accordo c’u vìantu”, gli ho detto».

 

Nella relazione con questo uomo dai modi severi ma dall’animo dolce e sapiente, Saverio/attore è ancora più tenero. Qualcosa di antico, di rituale, una sorta di reminiscenza verghiana lo attraversa mentre il suo amore filiale si appunta a quel dialetto vigoroso e mitologico con cui racconta episodi quali la rasatura della barba, la ricerca notturna del genitore smarritosi in campagna.

Questo padre/albero è il cuore drammaturgico del testo. Fu lui, d’altronde, a far trasferire la famiglia, su profetica insistenza del fratello Nicola, da un piccolo centro montano del Pollino a Castrovillari, una “città” – così sembrò agli occhi di Saverio bambino – animata da negozi, bar, scuole, ristoranti, botteghe artigiane e persino un cinema. Fu lui a scegliere Via del Popolo come la strada di casa e fu sempre lui ad aprire il Bar Rio su Via Roma, a cento metri di distanza dalla loro abitazione. In quel bar – il cui nome, per un paradosso del destino, richiama alla mente la Rio brasiliana dove gran parte dei La Ruina stessi erano emigrati tempo prima – l’attore ha imparato a guardare gli altri, ad osservare la vita della gente, a registrare su un quadernetto le abitudini di alcuni compaesani e, in modo quasi ossessivo, i nomi e i film dei grandi attori hollywoodiani. «Per noi montanari, Castrovillari era l’America, c’erano scuole, uffici, ospedale, tribunale, servizi, tutto. E poi dovevamo solo scendere dalla montagna. Prima sono arrivati mio padre e mio zio Nicola, e hanno comprato il Bar Rio, in via Roma, una delle due strade principali. Che poi un nome un destino, perché proprio a Rio sono emigrati tutti i fratelli di mio padre. Erano undici. Otto sono partiti e tre sono rimasti, il venti per cento. Secondo il calcolo delle probabilità, io avrei dovuto essere più a Rio de Janeiro che a Castrovillari, più sul Pan di Zucchero che sul Monte Pollino, più in Rua Marechal Hermes che in via del Popolo. Bastava che uno dei fratelli insistesse. O che zio Nicola dicesse andiamo a Rio invece che al Bar Rio. Ironia della sorte, il destino li ha avvicinati col nome, ma ci ha messo in mezzo l’oceano».

 

In quel bar Saverio ha conosciuto le canzoni, fil rouge sonoro dello spettacolo, premendo i tasti colorati di un juke box: «Studiavo su un tavolino attaccato al juke box. Let it be dei Beatles, Sognando la California e Io mi fermo qui dei Dik Dik e poi i New Trolls, Santo e California, Creedence Clearwater. Ma quella che mi emozionava di più era A whiter Shade of Pale dei Procol Harum, perché con quella ci ho ballato i primi lenti abbracciato alle ragazze. Che poi abbracciati tanto per dire […]». Ha confuso il gioco con il dovere, nutrito i suoi sogni più profondi, formato la sua focosa indole politica.

Sempre in quel bar ha tentato più volte di fermare il tempo, complice un cronometro regalatogli proprio da zio Nicola: «Tè, Savè”, m’ha detto, “cu quistu si patronu d’u tìampu, u poi firmà, u poi fa jì annanti e u poi fa jì arrìatu, insomma ci poi fa quiddu chi vùai».

Ma il tempo, altro tema portante del testo, non si può fermare. Tutto cambia, deperisce, cambia forma. I genitori invecchiano, avvertono che il loro, di tempo, è arrivato, e poi se ne vanno via per sempre. Le strade che abitiamo abitano esse stesse un continuo altro tempo: i vecchi negozi di alimentari ormai chiusi spariscono per lasciare spazio a centri commerciali e supermercati privi di identità.

 

Saverio/cantore abbraccia tuttavia tali trasformazioni, le osserva, le studia e le “canta” senza enfasi né giudizi. A tratti con un sano rammarico. A tratti, persino, con benevola ironia. Rispensando ad uno degli spettacoli più emblematici e toccanti del repertorio di La Ruina, Dissonorata (Premio Ubu nel 2007), ci tornano in mente le mani sul volto della prima scena: mani impegnate ad accarezzare incessantemente le gote come fossero angeli capaci di lenire qualsiasi dolore. Anche quello pietrificato e ancestrale che, in quello struggente monologo, muoveva dall’utero di un Sud quanto mai feroce. In Via del Popolo sembra, invece, che proprio il tempo, gli anni trascorsi e vissuti, l’esperienza umana e professionale sedimentata spingano l’attore ad un perdono pietoso; ad una comprensione più consapevole delle contraddizioni e dei cambiamenti propri di una realtà che il suo teatro ha sempre saputo raccontare con trasporto e lirismo.

 

Il tempo uccide e insieme cura, accompagna le nostre vite e insieme corre spietato. E allora è il caso di sorridergli in faccia. Non per niente, il Tempo stesso campeggia in scena nella riproduzione volutamente naïf che Riccardo De Leo firma del celebre dipinto La persistenza della memoria di Salvator Dalì: una sorta di distorsione ottica dove un grande orologio tondo, celeste chiaro, scivola fuori dal suo perimetro per dirci che il tempo fa il suo corso e non ascolta i nostri desideri. È un’immagine quasi infantile, ingenua, eppure puntale. Che si ricorda con estrema semplicità che quell’orologio abita dentro di noi e dentro la nostra storia. Una storia intima, solo nostra, e una storia sociale, condivisa, che è poi la storia delle nostre radici, dei luoghi – appunto – e delle persone da cui proveniamo. Una storia in cui riconoscerci come esseri umani in relazione.

 

Nel tenue gioco luci di Dario De Luca (con cui La Ruina ha fondato nel ‘94 la compagnia Scena Verticale e con il quale dal ‘99 dirige l’accreditato festival Primavera dei teatri) e nella sobria, lieve, regia firmata dall’interprete, questo piccolo/grande marchingegno drammaturgico riluce, insomma, di quell’onestà intellettuale e di quella straordinaria capacità che il bel teatro ha di parlarci.

Proprio a noi. E proprio di noi.

WordPress.com – Graziano Graziani – 20/01/2023

In alcuni casi (spesso nei migliori) il palcoscenico è un luogo di fantasmi. Un luogo che si popola delle ombre del passato, delle ossessioni e del senso profondo delle relazioni – umane, sociali, individuali, collettive – che siamo riusciti a costruire e che sono la trama che sorreggono la nostra porzione di mondo. Il rischio che comporta addentrarsi tra i fantasmi non è una shakespeariana perdita del sonno, e nemmeno quello di restare terrorizzati, quanto – più prosaicamente – quello di finire in un ingorgo di nostalgia, malta insidiosa con cui i racconti finiscono per essere scivolosi, personalistici, rassicuranti. È con la consueta grazia della sua recitazione e un gusto garbato dell’ironia che Saverio La Ruina riesce a evitare l’insidia dei ricordi personali e ad allestirli poeticamente sulla scena di “Via del Popolo”, ad uso e consumo di un pubblico (come quello delle repliche romane a cui ho assistito) che forse non ha mai visto Castrovillari, la città dove si dipana il racconto e dove si trova la via evocata nel titolo, e sicuramente non l’ha mai vista negli anni Sessanta e Settanta, l’epoca in cui la vicenda è ambientata.

 

Lo sfondo è quello di una Calabria che oscilla tra l’antico di un mondo rurale, montano – dove la promessa di ricchezza si staglia nell’alveo della città, sia pure una cittadina come Castrovillari che non è neppure capoluogo – e il moderno di un’Italia in fermento politico e sociale. L’abbandono del paese per aprire un bar in via del Popolo ha il sapore dell’epica, per il protagonista bambino, non meno che se la famiglia avesse attraversato l’oceano.

 

Lo sfondo, dunque, è un contesto concreto, ma il paesaggio che ci propone La Ruina è un paesaggio onirico, che si apre tra i moccoli di un cimitero – le luci disposte sul palco – dove l’amico Tonino si aggira sputando allegramente sui morti. Un gesto irriverente che ci porta dentro una dimensione dal sapore picaresco che non abbandona il racconto nel corso dello spettacolo, perché andando più avanti nel tempo ci ritroveremo invischiati in una ricerca accorata dell’anziano padre scomparso che finisce con il gusto tipico della battuta di paese, in grado di condensare il bene e il male e sciogliere i nodi che creano con una scrollata di spalle (come stai papà?, chiede il figlio al padre rimasto in vallone per un giorno e mezzo, anche di notte, al freddo – e quello risponde “abbastanza bene”…).

 

È chiaro che oggi dei negozi e delle vetrine che stimolavano la fantasia del giovane Saverio è rimasto ben poco – non solo a Castrovillari, verrebbe da dire, ma un po’ ovunque il tempo continui a scorrere. Ed è chiaro che, procedendo tra i ricordi personale, il racconto si tinge di note sentimentali; eppure ciò che maggiormente ci racconta la storia di “Via del popolo” è un grande richiamo poetico alla leggerezza. Gli entusiasmi – come quelli del giovane Saverio di fronte alle vetrine e alla varia umanità del corso castrovillarese – fanno parte della vita, cambiano colore con l’avvicendarsi delle stagioni; ma è il fatto stesso che le stagioni si avvicendino a dare senso al fatto di averle vissute. Non rimpianto, quindi, ma consapevolezza, da affrontare col più leggero dei registri.

 

Nella vicenda di un bambino di otto anni, poi adolescente che scende in piazza a manifestare e si vergogna del fatto che i genitori affittino un negozio alla sezione locale dei missini, poi giovane teatrante che incontra i propri sodalizi artistici (Dario De Luca con cui fonderà la compagnia Scena Verticale e che qui firma il disegno luci), e infine uomo che raccoglie le fila della memoria familiare e intrattiene un tenero rapporto coi propri genitori anziani, non c’è semplicemente il diario personale di una vita e di una città. C’è un addio al padre che è un ricongiungimento con la propria infanzia; c’è uno sguardo ai fantasmi della città che sono vivi sotto le facce, le vetrine e le insegne del presente; c’è la consapevolezza che farsi donne e uomini è un lavoro complicato e mai solitario, che si compie solo grazie alla rete delle proprie relazioni umane.

 

È solo così che la “persistenza della memoria” – alle spalle dell’attore campeggia uno degli orologi molli di Dalí – cessa di essere ingombro per diventare sguardo sul mondo.

Glistatigenerali.com – Walter Porcedda – 11/06/2023

Parla del territorio, unendo popolareggiante a teatralità, rispetto per le tradizioni ma anche disincanto “Via del popolo” , opera di uno degli artefici della “Primavera”, l’attore Saverio La Ruina: un racconto da seguire fino all’ultimo. Un pezzo di bravura autobiografico costruito da tessere che si incastrano come parti diverse di uno stesso mosaico in cui La Ruina, mette insieme romanzo generazionale, saga familiare e storie di quartiere: il tutto esposto in modo fluido davanti ad un pubblico complice che lo conosce e lo abbraccia come figlio e concittadino.

 

L’inizio è da antologia. La Ruina si aggira in notturna con un amico tra i marmi e le lapidi del cimitero scoprendo e commentando nomi ed episodi. Una piccola Spoon River fatta di umanità e raffinata comicità. Così si passa senza soluzione di continuità alla fotografia del nucleo familiare che un giorno carica le proprie cose, lasciando il villaggio nei monti per approdare nella città dalle luci colorate. Il cambio di vita è l’apertura di un bar nella via centrale di Castrovillari. Tutto attorno un ricco repertorio umano fatto di artigiani, commercianti e piccole storie. C’è il proiezionista, Tonino il macellaio, Giovannino l’antennista… gli amori mai nati e dichiarati. E poi ci sono i ragazzi dei Settanta, ballando il lento “A Wither Shade of a pale” dei Procol Harum, ascoltando il rock e andando alle manifestazioni fino al 1978 “l’anno in cui il movimento finì”.

 

La Ruina alterna e intreccia i pezzi del racconto come si infilano gli steli di giunco nel costruire i cestini. Ci sono gli amici e le figurine di una cittadina che poi è come il nido. La madre, chiesa e casa e il padre che una sera incredibilmente non torna. La ricerca disperata, l’ultima rasatura… C’è davvero tanto in “Via del Popolo”, ritratto di molta Italia del Sud quanto del Nord. La scoperta del mondo, il dolore, la vita. Uno spettacolo che si ama subito senza tentennamenti.

