Dopo il raffinatissimo Re Pipuzzu fatto a manu, Dario De Luca prosegue lo scandaglio di antiche fiabe con un altro felice esito. I 4 desideri di Santu Martinu, di nuovo in sinergia con le sonorizzazioni di Gianfranco De Franco. In dialetto calabrese, De Luca confezione una ricercata partitura, terrina e voluttuosa, riconsegnando alla donna il ruolo attivo nel ménage con il suo uomo.
Ospitato per soli due giorni al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, I quattro desideri di Santu Martinu. Favolazzo osceno adatto a essere recitato dopo i pasti è uno spettacolo di altissimo livello performativo, perfetto nella sua orchestrazione scenica. Uno spettacolo colto e popolare, dal carattere giocoso e irriverente, che diverte e fa riflettere il pubblico.
Dario De Luca, oltre a interpretare il cantore di questo magico cuntu , ne cura anche la regia, lo spazio scenico e il disegno luci. Ha ricavato il testo da alcuni fabliaux medievali e lo ha tradotto in calabrese, continuando la sua ricerca sulla tradizione orale della sua terra. E’ una storia licenziosa ma mai triviale, che gioca sul paradosso e sulla bizzarra commistione di sacro e profano.
La scena è essenziale, un semplice cerchio bianco adagiato sul palco e, a destra, il set di musica elettronica di Gianfranco De Franco, autore delle musiche e delle sonorizzazioni che dialogano con il melodioso racconto in rima.
Dario De Luca sale in scena dalla platea con indosso un abito da viandante che verrà arricchito da un’aureola con dei buchi dove infila lucine quando fa il Santo. Chiede subito agli spettatori di colmare le lacune della scena con la loro immaginazione, proprio come fa il Prologo dell’EnricoV di Shakespeare. La scena diviene uno spazio della mente, fuori dal tempo, dove si inscena una forma di teatro puro.
Non smette di sorprendere la naturalezza con la quale De Luca entra nei personaggi dei quali va narrando la storia, per poi riuscirne dopo pochi minuti. Cambia voce e gestualità all’istante e quando racconta, la sua mobilità facciale commenta le stranezze e gli eccessi dei protagonisti del racconto.
Sono un povero pastore che si assenta da casa un paio di settimane per vendere il suo bestiame e la sua consorte che arde dal desiderio di rivederlo. Al suo arrivo prepara una cena luculliana pensando al dopo nel caldo del letto. Ma il pastore beve e mangia troppo e, a fine pasto, si addormenta come un sasso. Lei cerca di svegliarlo in tutti i modi, ma, alla fine, cade anche lei nelle braccia di Morfeo. E sogna di un venditore di membri maschili di ogni lunghezza e consistenza. Un sogno a dir poco inconsueto e delirante dove la contrattazione di lei per acquistare il pezzo prescelto risulta veramente divertente. Al risveglio la moglie furibonda se la prende con il marito che evoca Santu Martinu, al quale è molto devoto.
Il Santo appare e fa dono alla coppia di quattro sogni prontamente realizzati. Poveri come sono, avrebbero potuto chiedere ricchezza e ori. Nulla di tutto ciò. In un crescendo di malizia e di allusioni sessuali, lei chiede che il corpo del marito venga interamente coperto di falli e lui che il corpo della moglie venga cosparso di vagine. A ritmo molto serrato, le immagini erotiche vengono reiterate attraverso un uso smodato di sinonimi. Qui come altrove, l’oscenità non è mai offensiva o fine a se stessa. Fa parte di un filo narrativo dove il basso e l’alto si mescolano, grazie al ritmo fortemente poetico del testo.
Spaventati dagli effetti delle loro richieste indecenti, i coniugi sprecano gli altri due desideri per tornare alla normalità, arrivando a dire che chi troppo vuole, nulla stringe.
Attore di grande talento, De Luca riesce a maneggiare registri diversi, a modulare la voce a suo piacimento e ad arricchire i suoi personaggi di mille sfaccettature. Lo fa con leggerezza e con estrema simpatia. La favola, comica e grottesca al contempo, coinvolge anche per la forza comunicativa ed espressiva del dialetto e per gli interventi musicali di Gianfranco De Franco, che si fanno più intensi nei raccordi essenziali di questa storia dal sapore un po’ antico e un po’ moderno.