Bebeez.it – Mario Cervio Gualersi – 18/06/2023

(…) Di Via del Popolo, scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina abbiamo dato ampio conto in queste pagine lo scorso gennaio in occasione del debutto milanese, ma è stata una bellissima emozione rivederlo nel luogo in cui è ambientata la storia, proprio la Castrovillari sede del Festival, a cui Saverio è approdato a sei anni con la famiglia, traferitasi dal paesino di montagna dal quale è originaria e dove il babbo aveva aperto un bar. In una sorta di Alla ricerca del tempo perduto l’autore ci conduce per mano a conoscere i tanti personaggi che hanno accompagnato la sua infanzia, adolescenza e maturità, un’indimenticabile galleria di caratteri alcuni dei quali sono effigiati nelle lapidi del cimitero. Un altro protagonista della pièce è infatti il tempo (simboleggiato in scena da uno degli orologi sciolti di Salvador Dalì) che ha radicalmente mutato l’aspetto della strada del titolo, dove sono scomparsi tanti negozi al pari dei loro titolari, ognuno con una sua caratteristica fisica o caratteriale, tanto che per percorrerne i 200 metri prima ci si impiegavano 20 minuti mentre ora ne bastano due. Teneri e nostalgici sono i ricordi che riguardano i suoi genitori, il padre che se n’è andato e la mamma severa e protettiva. Un piccolo gioello che ha giustamente meritato una lunga tournée che ancora continua con immutato successo.

Il Sole 24 Ore – Antonio Audino – 29/01/2023

Le radici dialettali di una via spazzata dal tempo

 

In quanti modi si può misurare il tempo? Sull’arco lungo della nostra storia? Su quello più breve di una vita? Sui frammenti esigui delle nostre esperienze quotidiane? Semmai, sembra suggerirci Saverio La Ruina, bisogna tenere conto contemporaneamente di cronometri che procedono con velocità differenti. Non a caso al centro della scenografia del suo ultimo lavoro, Via del popolo, c’è un orologio molle di Dalí un oggetto arresosi alla sua inutilità. Proprio quel corso cittadino, arteria principale di Castrovillari, la località calabrese in cui questo attore e autore vive sin dal giorno della sua nascita, è stato ed è un attento indicatore delle varie modalità di scorrimento del tempo. Tant’è che i minuti per percorrerlo sono calcolabili in maniera diversa, variando a seconda del passo, ma anche a seconda delle epoche. E, se una volta c’erano molte botteghe presso cui fermarsi e tante persone da salutare, oggi quel viale, pressoché deserto, si attraversa in pochi istanti, perché il ritmo dei nostri giorni fluisce altrove, nei centri commerciali, secondo i nuovi riti della civiltà contemporanea.

 

Nello spettacolo, passato a Roma al TeatroBasilica, La Ruina snocciola i racconti delle tante figure che hanno animato quei marciapiedi, lo fa indossando una giacca bianca da cameriere, perché suo padre aveva un bar proprio su quella strada. Ecco allora i tanti negozianti vicini, le tante esistenze riunite per un casuale disegno su quella traiettoria, le signorine di buona famiglia, l’uomo sentimentalmente legato ad una donna sposata con la quale non ha mai avuto una relazione, il malavitoso con un senso della giustizia tutto suo. E ci sono poi i luoghi significativi, il cinema con le pellicole spezzettate di film spesso incomprensibili, o la sezione politica del Msi quando negli anni Settanta anche lì arriverà la contestazione e sarà possibile vedere persino un ragazzo e una ragazza baciarsi in pubblico. Sembra esserci una sotterranea traccia pasoliniana in queste narrazioni, perché a generarle non è la nostalgia di un passato considerato migliore del presente, ma il desiderio di indagare sulle radici profonde del nostro essere, come individui e come collettività nazionale. Quindi, recuperare nella memoria quel tempo (appunto) apparentemente così lontano, vuol dire, semmai, vivere con maggiore consapevolezza la nostra accelerata e confusa realtà attuale. Per questo, e perché ci sta parlando di se stesso, La Ruina si rivolge al pubblico con un tono semplice e quotidiano, colorato con le tinte del suo dialetto, e forse in un modo più diretto rispetto ad altri suoi lavori, ma anche questa volta la linea portante è la sensibilità e la delicatezza, tipica di questo autore e interprete, nell’osservare e nel raccontarci vite piccole e grandi, comuni e straordinarie.

Nonsolocinema.com – Leonardo Mello – 26/06/2023

È sempre un’emozione vedere un nuovo spettacolo di Saverio La Ruina. L’autore/regista/interprete riesce a smuovere, nel suo raccontare, le pieghe più nascoste dei ricordi. Così è successo a Castrovillari con Via del popolo, che solo superficialmente potrebbe essere accostato agli ormai celebri e celebrati lavori del passato, da Dissonorata a La borto, da Italianesi a Masculu e fiammina, senza contare i peli d’oca provati con Polvere, per citarne solo alcuni. In questo ritratto della Calabria più profonda Saverio si mette del tutto a nudo, parla di sé in prima persona, narra il posto dov’è cresciuto senza infingimenti ma con la consueta (e anzi arricchita) poesia.

 

È una pièce fondamentalmente basata sugli esterni: la strada in cui è andato a vivere giovanissimo, il bar del padre, aperto con lo zio poi finito in ospedale psichiatrico, il meridione italiano fatto di persone reali e allo stesso tempo personaggi di una commedia che può essere lieta o può esserlo molto meno. Quella che tutti chiamano gente del paese, magari un po’ malavitosa, a volte, un po’ accidiosa, altre, ma sempre e comunque ricordata come in una fotografia analogica. La cosa più sbalorditiva, infatti, non riguarda la storia, come negli spettacoli precedenti. Protagonista, almeno per chi scrive, è il tempo, anzi il tempo passato. Ci troviamo tutti a dover fare i conti con quello che resta della nostra infanzia. Della giovinezza, forse sarebbe meglio dire. I ritratti che Saverio costruisce sono intimi e paradigmatici, dicono di una famiglia meridionale ma richiamano i sentimenti che ci hanno accompagnato, le distanze, le assenze, gli errori. L’autobiografia dichiarata diventa simbolo universale di ciò che è stato, di ciò che si è stati finora. E quella Via del Popolo, ormai desertificata, si dipinge dei colori di ogni persona che ci passava, rimangono impresse le belle sorelle ammirate da tutti, perfino dal prete, o la disastrosa scomparsa del papà dell’autore, per fortuna risolta dopo affannose e rocambolesche ricerche. Ma il senso della poesia, il suo motore, porta lo spettatore lontano. È anche pericoloso, in realtà, perché il valore schiettamente autobiografico di cui si accennava si rivela uno specchio. E restando immagati dalle parole si scivola irrimediabilmente dentro la propria solitudine, si enumerano uno a uno i volti di chi ci ha lasciato. Tanti tipi diversi di morte, fragilità mai del tutto sopite e superate. Ma la straordinarietà di Via del popolo sta tutta qua, nella benevolenza che ti porge.

 

Non è un caso che l’inizio, divertente e rituale, si svolga in un cimitero. Si ride anche di qualcuno che lì è sepolto, ma l’orologio storto come quelli di Dalì ci indica il tema: il tempo, il passaggio, la permanenza e anche, ovviamente, la dipartita. C‘è un affetto così profondo nel delineare le tracce di ogni persona che viene evocata che deve essere costata un bel po’ di fatica emotiva a chi l’ha scritta. Perché, lo sanno tutti, non è facile parlare di sé. Costa dolore e si cerca di evitarlo, se si può. Saverio è stato molto coraggioso nel far entrare folle di estranei nel suo mondo più intimo.

 

Lo spettacolo è un capolavoro nell’alternare riso e commozione. Lo dimostrano i dieci minuti di applausi, un tributo a questa nuova prova d’artista. Poi certo si esce dal teatro. E necessariamente ci si guarda indietro. Ma in fondo il teatro serve a questo, a consolarti. A strapparti il cuore e rimetterlo a posto.

Sipario.it – Gigi Giacobbe – 22/12/2022

I nomi delle vie hanno qualcosa di epico, di tragico, di poetico. Ti ricorderai sempre la Via Merulana a Roma dove accadde un brutto pasticciaccio ad opera di Emilio Gadda, la Via Pal di Ferenc Molnar a Budapest che denunciò la mancanza di spazi per il gioco dei più giovani, la stretta Via Castellana Bandiera di Palermo, romanzo e film di Emma Dante, costituì un campo di battaglia per due donne testarde rimaste bloccate con la propria auto sino a tarda notte, una sorta di duello silenzioso fatto di rabbiosi sguardi e rabbia repressa finito tragicamente con la morte di una delle due. A Messina la Via Cicerone, per tanto tempo sterrata, fu il regno dei giochi dei ragazzini del quartiere (compreso chi scrive) a due passi dal Duomo e soltanto da qualche mese è stata bellamente restaurata con eleganti mattoni grigi di pietra lavica. Non dimentico la genovese Via del Campo di Fabrizio De Andrè dove risiede una graziosa puttana dagli occhi grandi color di foglia, né la milanese Via Gluck di Adriano Celentano dove un tempo c’era l’erba e poi fu eretta una città. Adesso sale alla ribalta la Via del popolo di Castrovillari dove vi abitava e continua a farlo Saverio La Ruina, diventata una pièce teatrale autobiografica, interpretata e diretta magnificamente da lui stesso tutto da solo, come sempre con toni garbati, (espressi già in Dissonorata, La Borto, Italianesi e altre, note pure all’estero), ruotante attorno ai suoi anni infantili e adolescenziali, da quando la propria famiglia dal monte Pollino si trasferisce a Castrovillari col suo bel Castello Aragonese. Lo spettacolo, in dialetto e in lingua, inizia con La Ruina che cammina al ralenti sulla scena del Teatro dei Tre Mestieri, puntellata da piccoli lumi accesi che indicano tombe e nomi di chi vi è sepolto. Sui pantaloni e maglietta neri La Ruina indossa una giacca bianca, che terrà sino alla fine, ad indicare il suo primo lavoro da cameriere nel bar Rio acquistato dal padre Vincenzo e dallo zio Nicola, firmando al vecchio proprietario un’infinità di cambiali da poterci tappezzare l’intero locale. Il racconto procede come un amarcord felliniano con molti flashback: carezze o sputi dell’amico Tonino sulle severe foto di chi in vita s’era comportato bene o male nei loro confronti: confessione sulla tomba del padre che scriverà un lavoro su di lui e Castrovillari, sapendo già che avrebbe dissentito, giacché per lui avrebbe preferito un lavoro meno effimero: l’arrivo di notte in città su un camion con madre e fratello al seguito ha il sapore viscontiano di Rocco e i suoi fratelli quando giungono in una Milano imbiancata di neve: i palazzi pieni di gente, le macchine lungo le vie popolate da negozi d’ogni tipo illuminati a giorno, fanno sentire il piccolo La Ruina d’essere entrato in un paese delle meraviglie, rimanendo ipnotizzato davanti alle lucette mobili d’un flipper o a delle macchinette in cui infilandoci una moneta fuoriescono per incanto noccioline e pistacchi. Erano gli anni ’60 e la vita scorreva lentamente, quasi come quell’orologio molle in fondo alla scena, che ricorda il dipinto La persistenza della memoria di Dalì (ripreso qui da Riccardo De Leo), simbolo dell’elasticità del tempo, quando la gente si conosceva di persona e per nome e ci si fermava a chiacchierare non solo del tempo e della salute, in quella Via del Popolo ricca di voci e di rumori, di botteghe di generi alimentari e di officine artigianali di fabbri e falegnami, pure l’affollatissimo Cinema Astor col suo proiezionista Giannino, quasi un Alfredo di Philippe Noiret di Nuovo Cinema Paradiso e le cui pellicole venivano catalogate con i rispettivi interpreti dal piccolo La Ruina. Il quale ricorda le musiche e le canzoni di quegli anni dei Beatles e dei New Trolls e le feste da ballo nei saloni delle case o nelle terrazze durante le quali bisognava stare distanti dalle fanciulle almeno trenta centimetri. Sono tanti i personaggi che vengono alla luce nello spettacolo, ma su tutti domina il racconto sul padre Vincenzo che ad un tratto scompare da casa per sedici ore, mettendo in ansia moglie, parenti e amici, la stessa polizia che la cerca e che si prenderà il merito del ritrovamento, quando invece sarà lo stesso Saverio La Ruina che lo raccoglierà infreddolito alle luci dell’alba e per niente impaurito. Adesso Castrovillari è una piccola città globalizzata, senza più il Bar Rio; i negozi al dettaglio hanno lasciato il posto ai centri commerciali, la gente non s’incontra più, sono scomparse le relazioni personali, ma fortunatamente da 22 anni viene allestito un Festival teatrale denominato Primavera dei Teatri, diventato importante non solo in Italia ma in tutto il mondo, affollato da giovani e da compagnie affermate e meno note. Lo spettacolo, applauditissimo alla fine, girerà per l’Italia e certamente avrà dei ritmi ancora più intensi ed esaltanti.

Recensito.net – Tommaso Chimenti – 23/12/2022

“Via del Popolo” di Saverio La Ruina: la vita non è una lotta contro il tempo

 

“Dicono che c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, Io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare” (Ivano Fossati, “C’è tempo”).

 

Nel doppio binario di un tempo interiore e di un altro oggettivo si svolge la vicenda portata alla luce da Saverio la Ruina che, con la grazia e l’eleganza di sempre, ci fa entrare dentro la propria vita, il proprio vissuto, la propria città e famiglia. E lo fa aprendoci la porta su uno dei dolori più grandi per ogni essere umano: la perdita di un genitore, la scomparsa del padre, pilastro saggio, uomo di poche parole ma di grande tempra, senza fronzoli, senza grilli per la testa. “Via del Popolo” è una camminata che facciamo insieme a lui nella quale ci accompagna e ci mostra quel che era e quel che è della sua cittadina, quella Castrovillari famosa teatralmente per il festival “Primavera dei Teatri” organizzato dalla compagnia Scena Verticale che ha fatto conoscere a tutta Italia questo comune sotto al Monte Pollino e a trenta chilometri dal Mar Tirreno come dallo Ionio. Una strada come pretesto per raccontare una città, e una società e una socialità, cambiata, mutata nel tempo, forse peggiorata, sicuramente modificata e diversa. Attraverso questa passeggiata conosciamo la perdita e questo tempo (il vero protagonista della pièce, simboleggiato dalla scena con la riproduzione dell’orologio fuso e sciolto di Dalì) che passa e trasforma e travolge le persone come le cose e cancella mondi costruendone di nuovi. C’è nostalgia e ricordo ma è un racconto non chiuso nella sua Calabria ma aperto e universale perché ognuno di noi potrebbe apporvi le proprie origini, strade e piazze e provare quel senso di inadeguatezza rispetto ai tempi moderni e un biascicare tra i denti un “ai miei tempi” oppure “quando ero piccolo”.

 

Il padre e la città, il padre è la città, il padre è la solidità delle pietre, dei muri, delle case, la protezione, il lavoro, quell’intorno costruito e difeso con i denti e le unghie con il sudore e la fatica, la dignità dello sgobbare, la pulizia e l’onestà di farcela con le proprie forze nel rispetto degli altri. Il padre Vincenzo è venuto a mancare qualche anno fa ad 84 anni e c’è commozione nelle parole di Saverio che lo ricorda con il giusto distacco del teatro ma tra le righe l’emozione è, giustamente, forte e con questa lieve fragilità ci rende e dona tutta la sua incredibile umanità, quel suo tocco leggero sulle cose che racconta, quella carezza affabile della sera, quella vicinanza, quell’abbraccio. La città è il padre, è la sua protezione, è il sentirsi al riparo sotto la sua ala di regole salde e principi solidi. La Ruina, con la giacca bianca da cameriere visto che i suoi avevano un bar, ci fa immaginare volti e piazze, incontri e sorrisi, caratteri e vicende con una autobiografia tenace e robusta ma al tempo stesso commovente e toccante nei trascorsi della sua famiglia che è cresciuta, si è consolidata fino alla vecchiaia, fino a quel passaggio naturale delle generazioni, il testimone che scivola di mano in mano con rettitudine, gratitudine, giustizia. Ci si immerge in questo romanzo di formazione e ci si immagina il grande attore e drammaturgo piccolo, poi a giocare a calcio nei campetti polverosi di periferia, a scuola o intento a dare il primo bacio che è ancora stampato nella sua memoria.

 

Ma il tempo non lo puoi fermare né governare, certo si può dilatare o restringere come l’universo e i buchi neri: “Il tempo non si può misurare: non vorrai dirmi che un’ora di piacere, un’ora di dolore, una di gioia, una di paura, hanno tutte sessanta minuti?”, diceva il filosofo Raimon Panikkar. Il tempo è strettamente personale e qui La Ruina ci fa partecipi e condivide il suo intimo con tutta la platea, donandosi generoso, aprendo i cassetti della sua esistenza, mettendosi a nudo, senza paure, regalandoci i sorrisi elargiti come il dolore sofferto e patito. Ma è la tenerezza che non lo abbandona mai, verso la sua infanzia e adolescenza, verso il suo comune di residenza, verso i genitori, verso il padre tratteggiato mai come padrone ma come caposaldo, colonna, fondamenta alle quali appoggiarsi. E’ un viaggio dagli anni ’60 ad oggi e che in questi decenni vede parallelamente cambiare la sua famiglia, prima crescere poi invecchiare, e cambiare la sua città, prima modernizzarsi e poi perdere per strada un po’ di magia e folclore globalizzandosi come ogni angolo del mondo. Impossibile non riconoscersi non tanto nei luoghi quanto nelle sensazioni e nelle atmosfere degli aneddoti, dei mestieri spariti, i soprannomi, gli amori dimenticati fino a toccare la politica e la malavita della zona. E’ un quadro, un affresco dipinto con i colori tenui dell’anima, questa pasta inconsistente che non riesci a stringere ma della quale cogli benissimo l’essenza, come dice da testo “la collina di Spoon River”. Brividi sparsi.

 

“Mi basta il tempo di morire fra le tue braccia così”  (Lucio Battisti, “Il tempo di morire”).

ilmanifesto.it – Mariateresa Surianello – 14/01/2023

Sotto un orologio deformato alla Dalì percorsi di vite tra passato e presente

 

Un racconto gentile e acuminato che restituisce il tessuto antropologico e la memoria di un luogo preciso. Il nuovo spettacolo di Saverio La Ruina è un amoroso scavo autobiografico nei particolari di un contesto sociale mutato, emblematico della perdita di identità e gentrificazioni di rioni e quartieri delle nostre città. Con Via del Popolo(in scena al Teatro Basilica fino a domani) l’autore-attore calabrese torna alla Castrovillari della sua infanzia, negli anni 60, alla migrazione della famiglia dal silenzio della montagna del Pollino verso quel paesone chiassoso e pullulante di luci, meraviglioso e sconcertante. Sembra una parentesi introspettiva – un respiro profondo sullo scorrere del tempo – nella sua produzione drammaturgica, comunque rivolta sempre alla ricerca antropologica e sociale, fin dalle prime prove di Scena Verticale con Dario De Luca.

Il tono sommesso e colloquiale della narrazione è venato di sottile ironia che spesso dilaga in un’irresistibile comicità

 

UN OROLOGIO deformato alla Dalì pende al centro della scena, segnata da lumi come fossero i viottoli del cimitero ma anche le strade del paese, che confluiscono tutte nella strada del cuore, dove tutto accadeva e la vita di ognuno scorreva tra bar e alimentari, negozi di artigiani e addirittura il cinema.

Tanta gente per la via, sulle porte e alle finestre, a creare una comunità partecipante nel vissuto di ciascun componente. Il tono sommesso e colloquiale della narrazione è venato di sottile ironia che spesso dilaga in un’irresistibile comicità, cifra sperimentata forse per la prima volta nella scrittura di La Ruina, in un continuo altalenare tra passato e presente (Saverio vive ancora in via del Popolo, dove c’era anche il bar di famiglia), tra personaggi morti e ancora vivi ma vecchi, tra lingua dialettale e italiana. Una presa d’atto del proprio percorso esistenziale, corroborato dalla vita di tanti e da una in particolare. Un addio al padre.

Doppiozero.com – Massimo Marino – 09/06/2023

La città è la protagonista di altri due lavori particolarmente lancinanti. (…) Differente è la città di Via del Popolo di Saverio La Ruina, uno dei padroni di casa di Scena Verticale. Lo spettacolo si apre come finiva Masculo e fiammina, un suo precedente spettacolo del 2016: al cimitero. Una passeggiata tra le tombe della cittadina calabrese, con commenti in dialetto, riapre il tempo, raffigurato sullo sfondo della scena da un orologio di cartone, sciolto, come una riproduzione fatta in casa di quello di Dalì. È il tempo liquido di quella via di Castrovillari (siamo nell’autofiction dichiarata) dove la famiglia dell’autore arrivò dalla montagna: dove si accesero le illusioni, la vita, le economie degli anni del boom; dove si svolsero le lotte politiche degli anni settanta, dove una generazione è cresciuta e maturata e un’altra è invecchiata.

 

Il racconto di tipi, macchiette, momenti seri e ridicoli della vita di quel micromondo meridionale e provinciale che rispecchia il macromondo nazionale a suo modo, si innesta, a un certo punto, sul ricordo di una sera in cui il padre, quello che aveva aperto il bar negli anni sessanta riempendosi di cambiali, ormai anziano, non torna a casa. La madre si preoccupa pochi minuti dopo l’ora solita di rientro. Passa il tempo, sempre lui, quella ghigliottina sulla scena, e a poco a poco anche il figlio e la polizia si mettono in agitazione. Inizia la ricerca, che si intreccia, con abile sospensione, ad altri avvenimenti del paese, come nei racconti epici, come nei canti di Ariosto. I fatti si susseguono e deviano, fino al felice scioglimento, al ritrovamento molte e molte ore dopo dell’uomo sperso, addormentato nei campi, steso nel grano alto.

Quella che cresce, sempre, come negli altri spettacoli di La Ruina, è la visione di un mondo: siamo condotti dalla voce placida, cullante del narratore, che prima ci fa vedere, poi ci fa entrare nel mondo intravisto, infine ci fa sprofondare in una metafora dei nostri spazi, ma soprattutto del tempo della vita, dei cicli, partendo da quella passeggiata nel cimitero, con il dolce sussurro che passioni, paure, sviluppo e crisi siano tutti, sempre, passeggere vanitates di una vita che di quelle domestiche vanità, illusioni, tensioni, solitudini ha sempre bisogno. Narra, quasi cantilenando, di una vita antica che forse non era migliore rispetto al vuoto delle metropoli, anche se appariva più calda. Che nel presente sembra comunque lontana, un sogno svanito dietro le serrande abbassate dei tanti mestieri, della tanta vita che popolavano via del Popolo.

klpteatro.it – Elisabetta Reale – 16/01/2023

Via del Popolo. Saverio La Ruina tra i luoghi che hanno costruito ricordi

Il passo è rilassato, elegante, per non disturbare troppo la quiete di un piccolo cimitero, caratterizzato da alcuni lumini sparsi qui e là.

Parola dopo parola, la memoria del passato viene vivificata grazie a gesti, suoni, frasi a comporre ricordi di un tempo rimasto indelebilmente scolpito nel cuore e nella mente.

Ruota attorno al concetto di tempo – esplicitato anche dalla scena, dove campeggia un orologio da taschino che scivola molle sulla superficie su cui è adagiato, forse ispirandosi nelle forme al dipinto “La persistenza della memoria” di Dalì, rielaborato da Riccardo De Leo – “Via del Popolo”, il nuovo lavoro scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina, che torna alla forma monologante di cui padroneggia stilemi e tecniche, con leggerezza e ironia, delicatezza e garbo. E torna alla sua terra, il monte Pollino, a metà fra il mare dello Ionio e del Tirreno, da cui la famiglia si mosse per raggiungere poi Castrovillari, provincia di Cosenza, casa e dimora anche della compagnia Scena Verticale a cui La Ruina, insieme a Dario De Luca – che dello spettacolo cura il disegno luci – e Settimio Pisano ha dato vita ormai 30 anni fa.

Ma la storia che La Ruina racconta e compone sulla scena con maestria e rigore va ancora più indietro nel tempo, da recuperare, da custodire con prezioso riguardo: è un viaggio dagli anni ‘60 ai nostri giorni. La via del Popolo, di cui La Ruina tratteggia storie e volti, quasi fossero i protagonisti di una laica Via Crucis del ricordo, è un tratto di strada che, come molti, un tempo brulicava di attività: due bar, tre negozi di generi alimentari, un fabbro, un falegname, un ristorante, un cinema… luoghi oggi inghiottiti dal tempo, trasformati in altro oppure desolatamente chiusi. Ma basta poco per ri-vedere le vicende del passato, ricordarne le storie, le persone, rievocate con dovizia di particolari, leggerezza, ironia e un pizzico nostalgia da La Ruina che, alla sua, alterna altre voci e altre vite sulla scena, come un mosaico dai mille colori.

Due uomini percorrono quella via del Popolo, un uomo del presente e un uomo del passato. Il primo impiega due minuti per percorrere 200 metri, il secondo 30 minuti. Ed è in quel lasso di tempo che si consuma e vivifica il ricordo: lacerti di storie emergono dalle parole di La Ruina che, come di consueto, accompagna la narrazione con gesti delle mani quasi a disegnarli nell’aria i protagonisti evocati dalla parola, come ad accarezzarli nel percorso della vita fatta insieme.