Tanti applausi, davvero tanti e meritatissimi.
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo il 30 novembre 2024.
I 4 DESIDERI DI SANTU MARTINU: SCENA VERTICALE PROSEGUE IL CAMMINO NELLA FIABA CALABRESE
A PRIMAVERA DEI TEATRI LE RISATE LIBERATORIE DI DARIO DE LUCA E GIANFRANCO DE FRANCO
Un cantastorie con il suo musico che sembrano arrivare dal Medioevo o dal futuro, ed una vicenda popolarissima, oscena e grottesca, che mescola registri suscitando risate e riflessioni.
Con “I 4 desideri di Santu Martinu – Favolazzo osceno adatto ad essere recitato dopo i pasti”, in scena nel ricco programma della XXIV edizione del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, Dario De Luca, della compagnia padrone di casa Scena Verticale, prosegue nel solco già tracciato con il bel “Re Pipuzzu fattu a manu”, apprezzato la scorsa edizione del festival, dando corpo al secondo movimento di una personale rielaborazione della fiaba calabrese.
Autore della riscrittura e interprete sulla scena, De Luca gioca agilmente con le parole della tradizione a partire, questa volta, da alcuni fabliaux anonimi medievali, che, al pari delle novelle boccaccesche, raccontano uno spaccato delle vicende degli uomini e delle donne del tempo, spesso dai contorni piccanti, lasciando intuire, oggi come allora, quanto simili fossero gli interessi che li animavano.
Ne viene fuori un testo dalla lingua musicale e ricercata che perfettamente si mescola ai suoni contemporanei eseguiti dal vivo da Gianfranco De Franco, autore delle musiche e delle sonorizzazioni, che dialogano con le vicende narrate a parole contribuendo a creare delle atmosfere ora più graffianti ora più raccolte.
“I 4 desideri di Santu Martinu” parte da uno spunto – quello dei desideri concessi per volontà soprannaturale e sprecati per stupidità o cattiveria umana – presente in tutte le letterature, e lo porta in scena attraverso la scanzonata vicenda di un pecoraio e dell’esigente moglie.
Il marito torna a casa dopo un lungo viaggio di lavoro e la moglie, per farlo contento, gli prepara ogni ben di Dio, sperando poi di trascorrere una serata focosa, ma l’uomo, dopo aver saziato lo stomaco, cade addormentato lasciando insoddisfatta la donna, a cui resta solo il sogno per soddisfare i propri desideri. Propizio quindi l’incontro con Santu Martinu, che concederà alla coppia di veder realizzati ben quattro desideri. Terre, ricchezze, ori? Nulla di tutto ciò: in un crescendo di malizia, risate e allusioni sessuali, la donna chiede che il corpo dell’uomo si cosparga di falli trasformandolo in uno scherzo della natura; l’uomo, invece, che il corpo della moglie si cosparga di vagine in un crescendo di immagini colorite e organi sessuali sciorinati con ironia e malizia attraverso un florilegio di sinonimi.
Terrorizzati per gli effetti delle loro dannose e indecenti richieste non possono fare altro che utilizzare gli altri desideri per sistemare le cose, arrivando alla conclusione che chi troppo vuole, nulla stringe.
Una favola salace e iperbolica che De Luca, in modo preciso e incalzante, inscrive in una scena essenziale nella sua circolarità, come il destino degli ingenui e lascivi protagonisti. Pochi e funzionali gli oggetti di scena, abiti da viandante per De Luca, un’aureola per dare corpo al Santo, illuminata sul finire da alcune candele, come segno di devozione.
Narratore raffinato, divertente e divertito, sempre capace di maneggiare registri differenti, di modulare la voce e colorare di mille sfumature i suoi personaggi, senza mai tracimare in una volgarità fine a sé stessa ma mantenendo sempre l’equilibrio dove l’oscena diventa parte di un fine gioco narrativo, De Luca dona alla storia leggerezza, ritmo per una favola eccentrica dal sapore insieme antico e moderno.