Un racconto sì autobiografico, quello imbastito con una narrazione leggera e poetica, densa e ricca di sfumature, dal quale emergono, attraverso flash back prima i genitori, poi gli abitanti di quella Castrovillari che accoglie la famiglia La Ruina. Ma anche una porta verso il passato, l’occasione preziosa per osservarne cambiamenti e direzioni. E il fulcro della narrazione è quella via del Popolo crocevia di storie e di vite: ci sono il bar Rio dei La Ruina, il padre Vincenzo e lo zio Nicola, avamposto di libertà e di voglia di trasformazione, dove Saverio ha iniziato a lavorare, le botteghe di generi alimentari, le officine artigianali di fabbri e falegnami, la merceria, il frequentato Cinema Astor col suo proiezionista Giannino, che hanno colorato la vita della strada, sulle note delle canzoni di quegli anni, dai Beatles ai New Trolls.

Ricordi e aneddoti a volte troppo affollati nella narrazione, ma che toccano momenti di grande poesia e condivisione: dal centro alla periferia, Castrovillari diventa epicentro di quelle lotte che negli anni ’60 hanno animato generazioni di giovani, manifestazioni, incontri, occasioni per sperimentare. E a fare da fil rouge al racconto la famiglia, quei genitori tanto preziosi nell’esempio di vita, le cui vicende e in particolare quelle del padre, puntellano la narrazione.

Uno spettacolo intimo, come lo sono i ricordi, impreziosito da una lingua densa, che all’italiano mescola quel dialetto capace di conferire intimità e immediatezza al racconto e che trova la sua perfetta collocazione in spazi raccolti, come fossero cortili in cui radunare amici e conoscenti per dare vita al racconto, così come è stato per la replica ospitata dal Teatro dei 3 Mestieri di Messina, nell’ambito della interessante rassegna EPIC (Esperienze Performative di Impegno Civile), progetto di promozione del teatro nelle periferie realizzato a Messina da Mana Chuma Teatro in partenariato con Rete Latitudini e Teatro dei 3 Mestieri.

Gazzettadelsud.it – Vincenzo Bonaventura – 13/12/2022

“Il nuovo, magistrale spettacolo del geniale autore e attore calabrese”

 

Il crinale è sottilissimo, fra testimonianza e nostalgia, tra racconto e rimpianto. Saverio La Ruina, entertainer della parola che si fa teatro di narrazione, lo percorre con sicurezza, consapevole spavalderia e capacità magistrale, tutte qualità che, da “Dissonorata” in poi, compongono le sue riconosciute e premiate capacità di attore-autore. Lui con la parola e con un perfetto uso, misurato e costante, dei gesti (un racconto nel racconto), riesce a ricostruire sia il protagonista (in questo caso se stesso) sia gli altri personaggi (stavolta quasi una moltitudine) fino a portare lo spettatore dentro tutto quello di cui parla.

Crinale sottilissimo, perché “Via del Popolo”, prodotto da Scena Verticale, al debutto nazionale nel teatro Menotti di Milano, è il “cuntu” dell’infanzia dell’autore, a Castrovillari (in provincia di Cosenza) e della via in cui abitava da bambino e ancora abita, vicina – basta girare l’angolo – alla centrale via Roma, dove il padre Vincenzo e lo zio Nicola gestivano il Bar Rio.

 

Le emozioni, inevitabili, si trasferiscono dall’attore allo spettatore: per chi ha vissuto gli anni 60 e 70 appare evidente la contestazione della società odierna, in cui si è smarrito il senso di comunità, allargata non solo ai familiari, ma anche ai vicini e ai paesani in generale. Quella dove il senso di solidarietà è innato, frutto di una spontaneità che nasce insieme con le persone, dal contatto diretto, dal sapere tutto di tutti, non per alimentare i pettegolezzi, ma per un reciproco aiuto nel caso di un tacito bisogno.

 

La Ruina supera il rischio di una nostalgica battaglia di retroguardia, mantenendo la sua narrazione in una sorta di evidenza, dove ciascuno evoca dentro sé stesso le differenze e ricostruisce come vuole il tempo. È questa la chiave di accesso allo spettacolo, che potrebbe anche intitolarsi «La persistenza del tempo», come il famoso dipinto fantastico di Salvador Dalì, tanto che è uno degli “orologi molli” del pittore spagnolo a essere il quasi unico elemento scenico di «Via del Popolo». Quando lo zio Nicola regala a Salvatore, piccolo cameriere del bar, un cronometro, gli fa credere che con quello si può fermare il tempo. Il bambino scopre presto che non è possibile, salvo poi riuscire a farlo adesso, da grande, su un palcoscenico.

 

Così intreccia le sue vicende familiari (con il padre che a 84 anni si perde di notte in un campo di grano e la madre che lo cerca) con quelle di un personaggio immaginario, chiamato 30 Minuti, il tempo che gli occorre per percorrere l’intera via del Popolo, a fronte dei due minuti sufficienti oggi. Allora ogni bottega era un’occasione per fermarsi e chiacchierare e quel tempo non era mai perduto. Ogni persona era un mondo: l’elettricista Pino, che aggiustava i televisori con i suoi colpetti magici; Pino del ristorante Pino, che andava avanti a bicchierini di Kambusa; De Simone, bigliettaio del cinema Ariston (dove il proiezionista tagliava e incollava pellicole alla maniera di «Nuovo cinema Paradiso», uno dei momenti più divertenti); Mastu Giuvannu, il sarto zoppo vestito a lutto per la morte della merciaia Ida, di cui era segretamente innamorato; Tonino il macellaio, che poteva essere scambiato per James Caan del «Padrino»; Zu Franciscu e Mastu Ninu, alimentari e falegnameria attaccati, tanto che si rischiava di «addentare il legno e inchiodare il panino»; e altri ancora.

 

La Ruina diventa ognuno di loro rimanendo se stesso, in un gioco di “specchi diversi”, miracoli che possono avvenire su un palcoscenico. Le storie sono tante, compresa l’inaspettata comparsa di Julian Beck e del suo Living Theatre a Castrovillari, forse un segno del destino. Oggi, senza botteghe, via del Popolo è quasi un deserto. La Ruina non rimpiange, piuttosto constata e fa pensare. L’umanità ha fatto impensabili balzi in avanti, ma ha bisogno di ritrovare se stessa. È il senso, anzi la necessità di “Via del Popolo” (titolo perfetto), adesso in tournée, tra l’altro il 20 dicembre al Teatro dei 3 Mestieri a Messina e il 27 al Vittoria nella sua Castrovillari.

Milanoteatri.it – Danilo Caravà – 08/12/2022

 

Le parole di Saverio La Ruina hanno la facoltà di aggiungere qualcosa a quello che raccontano. Non hanno semplicemente un ruolo mercuriale, non sono stanchi messaggeri di ciò che deve essere detto; piuttosto, fanno esistere un po’ di più ciò che raccontano. Hanno, idealmente, in tasca la lezione di Lacan, e, prima ancora di significare qualcosa, significano per qualcuno, per l’attore stesso. L’interprete le mostra fra le mani, come se fossero lucciole, piccole cose gozzaniane che diventano un mondo in cui perdersi. La via del Popolo a Castrovillari, protagonista della narrazione, dimostra che, se Cristo si è fermato a Eboli,  Omero ha proseguito il suo viaggio, facendo della vita di tutti i giorni una piccola, grande mitologia. Mentre l’orologio appeso si squaglia come quello di Dalì, rompendo la geometria regolare di un tempo cronologico – bandito, una volta per tutte, dal reame del racconto teatrale – vive un altro tempo. Questo è un tempo qualitativo, cairologico, fatto di sovraimpressioni, flashback, di ralenti o avanti veloce: una dimostrazione, teatralissima, della relatività del tempo stesso. La durata di un minuto dipende dal lato della via del Popolo su cui ci si trova, o degli anni in cui la si percorre.

 

La Ruina ti prende un singolo istante, più sottile di un granello di sabbia, e te lo fa vedere, anzi, meglio ancora: te lo fa sentire, come si può percepire da dentro una coscienza. Chi l’avrebbe mai detto che nella profonda provincia calabrese, nel sud dei santi di Bene, si potesse incontrare Bergson; e paste ripiene di panna, di crema, nuove madeleine proustiane, con le quali ci si può felicemente imbrattare il bavero dell’anima. Via del Popolo diventa non un luogo, ma il luogo della vita che, nel rammentare se stessa, non può che moltiplicarsi per ogni creatura, ogni fenomeno con cui viene a contatto. Ed è di una dolcezza struggente sentire questa voce farsi piccola, come se implicasse, appena dietro il suono di ogni fonema, il fiat voluntas tua mariano, rivolto al pubblico. Cammina, rispettosa e umile, tra le parole; come fosse tra i lumini di un cimitero, dove prende le mosse questa storia, che si fa beffe del tempo già nella scelta di principiare dalla fine. E’ una storia frattalica, che prende le provinciali più lunghe, perché così, durante il tragitto, ci si può godere il paesaggio. Si apre alle parentesi, che non sono più parentesi, ma parti irrinunciabili della storia. L’attore mostra alla platea il delicato bozzolo del suo racconto, e fila quella seta con una pazienza olimpica, con una calma zen. Da qualche parte, nella sua vocalità, c’è sempre un sorriso, pudico, appena accennato; uno di quei sorrisi tipici di un Sud che fa di un’attesa, di una pausa, di una scelta di parole, tutta una filosofia.

 

Appare, agli spettatori, un diamante purissimo, una luce esistenziale svelata , come il più prezioso dono. Qui si danza con levità fra le parole, ed esse acquistano la medesima leggerezza che può avere la luce. Questa alchimia, questa magia, questa capacità di esprimere, teurgicamente, tutta la grazia divina anche della creatura più piccola, che, nel dipinto, è poco più di un puntino – e immediatamente, senza filtri intellettuali –  è un preziosissimo patrimonio della drammaturgia di La Ruina. Il padre che si perde rinnova la narrazione di Ulisse, e del figlio Telemaco,  che cerca di seguire, di indovinare il bandolo del filo aggrovigliato paterno. E’ un’epica che sa delle cose di tutti i giorni, che profuma dei caffè nei bar di famiglia, che chiede alla Diva di cantare le cose come sono, non come dovrebbero essere. Si avverte quasi una nostalgia di quegli dei che intervenivano nelle vicende del mito, e qui , invece, se ne stanno in religioso silenzio, come la platea tutta. Si vede un taglio cinematografico nella capacità di panoramicaresulla via, di offrire un piano sequenza che costruisce una coreografia perfetta con i vari appuntamenti visivi presenti nella strada. L’elettricista con la faccia e gli occhi tristi di Cazale, che esercita la sua professione più con gesti magici, sciamanici, che applicando la scienza dell’elettrotecnica, e il macellaio che assomiglia all’altro figlio del Padrino, il riccioluto Caan, sono tra i personaggi di questa Baaria di Tornatore traslata in Calabria. Qui si elogia la lentezza, e lo si fa con arte e maestria;  qui si elogia il tempo che matura piano, che proprio non ci sta a farsi schiaffeggiare dagli implacabili tic tac. D’altronde, come ricorda Schopenhauer, tutto ciò che è squisito matura lentamente. Ma La Ruina fa di meglio, travalicando, in un solo passo, il confine tra lento e veloce. Sembra regalare, con questo suo monologo, la versione in fieri, agìta, della frase che Svetonio attribuì ad Augusto: “Festina lente”, ovvero affrettati lentamente. E, su Via del Popolo,  non si può fare che questo: affrettarsi lentamente, prima che l’ultimo buio scateni gli applausi.

foglidarte.it – Susanna Battisti – 24/01/2023

Il Teatro Basilica di Roma ha inaugurato il nuovo anno con Via del Popolo, scritto e magistralmente interpretato da Saverio La Ruina. L’aggraziato affabulatore appare al massimo delle sue qualità attoriali, in uno spettacolo proteiforme, denso di emozioni, polisemico e attraversato da una sottile ironia che, a tratti, rasenta la pura comicità.

Via del Popolo è la stradina di Castrovillari dove l’autore vive attualmente e dove ha trascorso la sua infanzia e gran parte della sua giovinezza. La strada della sua formazione ma anche un mondo affollato di personaggi legati e uniti da un forte senso di appartenenza alla comunità. Un senso di coesione sociale che il mondo globalizzato ha inesorabilmente distrutto, condannando gli umani a solitudini multimediali. Le botteghe dove ci si fermava per scambiare quattro chiacchiere con i titolari sono state chiuse e sostituite da anonimi centri commerciali, non-luoghi tutti uguali dove non si riconosce nessuno.

Il racconto non è soltanto autobiografico e non riguarda soltanto Castrovillari, che ha acquisito una certa fama grazie al festival Primavera dei Teatri, inventato da La Ruina e da Dario De Luca che di questo spettacolo cura le luci. Via del Popolo contiene una riflessione antropologica sui cambiamenti della società occidentale di oggi. Ci riguarda tutti ma non induce a nostalgie per ciò che è stato.

Il tempo e la memoria sono i motori dello spettacolo che mette in disparte il tempo cronologico per far trionfare quello interiore, che destruttura la sequenza stessa degli eventi. Si comincia dalla fine, si procede per flashback e flashforward, alcune storie si interrompono all’improvviso per essere concluse più tardi, alcuni avvenimenti si infilano nel racconto in via parentetica seguendo l’andamento della libera associazione. Un po’ come nel Joyce dei Dubliners o nella Woolf di Mrs Dalloway. Ma il racconto è assolutamente chiaro e fila liscio senza imporre al pubblico alcuno sforzo mentale, grazie al ritmo perfetto della regia e alla maestria dell’attore, al quale basta un rapido cambiamento di tono, un gesto anche minimo per diventare uno dei tanti personaggi della storia. Il suo racconto non riferisce ma ricrea, i suoi occhi luminosi e lucidi e la sua mimica facciale dimostrano che rivive i momenti di cui parla. La memoria, come sosteneva William Wordsworth , è il filtro della immaginazione , che rievocando esperienze passate, le trasforma in poesia. Non sorprende, pertanto, che il racconto sia caratterizzato da un intenso lirismo. La scena catalizza l’attenzione su un orologio che pende dall’alto, simile a quelli deformati di Salvator Dalì nel suo famosissimo quadro La persistenza della memoria. A terra, file parallele di lumini bianchi che rimandano al cimitero, dove ha inizio il racconto, e ai lati dei marciapiedi di via del Popolo. Saverio La Ruina entra in scena con indosso un paio di pantaloni scuri e una giacca bianca, la stessa che portava da ragazzetto per aiutare a servire i clienti del bar che suo padre e suo zio avevano aperto in via Roma , la grande strada dello struscio, dove confluiva via del Popolo. Dice di stare al camposanto con l’amico Tonino per salutare suo padre Vincenzo, venuto a mancare qualche anno fa. Figura centrale della storia e della vita di Saverio, quest’uomo onesto e volitivo era capace di affrontare ogni rischio per il bene della sua famiglia. Era sceso a Castrovillari con il fratello da un paesetto sul Pollino. Quando le cose iniziarono ad andare bene, l’intera famiglia lo raggiunse nella cittadina che ai loro occhi sembrava l’America. Con passo felpato e gesti rispettosi, Saverio si aggira tra le lapidi e commenta i ritratti dei defunti. I commenti benevoli e anche comici sui modi di fare dei morti risvegliano la memoria e la via del Popolo della coscienza riprende a brulicare di gente, di chi non c’è più e di chi sopravvive alla tirannia del Tempo che tutti condanna all’oblio.

Spetta all’arte, in questo caso al teatro narrativo, il compito di resuscitare persone che, altrimenti, sarebbero finite nel dimenticatoio. Lo spettacolo, per alcuni versi, fa pensare all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, ma i toni e i modi del racconto non sono quelli dell’epitaffio. Qui l’autore rievoca il passato anche per capire e svelare se stesso e lo fa in modo ironico. La sua passione per le paste alla crema che da bambino lo spingevano a imbucarsi alle feste nuziali per accaparrarsi gli amati dolci, rivelano la sua natura intraprendente e la sua tendenza al rischio pur di ottenere ciò che desidera. La foto sulla lapide del cameriere, che non abbassava mai il vassoio di paste ad altezza bambino, si acchiappa uno sputazzo di vendetta da parte di Tonino.

 

Ogni personaggio è un mondo a parte e i racconti dettagliati della vita di ognuno si intrecciano o addirittura si sovrappongono alle storie personali dell’autore. Dalla scoperta dell’amore all’impegno politico, dalla giovanile disubbidienza al padre, che voleva fare di lui un cameriere, alla presa di coscienza delle sue reali attitudini attoriali che ora si dispiegano in scena in tutta la loro unicità.

La Ruina diventa i personaggi di cui parla rimanendo se stesso. Un miracolo scenico sostenuto dall’uso alternato di un comprensibile dialetto calabrese e di un Italiano che non nasconde cadenze meridionali, da una attenta padronanza dei movimenti, sempre contenuti ma sottilmente caratterizzanti, dalle numerose variazioni tonali, dai dolci sorrisi che illuminano il suo volto che appare commosso ed empaticamente legato ai destini di tutta quella gente. L’elettricista sciamano che aggiustava gli elettrodomestici senza servirsi degli attrezzi, ma colpendoli con lievi tocchi delle mani. De Simone , il bigliettaio del cinema Ariston dove il proiezionista aveva il vizio di tagliare le pellicole. Tonino , il macellaio con il camice sempre sporco di sangue che assomigliava a James Caan de Il Padrino. Zu Franciscu del negozio di alimentari così attaccato alla falegnameria di Mastu Ninu che un panino con la mortadella rischiava di sapere di legno. Il romantico sarto zoppo che si veste a lutto subito dopo la morte della merciaia Ida, di cui era segretamente innamorato. Il ristoratore Pino che si beve un bicchierino di Kambusa dietro l’altro e tanti altri ancora. Non sorprende che un uomo del passato impiegasse trenta minuti per percorrere l’intera via del Popolo e che uno del presente ci metta solo due minuti. Perché quella via era una era un piccolo mondo dove tutti interloquivano con tutti e dove il tempo trascorreva lento. Centrali sono ovviamente i genitori e lo zio di Saverio che finisce in manicomio quando lui era ancora troppo piccolo per non spaventarsi all’idea di venire rinchiuso anche lui in quel luogo di pena. La madre Filomena viene solo tratteggiata con riferimenti alla sua fissazione per l’efficacia delle fleboclisi e il suo carattere ansioso. Svetta su tutti la figura del padre, uomo forte e di poche parole, che una sera non torna a casa mettendo madre e figlio in ansia. La polizia lo cerca tutta la notte ma sarà Saverio a trovarlo la mattina seguente in un campo coltivato. Il racconto viene interrotto per essere ripreso verso la fine dello spettacolo che può essere anche inteso come un ultimo, lungo addio a papà Vincenzo e ai tempi inesorabilmente andati.

Un vero capolavoro che scatena interminabili e più che meritati applausi.

Cronacaoggiquotidiano – Maurizio Sesto Giordano – 28/02/2023

 

Il delicato viaggio nella memoria di Saverio La Ruina con la pièce “Via del Popolo” al Centro Zo di Catania, per “AltreScene 2023”

Parlare del tempo, di chi ci ha lasciati, della nostra crescita, della metamorfosi negli anni di luoghi a noi cari, significa parlare di tutti noi, della nostra storia, di come eravamo e di come siamo diventati. Di tempo e di “tempi diversi”, per ognuno di noi, di passato e presente, di luoghi amati, di personaggi e di familiari che hanno accompagnato, guidato e indirizzato il proprio percorso di vita racconta con grande abilità, nel suo ultimo e interessantissimo lavoro, “Via del Popolo”, il pluripremiato attore, autore e regista calabrese Saverio La Ruina, uno dei più attivi esponenti del teatro contemporaneo. La pièce, prodotta da Scena Verticale, è stata proposta sabato scorso al Centro Zo di Catania nell’ambito della rassegna “AltreScene 2023”.

Il monologo, scritto, diretto ed interpretato da un sempre più maturo e convincente Saverio La Ruina, in circa novanta minuti, delicati e toccanti, è un affresco sulla memoria, sulla relatività del tempo che passa, sulla perdita e sul prezioso valore delle nostre radici. Ascoltando la coinvolgente narrazione autobiografica di La Ruina, si rimane incantati, coinvolti, nella potenza e nella magia delle evocazioni, nei brani musicali appena accennati, in quel luccichio di passato e di memoria che emergono in un mirabile testo, carico di grazia, eleganza, commozione e teatro puro. Saverio La Ruina, ancora una volta, dopo i successi con “Dissonorata – Delitto d’onore in Calabria”, “La Borto”, “Italianesi”, “Masculi e Fiàmmina”, colpisce nel segno con una pièce che apre squarci di verità, di ricordi lontani, di parole mai dette, proietta attraverso i luoghi, i personaggi, le storie, le caratteristiche familiari raccontate dal protagonista, nei meandri oscuri delle nostre memorie, nella dolcezza dell’infanzia, confrontando su più livelli, in modo delicato, tra un futuro nebuloso, passato e presente.

La Ruina si presenta al pubblico vestito con maglia e pantaloni neri e una giacca bianca da cameriere (il padre Vincenzo e lo zio Nicola gestivano il Bar Rio a Castrovillari) e tra lo sfondo caratterizzato da un orologio deformato alla Salvator Dalì, disegnato da Riccardo De Leo (riproduzione del celebre dipinto “La persistenza della memoria”) ed una scena, costruita da Giovanni Spina, con a terra file parallele di lumini bianchi che rimandano al cimitero, dove tutto ha inizio e ai lati dei marciapiedi di via del Popolo (cuore pulsante del centro, con bar e alimentari, negozi di artigiani e il cinema) inizia il suo viaggio, il suo intrigante racconto, nella Castrovillari della sua infanzia, negli anni 60, ripercorrendo la migrazione della famiglia dal silenzio della montagna del Pollino verso il centro affollato, brulicante di vitalità, chiassoso e ricco di luci di Castrovillari.

la Repubblica Palermo – Guido Valdini – 29/01/2023

Non è un’operazione nostalgia, rimpianto di un passato scomparso; né uno spleen malinconico d’insoddisfazione del presente; e tanto meno uno sguardo sociologico sul mutamento dei tempi.

 

“Via del Popolo”, l’ultimo lavoro del super premiato Saverio La Ruina, da lui stesso scritto, diretto e splendidamente interpretato – allo Spazio Franco per la rassegna Scena Nostra – è un delicato affresco sulla memoria e sulla relatività del tempo, segnato in scena da una variante degli “orologi molli” di Salvador Dalí dipinta da Riccardo De Leo. Condotto con misura, grazia malinconica ed elegante ironia in uno spettacolo di fresca godibilità.

 

Come in una sorta di disincantata Spoon River, lungo un tragitto do. cimiteriale di lumini, il calabrese La Ruina torna agli anni ’60 e ’70 della sua formazione e ai luoghi dell’adolescenza: Castrovillari, la cittadina del Parco del Pollino oggi sede di due importanti manifesta zioni, Primavera dei teatri e l’I-Fest. E attraverso un centrale tratto di strada – quella del titolo – crea un mondo poetico pieno di colore e calore. Duecento metri che sessant’anni fa occorreva mezz’ora per percorrerli diventano palcoscenico, candido ed esilarante, affollato di fantasmi pulsanti di vita. Botteghe artigiane, il negozio di d alimentari, piccoli luoghi di ritrovo, un ristorante, il cinema, il fioraio, una comunità solidale la cui esistenza scorre tenera e lenta; l’elettricista che aggiusta televisori magicamente, il macellaio sosia di uno dei personaggi del Padrino, il proiezionista che taglia pellicole a piacimento e il sarto zoppo e innamorato. Una curiosa fantasmagoria di anime che ruota attorno al bar di famiglia, dove Saverio aveva cominciato a lavorare da piccolo (e in scena, infatti, indossa una giacca bianca da cameriere); poi le pudiche feste da ballo, il primo bacio, la passione del cinema, la politica e la voglia di spaccare il mondo.

 

Uomo rigido, generoso e saggio, il padre di La Ruina, al quale il figlio dedica un affettuoso tributo: un giorno, già anziano, scompare per sedici ore. E con un diacronico espediente drammaturgico, le vicende di vita quotidiana s’intrecciano con quelle dell’umoristica ricerca, poi risolta a buon fine. Oggi, via del Popolo è un anonimo luogo con banca, garage e centri commerciali, e per attraversarla occorrono due minuti.

Il Fatto Quotidiano – Maddalena Oliva – 14/01/2023

Metti un giorno, in Via del Popolo – Il Premio Ubu La Ruina torna nella sua Calabria per un racconto di un luogo, una famiglia, un’Italia che non c’è più

 

“Veramente vuoi fare uno spettacolo su 200 metri di strada, quelli che portano dalla traversa di casa tua a via Roma?”. È dalla terrazza di casa dei suoi che vediamo affacciarsi Saverio La Ruina per questo ultimo dolcissimo e poetico viaggio nella sua Via del Popolo, una piccola strada a Castrovillari, cittadina dell’alta Calabria dove l’attore e regista – una delle due anime della compagnia Scena Verticale che a Castrovillari organizza da anni il festival “Primavera dei Teatri” – ancora oggi vive. Proprio lì, a cento metri da quel bar Rio che il padre e lo zio di “Savè” si comprarono negli anni Sessanta, firmando così tante cambiali da poter tappezzare l’intero locale: due montanari diventati cittadini, “passando da un lato all’altro della montagna”, e al tempo stesso stranieri. Per loro, “Castrovillari era l’America: c’erano scuole, uffici, ospedale, tribunale, tutto”. E per Saverio che, bambino, aveva raggiunto papà e zio Nicola scendendo da un camion la montagna del Pollino di notte, “Castrovillari pareva un luna park: piena di macchine, luci, negozi, gente. Erano gli anni 60, ma mi pareva di essere arrivato a Little Italy negli anni 30”.