Un racconto dalla veste insieme popolare e colta, che alterna alto e basso, comico e grottesco, fra tabu e grossolane e liberatorie risate. Un mix che seduce. Godibile arriva il messaggio della narrazione che esce arricchita anche dalla potenza linguistica del dialetto, veicolo della parola e suono universale grazie all’abilità affabulatoria del cantastorie sulla scena e alla potenza della musica, che si fa incisiva nei raccordi essenziali della vicenda, per vestire di umanità il voluttuoso e osceno desiderare della coppia.
Dopo Re Pipuzzu fattu a manu, tratto dai racconti della tradizione calabrese, Dario De Luca e Saverio La Ruina, anima artistica di ScenaVerticale, si avventurano verso altri lidi, narrando un favoloso osceno, di sapida e divertente godibilità, dedicato niente meno che a un santo. I 4 desideri di Santu Martinu è infatti una narrazione con musica in dialetto calabrese, liberamente tratto da due fabliaux anonimi medievali, che l’artista calabrese ha ricongiunto.
E non facciamoci ingannare dalla presenza di un santo, perché una spiccata licenziosità di sapore boccaccesco pervade tutto il racconto.
Protagonista della storia è una coppia,«U picuraru» caro e «a pacchiana da mugliera» (il pecoraro e la contadina della moglie) sempre dediti al lavoro che, in cerca di nuove possibilità, chiedono a Santu Martinu quattro desideri che egli volentieri concede, con qualche avvertenza che verrà ovviamente disattesa dei due sciagurati, i quali così sprecheranno i desideri per insipienza e smania eccessiva di possesso.
Questi motivi di drammatizzare il racconto, tra l’altro, sono spesso presenti in tutte le tradizioni di ambito fiabesco da La fontaine a Perraul ai fratelli Grimm, immaginario che anche qui colora gli avvenimenti, donandogli ulteriore spessore.
Nel favoloso osceno in questione, tuttavia, ogni avvenimento, in modo divertente e divertito, è spinto dal narratore senza ombra di volgarità, con tutte le sue relative allusioni, parossisticamente all’eccesso, per celebrare in forma fantastica la potenza dell’eros che, alla fine, viene esaltato come sentimento sincero e duraturo, contro ogni smodata voglia concupiscente.
Dario De Luca, con accanto il fidato Gianfranco De Franco ad accompagnarlo musicalmente, in modo acconciatamente variegato, ci regala, vestito con una specie di saio, con tanto di aureola fiammeggiante, un nuovo omaggio alla sua Calabria, restituendocene in modo inusuale il più intimo sentore.
Il fantastico favolazzo osceno di Dario De Luca
Dario De Luca, se ne parlava già un anno fa, ha un’immensa capacità affabulatoria. Lo dimostra il suo percorso artistico ormai lungo e importante non soltanto cronologicamente. Il fatto quindi che si periti in paradigmatiche storie della tradizione non può stupire. Anzi stupisce per l’effetto che fanno dette da lui in scena. Re Pipuzzu fattu a manu, l’anno scorso, ha entusiasmato anche i critici più impassibili, esilarante quanto agrodolce e fantastica storia d’amore. Questa volta, a Primavera dei Teatri 2024, uno degli appuntamenti irrinunciabili del teatro italiano, De Luca rilancia, per un pubblico di soli adulti (ma non è nemmeno così vero, se si pensa alle informazioni che arrivano in rete agli adolescenti e ai più piccoli) con I quattro desideri di Santu Martinu, «favolazzo osceno adatto ad essere recitato dopo i pasti». La lingua è il calabrese, costruito dall’autore a partire dai fabliaux anonimi medievali Les quatre sohais saint Martin e Le sohait des vez. Ci viene spiegato proprio da lui che «la lingua utilizzata è un calabrese inventato per la scena: un pastiche suggestivo che, come un organismo vivente in continua evoluzione e cambiamento, risente delle decine di influenze dialettali che ho ricevuto nel mio percorso artistico da poeti e autori calabresi del passato e coevi; con echi che vanno dalle lingue della pre-Sila a quelle delle Serre cosentine, fino a sonorità provenienti dai borghi calabro-lucani del Pollino».