 

“L’adolescenza – scriveva Corrado Alvaro, calabrese – è una riserva per gli anni in cui la fantasia avrà cessato di parlare”. Sono luci che si rincorrono. Come dei flash. Quelle dei flipper del bar Rio in cui Saverio ragazzino impara a fare i primi caffè. Quelle del cinema Ariston, il più grande della città, dove si innamora della settima arte. Quelle del televisore che era solito rompersi quando c’era Rischiatutto, e doveva arrivare Giannino l’elettricista a dare il colpetto magico. La luce della cucina in casa, segno che papà era rientrato. La luce negli occhi di mamma, quando papà lo ritrovarono un giorno e mezzo dopo averlo perso. La luce dei lumini al cimitero: “Savè, t’u ricòrdisi a quistu?”. E che diventano le saracinesche che si abbassano su via del Popolo. Di Zu Ntoniu che vendeva i fichi a paletta, di Pino del Ristorante Pino, di De Simone il bigliettaio del cinema che ha lasciato il posto a un parcheggio, di Rita dell’alimentari, di Mastu Giovannu il sarto, di Tonino della macelleria che stava proprio di fronte a casa: per ognuno di loro il tempo è passato. Ma il teatro, la scena, è il luogo dove tutto vive e il tempo non passa o, meglio, può andare avanti e indietro, può fermarsi e rallentare. Basta far partire il cronometro, quell’omega anni 70 che Saverio aveva ricevuto in dono da zio Nicola: “Tè, Savè, cu quistu si patronu d’u tìampu, u poi firmà, u poi fa jì annanti e u poi fa jì arrìatu, insomma ci poi fa quiddu chi vùai”. Lo stesso con cui l’artista, dalla terrazza di casa, cronometra i due uomini che percorrono quei 200 metri di via del Popolo: un uomo del presente, che impiega due minuti, e uno del passato che, di minuti, ce ne metta trenta. Perché l’uomo “30minuti” appena gira l’angolo si ritrova davanti tutte le voci e le storie che abbiamo imparato a conoscere in questo viaggio che La Ruina fa non solo nella sua adolescenza, ma nell’Italia di una volta oggi divenuta, specie nei suoi piccoli centri, un deserto di solitudini. In un tempo che in una regione come la Calabria anziché andare avanti sembra muoversi all’indietro.

 

“E di cosa tratta l’ultimo spettacolo?”, chiede a Savè il padre, oggi scomparso. “Di te, e di via del Popolo, papà”. “Chi bella via del Popolo, a via nosta. Ne abbiamo consumate di scarpe…”. “E non lo vuoi vedere lo spettacolo?”. “Sarebbe bello, Savè, ma u tìampu un c’è”. “Sì, che c’è”. E Savè tira fuori il suo vecchio Omega, consumato.

Ansa – Paolo Petroni – 05/06/2023

(…) ‘Via del popolo’. È una narrazione sul filo della capacità dei ricordi di ricreare, amplificare e dare un senso al passato, in cui l’attore e autore ci fa vivere la sua crescita, la sua educazione sentimentale proprio a Castrovillari, dove la vita scorreva ancora secondo ritmi più rurali che cittadini e resisteva un senso di comunità. Oggi, la via del titolo, si percorre in cinque minuti, ma allora, di incontro in incontro, ci poteva volere più di mezz’ora. Anni in cui i giovani coglievano lo spirito del nuovo, tra manifestazioni politiche e i capelloni del Bar Novecento, tra i film del cinema Ariston e persino l’improvvisa apparizione in piazza a metà anni ’70 di Julian Beck con una provocatoria performance del suo Leaving Theatre, che il pubblico impedì i carabinieri riuscissero a interrompere.

Il discorso vero allora è quello sul tempo e a ricordarcelo, praticamente unico arredo di scena, è appesa al centro la riproduzione di uno degli orologi che vanno sciogliendosi di Salvator Dalì. Infatti “è sempre questione di tempo”, pur sapendo che “è tutto relativo” come dimostra il cronometro che gli regalò uno zio, perché con quello si poteva letteralmente a piacere fermare il tempo e farlo riprendere a scorrere. La cosa si dimostrò impossibile in realtà, ma è però quello che oggi La Ruina riesce a fare in scena, grazie alla verità sentimentale, al ritmo e l’affabulazione dei ricordi senza retorica o nostalgie, la vivacità evocativa dei personaggi citati, le incertezze, i soprassalti tra una vicenda e un’altra, con al centro quella realistica e poetica di quando suo padre cadde e passò una notte in un campo mentre tutti lo cercavano e sua madre si spegneva o illuminava tutta a ogni notizia.

Paneacquaculture.net – Sofia Bordieri – 08/06/2023

(…) Alle 19, al Teatro Vittoria, è tornato in scena Via del popolo di Saverio La Ruina che ha debuttato al Teatro Menotti di Milano a dicembre 2022. Una narrazione ammaliante ambientata sulla centrale via di Castrovillari, città dell’autore, evocata dettagliatamente con il ricordo di una quotidianità ormai mutata. Il viaggio carismatico inizia tra i lumini del cimitero e subito si ricollega all’infanzia, in un landscape umano e urbano che ha lasciato le proprie tracce, in una memoria cara e solida, nel tempo molle che governa l’umanità. Una performance che rimane nel cuore grazie allo stile recitativo e alle tinte realistiche sempre filtrate dagli occhi di bambini, donne e uomini castrovillaresi insieme allo sguardo di La Ruina rivolto al pubblico con prossimità. (…)

Teatroecritica.net – Andrea Zangari – 31/01/2023

Una sagoma di cartapesta sospesa sul fondale ricorda gli orologi liquefatti di un celebre dipinto di Dalì. “Che brutto”, penso, “sembra fatto da un bambino”. Saverio La Ruina entra in scena al Teatro Basilica passando sotto quel piccolo manufatto naive, poi incede dubbioso fra le candele che tracciano a terra un crocicchio. Il suo passo è quello leggero di sempre, indeciso, imperfetto. È il suo passo, non quello di un personaggio. La storia è una strada: Via del Popolo è l’asse principale di Castrovillari, la via interna di una Calabria interna lontana per antonomasia – lontana quasi per assunzione culturale, forse per segreto autocompiacimento, più irraggiungibile di quanto, di fatto, orografie e infrastrutture consentano. Eppure Castrovillari fu il riflesso di una civiltà metropolitana per la famiglia La Ruina, scesa in città dal Pollino negli anni ‘60. Via del Popolo, coi suoi due bar, il falegname, il dottore, il macellaio, il sarto, è la metonimia di tutto il paese, che è la metonimia della vita del protagonista, che forse è la metonimia di qualcos’altro che intuiamo appena, anche se Castrovillari la conosciamo poco. La Ruina, attraverso la potenza della sua intonazione flautata, antica, ci porta a convegno coi volti della strada, a ogni incontro abbiamo l’impressione rassicurante di affondare l’indice nelle caselle di un calendario dell’Avvento, di performare un rituale che compiendosi nel tempo mira a congelarne lo scorrere solo per fallire e, fallendo, diventare poesia. Ma l’immaginario dello spettacolo nulla concede a vernacolarismi o facili nostalgie: una volta tanto, questo sud non è il Sud, ma un luogo di piccole storie emancipate da stereotipi asfissianti. La realtà squarcia la narrazione pescando nel profondo di figurazioni ancestrali eppure radicate nel proprio esserci, come il padre ottantenne perduto e ritrovato, a distanza di un giorno, appisolato in un fosso. Tutto per capire che quel brutto orologio di cartapesta è il tempo come lo ha sognato un bambino in Via del Popolo.

Dramma.it – Barbara Berardi – Gennaio 2023

Al TeatroBasilica di Roma, nato nel cuore del quartiere San Giovanni tra le fondamenta di una basilica incompiuta, ha preso vita in queste serate uno spettacolo dove le distanze tra racconto, nostalgia e testimonianza sembrano totalmente dissiparsi. “Via del Popolo”, prodotto dalla compagnia “Scena Verticale”, è scritto e interpretato da Saverio La Ruina, che con eleganza e sottile umorismo, partendo dal ricordo commosso della scomparsa del padre, accompagna il pubblico per le strade della sua infanzia;  raccontando della famiglia, di Castrovillari, la città in cui è cresciuto, e di via del Popolo, tacita testimone dei suoi primi amori, delle amicizie, del suo impegno alla lotta politica, delle sue gioie e debolezze. Questo lavoro, però, non è solo un racconto autobiografico, ma è soprattutto l’occasione per tornare indietro alle memorie di un luogo e un tempo ormai lontani; quando la vita scorreva lentamente, e le strade, ricche di voci, rumori, botteghe e officine artigianali, si integravano alla realtà cittadina rafforzando quel senso di comunità e solidarietà, un tempo così innate.  Una strada quindi, diventa il pretesto per raccontare il cambiamento delle nostre città, delle nostre abitudini e dei nostri affetti, riflettendo soprattutto sul nostro rapporto con il tempo e sulla nostra incapacità a volte, di viverlo con consapevolezza: «È sempre una questione di tempo».

Il tempo è il vero e proprio co-protagonista di questo racconto. Rappresentato da un grande orologio disegnato nello stile di Salvador Dalì, sovrasta e domina via del Popolo, tracciata sul palco con dei semplici lumini; inoltre trova spazio anche nel testo, visto che La Ruina sceglie di intrecciare le sue vicende familiari e gli aneddoti della sua cittadina, con quelle di un personaggio immaginario chiamato 30 Minuti, ironizzando sul tempo che occorreva per percorrere l’intera via, a fronte dei due minuti sufficienti oggi.

Un testo supportato da diverse tematiche che invitano alla riflessione, che riesce comunque a non risultare stancante grazie all’alternarsi di più vicende, da quelle più ironiche alle più spiacevoli. Questo grazie anche alla moltitudine di personaggi che ci vengono presentati attraverso una magistrale partitura gestuale di La Ruina, in cui un semplice inclinarsi del tono della voce, un cambiamento dell’andatura, un movimento più deciso della testa, un gesticolare con le mani più moderato, racconta una nuova persona del suo passato.

Saverio La Ruina cammina sul palco, in quella via che per anni è stata la sua casa e  la racconta al suo pubblico, immedesimandosi nelle persone che la abitavano e la vivevano profondamente, come la viveva lui.

Ancora in scena fino al 15 gennaio presso TeatroBasilica, uno spettacolo graditissimo e a lungo applaudito, accolto in uno spazio che è riuscito a donargli una cornice ancora più suggestiva.

Teatro.persinsala.it – Lorena Martufi – 05/01/2023

Istantanea sul piccolo mondo di casa nostra

È un La Ruina maturo, riflessivo, consapevole quello del suo ultimo lavoro, Via del Popolo, che ha conquistato il pubblico, i giornali, i lettori e i teatri d’Italia attraverso un monologo semplice, essenziale, ma denso di figure, personaggi, vita. 

 

La Ruina ci consegna un ritorno a un mondo perduto, fatto di piccole verità, semplici scene di particolari momenti di vita quotidiana e cittadina. Una vita smarrita nella frenesia di un presente liquido che ha cancellato un tempo che fu vivo, ora scomparso, su cui sono rimaste ferme le lancette di un orologio dipinto da un Riccardo De Leo che omaggia La persistenza della memoria di Dalì con una scenografia surrealista che emerge dal fondo della scena. Una passeggiata di ricordi in Via del Popolo a Castrovillari, dove il tempo si ferma sulla vicenda autobiografica dell’attore, qui attualmente residente, ma originario di un piccolo paese montano del Pollino.

 

Trasferitosi in città con la famiglia quando era bambino per cercare lavoro e fortuna attraverso l’attività del padre (il bar Rio, soprannominato ferocemente u bar di ciuti dai cittadini invidiosi di quei contadini che come tanti avevano lasciato la loro casa e la montagna per accedere ai servizi della città che a quei tempi era per loro come l’America), La Ruina restituisce l’anima perduta alla cittadina con un’abilità di racconto e un’interpretazione naturale, intima, con il coraggio di chi osa farsi vedere allo scoperto, come una pelle su cui è scritta attraverso la sua la nostra storia, che è anche quella di questo spettacolo, dove si fondono arte e vita dando origine a una bellezza non costruita – sua meravigliosa cifra stilistica – a cui siamo disabituati. Come un affresco di Guttuso, partendo dal vissuto personale e con marcato realismo, La Ruina dà forma a diversi personaggi presi a prestito direttamente dalla memoria, messa a dura prova da un testo bellissimo e ardimentoso, squisitamente letterario e sorprendentemente ironico che costruisce un mosaico di situazioni riemerse dal passato, ancora nitide, eloquenti, magiche. La parola di La Ruina le anima tutte e, con indosso giacca bianca e l’eleganza dallo stile classico e inconfondibile del cameriere, l’attore passa con un vassoio da bar e una splendida leggerezza disinvolta, tra botteghe, ristoranti, alimentari, cinema, magazzini, officine di una volta. Protagonista è il tempo, interrogato attraverso gli occhi del padre, immagine potente e fragile, piena di poesia, quella di una foglia attaccata a un ramo, metafora della vita che ci riguarda tutti.

 

Tempo relativo, tempo dell’anima che suggerisce alla memoria eventi che ci mancano perché li abbiamo amati tutti. Gli anni Sessanta, passati tra flipper e vassoi e canzoni al juke box, Dire Straits e Dik Dik, lenti ballati sui Procal Harum e paste rubate ai matrimoni. Tempo per esserne padroni: così Saverio bambino materialmente lo ferma sul cronometro d’oro regalatogli dallo zio Nicola, quando lascia raffreddare i caffè sul vassoio per andare a guardare le partite di calcio (ed erano cinghiate sulle ginocchia). Tempo che si ferma sul quaderno dove segna il nome di ogni attore di ogni film lasciato a metà e tempo per ogni bicchierino di sambuca che beve per ogni titolo il signor Pino del Ristorante Pino. Tempo che dalla quinta teatrale emerge molle, dilatato, pendente da una struttura invisibile, come a trasportarci in un’altra dimensione. Tempo soggettivo, anticonvenzionale, personale, di due minuti e cinquanta o di Trentaminuti , personaggio bellissimo, preso a prestito dalla fantasia degna di un Pirandello, potentemente simbolico, già mitico, perché si ferma a bere alla fontana o ad acquistare i fichi d’India, all’incrocio della strada. Tempo scandito dai tacchi delle signorine che passavano a piedi e facevano affacciare tutti i maschi ai balconi e alle finestre. Tempo che diventa veloce quando regala gioie, che diventa lento quando ce le toglie. Tempo che scompare, perché viaggia alla velocità teutonica, quando si ama. Tempo che scorre all’indietro su un mangianastri nella cabina per il proiezionista del vecchio cinema Ariston. Tempo delle manifestazioni studentesche contro la sede dell’MSI, quando personaggi come Capilupo infiammavano le strade di rivolte alla ricerca di diritti. Tempo dei ragazzi che si baciavano per strada, tra gli occhi curiosi dei vicini, delle performance dal vivo dei Living Theater quando era possibile guardare il mondo e che il mondo guardasse noi. Tempo che oggi ci fa sentire come se mancasse tutto e una volta non mancava niente se solo avevamo Carosello. Tempo surreale e materiale, divorato, disintegrato, che ci ricorda che siamo tutti destinati a passare tranne lui e che solo noi possiamo deciderne la velocità delle lancette, mettendoci d’accordo con il vento, facendo sì che l’anima lo attraversi sempre come un tempo bellissimo e infinito. Un tempo leggero.

Giornale di Sicilia – Simonetta Trovato – 29/01/2023

Come deve esser parso strano ai suoi concittadini, questo ragazzino svelto e leggero che ad un certo punto aveva scelto il teatro, in una cittadina come Castrovillari, una metropoli agli occhi di chi arrivava dai paesucoli abbracciati al Monte Pollino. E come deve esser parso strano ai suoi parenti, il padre severo, la mamma morbida, il fratello di poco più grande: ma Saverio La Ruina a Castrovillari c’è cresciuto e ci abita tuttora con la sua Scena Verticale. E questo suo «Via del popolo≫ – di scena anche stasera allo Spazio Franco dei Cantieri della Zisa, per il festival Scena Nostra – è un modo per prendere tutti per mano, amici di ieri e colleghi di oggi, e correre insieme verso il tempo che in scena, più dell’orologio sfatto di Dalì, pare soprattutto il quadrante di Alice nel suo mondo meraviglioso.

La Ruina è questo: racconto, personaggi, tempo. In quest’ordine: perché le scene diventano pagine e i personaggi, attori. Tutti piccini, fuori moda, con idiosincrasie, abitudini, lavori fuori tempo, sbozzati ad arte che ti pare di averli conosciuti chissà poi quando. Il dolore per la morte del padre ne esce così mitigato, quasi un abbraccio compassionevole a chi è rimasto, e continua a raccontare. Tantissimi applausi meritati.

Accreditati.it – Daniele Poto – 14/01/2023

Una strada è il riflesso del cambiamento. Gli artigiani che diventano supermercati, riferimenti precisi si trasformano in non luoghi. Un outing calabrese con valore universale.

 

Il giovane La Ruina scende dal Pollino a Castrovillari e con il pretesto di un apparente apologo ci racconta le trasformazioni di una società non solo calabrese. All’inizio sembra l’inurbamento in una metropoli, poi progressivamente tutto prende contorni familiari. I negozianti hanno un soprannome, il bar di famiglia dopo le iniziali difficoltà funziona e si ha un solo lontano sentore della ‘ndrangheta. Il raccontatore è un bravo affabulatore che non cerca facili effetti nella risata ma semmai smuove per tutti i 90’ minuti del racconto un quieto e partecipato sorriso tanto che alla fine quasi ti sembra di far parte della sua di famiglia. Scena spoglia, atta simboleggiare una via dello struscio che può essere percorsa in due o in trenta minuti e in cui pulsa il cuore di una cittadina a cui non manca niente per essere vista dagli occhi del provinciale come una piccola capitale. L’autore si abbandona a un dialetto comprensibilissimo e smuove emotività sopite. E nel racconto passano affetti familiari, bozzetti regionali, un percorso di crescita e di formazione che contiene le basi personali dell’attuale presente ma, fuori dall’individualismo, anche un pezzo di storia d’Italia con la sensibilizzazione politica, le Brigate Rosse, l’affrancamento dalla Calabria. Nostalgia, rimpianto ma anche realismo nel giudicare i limiti di una percezione. Il teatro di La Ruina è pacato, sensibile e l’idea nella sua originalità logistica funziona. Davvero in quei duecento metri di percorso si riflette vita e limiti di quella comunità. Struggente e fotografica la descrizione dei genitori riflessa da quel ragazzo-autore di cinquanta anni fa.

 

Voto: Buono

Artistandbands.org – Valeria Lupidi – 11/01/2023

La seconda parte della stagione del Teatro Basilica ha preso il via il 10 gennaio con lo spettacolo, in scena fino al 15, Via del Popolo, di e con Saverio La Ruina. La rappresentazione è una “camminata” lungo Via del Popolo, duecento metri di strada in una cittadina del sud Italia dove convergono le storie di vita non solo della famiglia del protagonista, ma di un’intera comunità calata nel suo forte senso di appartenenza. Racconti di vita scanditi dal tempo che gioca un ruolo di primo piano in tutta la vicenda. Significativo è l’orologio sullo sfondo che si scioglie come quello di Dalì rimarcando la qualità del tempo: liquido, senza confini determinati, soggetto a rapide fermate o a brusche accelerazioni nel suo costante divenire. Il tempo è il file rouge di tutto il monologo, dove si accavallano periodi, sovrimpressioni, flashback di un racconto che non conosce staticità e si rincorre in un “avanti e indietro”, in storie iniziate, interrotte, riprese e, a volte, mai concluse.

Via del Popolo narra se stessa ed i suoi personaggi che si intrecciano con la vita dell’attore. La Ruina è struggente nel suo ricordo dell’infanzia nella provincia calabrese e coinvolgente negli episodi che scorrono accavallandosi senza mai creare confusione. Tante storie che paradossalmente cominciano dalla fine, lo spettacolo infatti inizia nel cimitero del paese, quasi a voler deridere il tempo prendendosi gioco del suo trascorrere.

La Ruina si muove e danza tra le luci sul pavimento che disegnano il crocevia dove termina Via del Popolo ed inizia un nuovo percorso. Le sue rievocazioni dei personaggi che hanno animato quella strada, ma che ora sono spariti, accendono la fantasia del pubblico e quasi sembra di vedere l’elettricista con la sua cassetta degli attrezzi, il macellaio col grembiule imbrattato di sangue, il barista Pino.

La pièce è un gentile elogio alla vita lenta, ai trenta minuti che si impiegano per percorrere 200 metri e durante i quali si assaporano i legami presenti in una piccola comunità che, forse, i frenetici ritmi moderni (ed il centro commerciale al posto della bottega familiare) hanno fatto perdere.

Corrieredellospettacolo.net – Paolo Leone – 11/01/2023

Il tempo, inesorabile, non si ferma mai. Solo nell’ingenua fantasia dei bambini che, muniti di un cronometro, pensano di congelare l’attimo a proprio piacimento per scoprire subito che non è possibile, come raccontato dal testo. Via del Popolo, in scena al Teatro Basilica fino al 15 gennaio, col suo cantore Saverio La Ruina, è una passeggiata nel tempo della città di Castrovillari dagli anni 60 ad oggi, dove la strada è significativamente tratteggiata sul palco da tanti lumini, quasi a far presagire l’ineluttabile traguardo destinato ad ogni storia, al tempo di ogni storia. Tanto che il racconto, aggraziato, delicato, sul crinale della nostalgia senza mai cedervi, inizia in un cimitero. Un tempo interiore, quello di ognuno di noi e un tempo reale, tiranno, che tira avanti con o senza di noi. Con o senza un padre, figura centrale di questa personalissima pièce, la cui perdita l’autore e interprete, con emozione, ci offre mettendosi a nudo coraggiosamente, con ironia e garbo. Pietra miliare di un cammino personale che, da un piccolo centro della Calabria, diviene il cammino di tutti, ognuno con i suoi luoghi, le sue strade, i suoi affetti che il tempo trasforma ma non cancella. Via del Popolo diventa allora una strada che fa il giro del mondo e Saverio La Ruina un moderno aedo che, come un nostro fratello, ci accompagna dolcemente tra le lancette di un orologio che non si ferma mai.

 

A cosa abbiamo assistito in questa prima romana di Via del Popolo? Sembra facile dirlo, ma non lo è affatto. Il mutamento sociale, urbanistico, la scomparsa di un tessuto ordito dai rapporti personali, dove tutti si conoscevano e la globalizzazione che ha radicalmente spazzato via una socialità che ora è diversa? Si, anche questo. Ma quello che mi ha colpito è la serena presa di coscienza di tutto ciò, con cui La Ruina compone il suo affresco, la tenerezza nel racconto che non scivola mai nel “si stava meglio quando si stava peggio”. La materializzazione di qualcosa che è in ognuno di noi, di cui cogliere l’essenza e goderne. Dei piaceri come dei dolori, consapevoli che tutto continuerà anche senza la nostra presenza. Il suggerimento di non lottare contro il tempo, ma di viverlo pienamente.

Rumorscena.com – Claudio Facchinelli – 26/12/2022

Lo spazio e il tempo della memoria in Via del popolo di Saverio La Ruina

 

Tornare a visitare i luoghi della gioventù, per un adulto ormai in età, in qualche modo è sempre una visita al cimitero: le strade, le case, gli ricordano inevitabilmente persone che hanno animato quei luoghi, ma che non ci sono più. Questa una delle idee portanti sottese al testo e alla scenografia di Via del Popolo: l’ultima produzione della ormai trentennale compagnia “Scena verticale”, scritta e interpretata da Saverio La Ruina. La scena, infatti, non tenta neppure di suggerire l’urbanistica di una cittadina meridionale, ma è punteggiata, quasi ingombra di cilindri illuminati, che richiamano le lampade votive di un camposanto.

 

Ma sotto l’apparenza di un racconto personale, lo spettacolo tratta, senza averne l’aria, la percezione di due entità sulle quali i filosofi si sono interrogati per secoli, per non dire millenni: il tempo e lo spazio. Il tema del tempo è richiamato, con leggerezza e ironia, anche da un elemento scenografico: l’immagine, che si direbbe mutuata da Dalì, di un grosso orologio da taschino appeso alla graticcia, ma che sembra si stia sciogliendo, con la sua parte inferiore che si deforma allungandosi, come fosse di cera.

 

Ci sono anche i giochi che Saverio faceva da bambino, quando aveva creduto di poter fermare il tempo, semplicemente pigiando il pulsante che bloccava la lancetta del cronometro che gli avevano regalato. E poi c’è un esempio e una riflessione sulla temporizzazione dello spazio: il diverso tempo impiegato da due differenti persone a percorrere la Via del Popolo del titolo. Sia chiaro, tuttavia, che non c’è, nello spettacolo, alcuna dissertazione filosofica sulle forme a priori kantiane: il monologo si snoda secondo gli accattivanti, svagati modi affabulatori tipici di Saverio, nella varietà del suo repertorio mimico e gestuale; evoca il suo passato, recuperando con tenerezza la realtà del borgo nativo, sul versante settentrionale, lucano del Pollino, ove ha trascorso l’infanzia, e il suo inserimento a Castrovillari, la cittadina di adozione adagiata sulle pendici calabresi di quello stesso monte, rinomato per la presenza del raro pino loricato. Una distanza breve, se misurata in chilometri, ma abissale nella sua percezione soggettiva di ragazzino.