Si potrebbe pensare a un gap insormontabile, per i non autoctoni, nella comprensione del testo. Invece no, assolutamente no. Complice il geniale lavoro musicale di Gianfranco De Franco, che come al solito diventa coprotagonista dello spettacolo, si capisce tutto. Grazie alle allitterazioni, agli ammiccamenti, agli accumuli, alle pause drammatiche e soprattutto al senso complessivo del racconto.
Ma cosa raccontano, appunto, questi Quattro desideri? Le peripezie di un piecuraru estremamente devoto a San Martino, tanto da rivolgersi a lui in ogni momento del giorno, per ringraziarlo o per chiedergli una grazia. Ma – attenzione – c’è anche la moglie, la mugliera, fedele e giovane e per così dire ‘ansiosa’ del proprio compagno. Insomma, a un certo punto il santo si palesa in visione e, grato per l’attenzione e l’amore a lui dimostrato dice:
Picuraru […] vedo ca tieni na devuziuna granne e tutti i vote ca cumunci nu lavuru, qualechessia, ti ricuardi i mia. Bravo. Pi su motivo ti meriti na ricompensa. Lassa perda u lavuru e ri bestie e statti cuntientu. Ti esaudirò quattro desideri. T’a pu scordà a fatica, esprimi si quattru gulìe e ti giuru, quant’è vero ca sugnu Santu, che avrai tuttu chiru ca ti pare e piace. Però statti accuartu! Accuartu a chiru ca chiedi, ca n’atra occasiuna un t’ha dugnu mica!
Si aprono prospettive di riscatto inenarrabili e inimmaginabili. Quattro desideri! Vuol dire chiuderla lì con la vita da fame, diventare signori. E, tutto contento, di quanto accaduto mette a parte la moglie (che nel frattempo aveva mal sopportato i giorni di assenza dello sposo, e le poche attenzioni riservatele al ritorno):
Ohi mugliera mia, nun mi caniare – rispuse u picuraru stujannusi u mussu cu ra cammisa – ca un mu mìeritu. Ca oji simu diventati signuri. Basta a fatigà cumu i bestie. Ca Santu Martinu nuastru me apparutu nnanti in carne, ossa e santità e m’ha dunatu, cumu regalu pi ra devuziuna ca ci tìegnu, pi ru santu rispìettu ca ci puàrtu, quattru desideri. Chiru ca vùagliu. Ancora nun hei cuminciatu a desiderà, sugnu venutu subitu a dde tia, pi chieda a tia… dìciami tu: ma iu chi vùagliu, chi desidero? Terre, ricchizze, oro, argento…
La moglie però vuole partecipare, giustamente, alla scelta dei desideri. E, nel momento forse più straordinario ed esilarante dello spettacolo, incomincia a intonare una lamentazione infinita e largamente iterata, tipica del Sud Italia agricolo di un tempo ma anche di molte altre zone del mondo, a iniziare dal nostro martoriato Mediterraneo:
Ohi chi mala annumminata, ohi chi mala annumminata… Ohi chi destinu amaru, ohi chi destinu amuru…
Alla fine lui desiste e le concede di scegliere una delle quattro grazie concesse dal santo. Apriti cielo! Nasce un florilegio di cazzi e fighe, peni e vagine, membri e fessure (non è possibile dirlo altrimenti) che vanno a ricoprire i corpi dei due sventurati.
Questo è quello che accade a lui:
A chire parole aru picuraru cuminciarunu a spuntà… i tutt’i parti. Paria di sta dintra a na pineta doppu na bella scarricata i pioggia a settembre: escìanu cumu i fungi. Unu gruassu li spuntò supra a frunta, cumu n’unicornu, dua l’escirunu d’a vucca aru postu di canini: dua sciabole i trichecu ca l’arrivavanu aru piettu; ancora ari lati d’i ricchie, dua gruassi cumu corna, ca doppu ca seranu formati, cuminciarunu a si ramificà cu tanti minchiarili chiù picciriddri a formare una selva di ciolla oscura. […] E pu, sentiti chissa, supra a tutt’i vrazza na spasa i cazzi, parìanu spine, e ancora supr’ i spaddre… chjinu chjinu… cumu nu puarcu spinu. […] A verità, era proprio nu desideriu curi cazzi!