 

Sul ricordo di chi non c’è più, ma i cui fantasmi sembrano ancora percorrere Via del Popolo, sui giochi e le avventure infantili, sulle vicende passate per sempre, ma recuperabili nella memoria, Saverio intesse  una narrazione densa di citazioni scopertamente autobiografiche, dalle quali emergono figure sia rurali, sia cittadine, esemplari di una cultura patriarcale del sud d’Italia, forse superata, ma portatrice di una saggezza popolare atavica, dipinta con affetto, senza mai cadere in stereotipi veristi, sull’onda dei suoi altri monologhi meridionalisti, altrettanto efficaci, come Dissonorata e La borto.

 

Materialmente solo sul palco, Saverio riesce a far percepire intorno a sé la presenza delle persone care, le figure e le ambientazioni del suo paese, dando loro vita, calore e colore: segno – vorrei dire – di una sensibilità umana che connota e caratterizza anche la modalità dei suoi rapporti sociali e personali.

Visto al teatro Menotti di Milano il 7 dicembre 2022.

Bebeez.it – Mario Cervio Gualersi – 10/12/2022

Due debutti in prima nazionale nelle sale milanesi: dai ricordi nostalgici di Saverio La Ruina in Via del Popolo alla riscrittura di Hedda Gabler a cura di Liv Ferracchiati: un nuovo testo che ci parla a cuore aperto di un recente passato e un celebre dramma che è emblema dell’ottocento.

 

Sin dai primi anni del nuovo secolo si è imposto all’attenzione di critici e pubblico come uno dei più brillanti esponenti del teatro di narrazione: Saverio La Ruina, orgogliosamente calabrese, ha suscitato empatiche emozioni con lo splendido ritratto femminile di Dissonorata che ha, come sempre, scritto, diretto e interpretato calandosi nei panni, anche concretamente ma senza alcun vezzo dell’attore en travesti, di Pascalina, donna del nostro sud negli anni settanta che, non più giovanissima, desidera convolare a nozze e, convinta dalla promessa di matrimonio fattale dal partner, infrange il tabù del sesso prima dell’unione in chiesa, ma rimane incinta e viene da questi subito ripudiata: per la famiglia un’onta insopportabile da punire con la morte e la decisione di bruciarla viva. Questa tematica viene approfondita nel successivo La Borto, storia raccontata da Vittoria in prima persona che è specchio di un’amarissima realtà su quanto una donna del meridione, ma non solo, possa essere condizionata dal potere maschile che domina ancora una società di stampo patriarcale anche nella scelta o nel rifiuto della maternità, mettendo spesso a repentaglio la propria vita. Non solo di violenza di genere di natura fisica si occupa l’autore ma anche di quella psicologica: in Polvere mette in luce i sottili ma terribili – senza arrivare al femminicidio – meccanismi di sopraffazione operati dal maschio nei confronti della compagna: qui per una volta La Ruina non è più solo in scena ma ha accanto Jo Lattari prima e Cecilia Foti poi. Un’altra piaga sociale sulla quale non ha fatto mancare il suo contributo è quella dell’omofobia: ecco che con Masculo e fiammina ci conduce per mano nella toccante vicenda di Peppino, chino sulla tomba della madre per confessarle quanto non aveva osato fare prima e cioè la sua omosessualità, scoperta sin da ragazzo e, nel corso degli anni, ostracizzata dalla chiesa e, ahimè, anche dalla stessa sinistra che ha impiegato troppo a lungo nel fare ammenda e mettersi al passo con i tempi. Ci racconta del suo primo amore, quello con Angelo, finito con la decisione, purtroppo ancora comune a molti, di quest’ultimo di sposarsi per non rischiare di finire nello stigma dell’emarginazione sociale. Ben più drammatica è la storia con Alfredo, conosciuto e amato in vacanza a Riccione: appartatisi in macchina, i due vengono selvaggiamente aggrediti a bastonate e il giovane ci rimette la vita. A Peppino, terrorizzato, non resta che abbandonare sul posto il corpo dell’amico e tornarsene al paese in Calabria; quando troverà il coraggio di cercare a Treviso la famiglia di Alfredo, il suo racconto dei fatti verrà accolto con fastidio e volontà di rimozione.

 

L’indagine di La Ruina è proseguita con lo sguardo sulla storia del primo dopoguerra ed è nato Italianesi che racconta le vicende dei soldati e civili italiani internati nei campi di lavoro in Albania dove rimasero di fatto prigionieri per oltre 40 anni. Tonino, figlio di un milite italiano poi rimpatriato, cresce con la madre single nel campo e sposa Selma, la nipote dei custodi. Caduto il regime comunista, decide di tornare in Italia per conoscere finalmente il padre che lo accoglie con suprema freddezza e indifferenza. Lo stesso trattamento gli riservano i compaesani, considerandolo con disprezzo un “albanese” dopo che era stato per tutta la vita vilipeso ed emarginato in quanto “italiano”. L’emigrazione e il conflitto tra diverse culture e religioni ai nostri tempi è al centro del controverso e travagliato Mario e Saleh del 2019, diventato due anni dopo Saverio e Chadli vs Mario e Saleh, dove un occidentale cristiano (Saverio) si confronta con un arabo musulmano, esponente dell’Islam di seconda generazione (l’attore palermitano di origini magrebine Chadli Aloui a cui è poi subentrato Alex Cendron), nel corso di una sofferta convivenza in una tenda dove sono stati costretti a riparare in conseguenza di un terremoto. Abbiamo parlato di questi lavori, tutti prodotti da Scena Verticale, la compagnia fondata nel 1992 da La Ruina e Dario De Luca, a cui si è aggiunta la preziosa organizzazione di Settimio Pisano, perché giustamente circuitano ancora nei teatri di tutta Italia, gratificati da innumerevoli premi, tradotti e rappresentati anche all’estero. Questa triade ha avuto anche il merito e il coraggio, in una regione difficile come la Calabria, di far nascere nel 1999 il Festival Primavera dei Teatri con sede a Castrovillari, diventato in pochi anni una vetrina e trampolino delle più interessanti novità del Nuovo Teatro. Proprio nella piccola città in provincia di Cosenza, al centro del parco nazionale del Pollino, è ambientata l’ultima creazione del drammaturgo/regista/attore, Via del Popolo, il luogo dove lui è cresciuto dopo che, quando aveva sei anni, la famiglia ha lasciato la campagna per trasferirvisi, aprendo il bar Rio. “Con mio fratello ero il più giovane camerierino d’Italia – racconta La Ruina – e la via era abitata da una serie di negozi: un ristorante, tre alimentari, due sartorie, una macelleria, una calzoleria, una merceria e il cinema Ariston. Per percorrere i 200 metri di via del Popolo allora ci volevano 30 minuti, oggi ne bastano 2: quel mondo non esiste più, annientato dal passaggio dalla micro alla macroeconomia, uno dei tanti effetti della globalizzazione. Ai negozi sono subentrati i centri commerciali e la fine della vendita al dettaglio ha portato via posti di lavoro, distruggendo un modello sociale ancora basato sulle relazioni interpersonali. Via del Popolo è la narrazione dell’appartenenza a un luogo, a una famiglia, a una comunità.”

 

A quella comunità è dedicata la pièce che all’inizio vede in scena, irradiata da un serie di lumi bianchi e una enorme riproduzione di uno degli orologi sciolti di Salvador Dalì, l’autore durante una visita al cimitero, accompagnato dal compaesano soprannominato 30 minuti. In una sorta di nostalgica ma anche esilarante Spoon River, datata tra dagli anni sessanta e gli ottanta, si commentano, ora severamente, ora benevolmente, i ritratti sulle lapidi che risvegliano prima i ricordi dell’infanzia, come la conquista delle agognate pastarelle da parte da alcuni bambini che s’imbucano nelle feste di nozze. Menzionando i titolari dei negozi, si susseguono i loro sapidi ritratti: c’è l’elettricista Giannino che, solo con il suo tocco magico e senza bisogno di alcun attrezzo, riesce a riparare il televisore guasto, salvando così la visione della puntata di Rischiatutto, Tonino il macellaio, sulla porta con il sigaro e il grembiule sporco di sangue, Pino dell’omonimo ristorante, Mastu Giovannu, il sarto, poi Simone, bigliettaio del cinema, e il dottor Schwarz, ebreo ungherese salvatosi dalla deportazione, vero ed empatico taumaturgo. Rimangono impressi nella memoria le figure del padre di Saverio, Vincenzo, fiero e severo nel suo ruolo di genitore e gestore del bar, quella della mamma Filomena, con la sua fede cieca nelle fleboclisi, e dello zio Nicola, finito in manicomio. Sono tutte legate da un impalpabile velo di poesia che riesce a veicolare sensazioni e sentimenti che rimandano a una sensibilità non comune, come nel ricordo del protagonista ragazzino quando, in visita allo zio all’ospedale psichiatrico con i genitori che chiedono udienza al direttore, teme di venir lui stesso considerato malato e quindi rinchiuso.

Abbiamo ritrovato Saverio La Ruina nella sua vena più felice, alle prese con il materiale umano che gli è più congeniale e che sa affabulare con maestria. Con la collaborazione alla regia di Cecilia Foti e il disegno luci di Dario De Luca, Via del Popolo rimane in scena al teatro Menotti di Milanosino all’11 dicembre. Poi in tournée al Tremestieri di Messina (20/12), Goldoni di Firenze (22/12), Vittoria di Castrovillari (27/12), Basilica di Roma (dal 12 al 15 gennaio) e al teatro Dell’Albero di San Lorenzo al Mare (IM) il 29 aprile.

2duerighe.com – Raffaella Roversi – 07/12/2022

Via Del Popolo, la presenza di un altro tempo all’interno del nostro tempo

 

È un viaggio per immagini quello che Saverio La Ruina ci fa fare al Teatro Menotti di Milano con il suo nuovo spettacolo Via del Popolo, strada principale di Castrovillari, agli inizi degli anni ’60.

Un monologo pacato, intimo, privo di spettacolarizzazione, da vedere dal 6 all’11 dicembre 2022.

Percorrendo lentamente questa strada con l’attore, non attraversiamo solo il suo paese natale e il microcosmo che vi ruota, ma archi temporali diversi. Sullo sfondo, il tempo che scorre e un’Italia che cambia.

Da contadino, il nostro paese diventa infatti nel dopoguerra cittadino, per poi scuotersi di dosso la mentalità borghese e cattolica durante il grande vento di liberazione del maggio ’68. Si lascia poi attraversare dall’ottimismo rivoluzionario degli anni ’70 convinto di poter creare un mondo migliore, per poi capitolare dopo l’uccisione di Aldo Moro.

Intanto guarda al mondo, alla guerra in Vietnam, alla Guerra fredda, a Cuba. Ed il mondo sembra guardare a Castrovillari o meglio alla vicina Potenza dove nel 1976 il Living Theatre sbarca con il suo rivoluzionario e non capito “The Love Play”, inno all’amore libero e alla contestazione ai poteri.

La scena è disseminata di lanterne bianche che regalano una luce calda, intima, come il racconto di La Ruina. Lo comincia per la verità al cimitero, ma non c’è niente di triste nella rievocazione dei personaggi della sua infanzia.

 

Via Del Popolo: il palco, proprio come le pagine di un libro pop up dove i segni di piegatura della carta fanno apparire movimento e tridimensionalità, sembra popolarsi di personaggi curiosi e delle loro botteghe.

C’è il bar Rio, di proprietà del padre e dello zio dell’attore, acquistato firmando tante cambiali. Avevano entrambi lasciato le montagne vicine per arrivare là ed offrire un futuro migliore ai figli, cominciando cosi il loro cammino in salita per diventare da montanari a cittadini.

Poco più avanti incontriamo il venditore di fichi d’india, sugosi e già spellati, il cinema con il proiezionista che taglia le pizze dei film, Giannino l’elettricista capace di “auscultare” gli elettrodomestici.

Proseguendo sulla strada c’è la merceria, con la merciaia vedova di cui il sarto zoppo è segretamente innamorato, il fioraio, il negozio di alimentari che sparge il profumo della sua mortadella sino alla falegnameria poco distante.

Si ode perfino il ticchettio dei tacchi delle bellissime ed elegantissime sorelle Giannetto, capaci perfino di far distogliere gli occhi del prete dal suo rosario. Una piccola comunità che vive compatta, in una sorta di mutuo soccorso, visto che lo stato, da sempre, è assente.

Dove l’esempio dei padri, la loro integrità, la loro secolare pazienza che li porta ad accettare la vita, sono rimasti ancora ad illuminare il cammino dei figli, come le luci di quelle lanterne sul palco.

Anche adesso che i 200 metri di Via Del Popolo si percorrono in appena una manciata di minuti perché si è trasformata, con botteghe chiuse come occhi cechi o rimpiazzate da anonimi centri commerciali, fast food o garage, il ricordo dei padri non si è spento.