E questo è quanto specularmente avviene a lei, a forza di desideri espressi da parte del marito offeso:
Unn’avia finisciutu i parrare ca subito ara mugliera li si rapanu fessure dappertutto. Quattru supra all’uocchi, una di fiancu a l’avutra, ca forse, si tenìi u curaggiu e ci nzaccavi i jirita, forse, avissi potuto capiscia, finalmente, u mistero ca ci tenanu ntra capu i fimmini. C’eranu sticchi dappertuttu e di tutt’ i qualità: sticchi diritti e sticchi stuarti, sticchi pilusi e sticchi rasuliati; fissiceddre vergini e fissazze usate; ci nneranu di larghe e ci neranu di stritte, chire ben fatte e chire spatte, chire frische, chjine e profumate e chire arrappate, spinnate e zinzuliate. Chire vrigugnuse e chire suberbiuse, a mudesta e a muriculusa; chire ca ti chiamanu cu ra vucca aperta e chire ca ti tenanu u mussu.
Un disastro, davvero! Per fortuna, con l’ultimo desiderio, e dopo altre paradossali e divertentissime avventure, tutto ritorna come prima. E qui si incontra il punto determinante dell’intera storia, in cui fiaba e favola (che non sono la stessa cosa) si intrecciano. La gnome, ovvero la sentenza che cade sui due protagonisti, è amara: non è possibile mutare il proprio destino. Meglio cercare di goderselo. Un giudizio perentorio e assoluto, che in realtà speriamo sempre di poter cambiare.
Ma così va questa storia. Dario De Luca è un interprete straordinario, con le lucine intorno al viso per impersonare il santo, e sa bene di cosa parla. In attesa di vedere il terzo atto di questa strepitosa trilogia si rimane incantati da questa sua bravura.
I QUATTRO DESIDERI DI SANTU MARTINU E NOI
Dario De Luca è un artista generoso nel suo darsi al pubblico e i suoi lavori sanno essere luminosi per grazia e sagace intelligenza. Per il suo ultimo spettacolo ha scelto ingredienti veramente inconsueti nel panorama della ricerca teatrale: una vitalissima storia, che sembra venir su direttamente dal medioevo e che è fatta di duro lavoro, sesso coniugale, desiderio incontrollato, santità soccorrevole e beffarda, comicità vera, semplice e sanguigna, popolare e tenerissima a suo modo. Raccontiamo de “I quattro desideri di Santu Martinu. Favolazzo osceno adatto a essere recitato dopo i pasti”, che si è visto il 31 maggio a Castrovillari (Teatro Capannone), nel contesto di Primavera dei Teatri ’24. In scena lo stesso De Luca che, nei panni di un narratore tradizionale, è capace di attraversare la sostanza teatrale dei personaggi della storia (entrare in essi, uscirne, starne a debita distanza con un sorriso complice e divertito rivolto al pubblico): un viandante, un cantastorie, un povero pastore e sua moglie, lo stesso santo Martino tirato in ballo con molto fervore e assai poca prudenza. E siccome si tratta di una storia comica che gioca ribaltando il paradigma rassicurante della sessualità coniugale e che De Luca dice di aver tratto, sintetizzandola e traducendola nel dialetto di Castrovillari, da alcuni fableaux medievali, ovviamente non riveleremo il finale. In scena c’è anche Gianfranco De Franco (anche lui antico sodale di Scena Verticale) che maneggia un set di musica elettronica da cui proviene un sofisticato mix di musiche techno, di rumori ancestrali e di suoni pastorali. Una presenza scenica, quella della musica e del musicista, che sembra voler porre la vicenda in una dimensione atemporale che esula dall’apparente medioevo. E questo certo è un indizio per la fruizione e per la comprensione critica. Potrebbero dirsi molte altre cose e forse sarebbero sostanzialmente appropriate: dal ribaltamento (persino parossistico) del basso corporale, di bachtiniana memoria, alla dimensione ludica del sesso anche (e soprattutto) in contesto coniugale, dalla dimensione catartica della comicità teatrale e della risata alla forte dimensione dialettale. Una dimensione antropologica quest’ultima, che rispecchia una costante ancora viva nel nostro essere italiani e ci connette con un passato contadino e pastorale che può essere una ricchezza, se non si insterilisce in una pulsione culturale anti-moderna e reazionaria. Tanta roba insomma, tante sollecitazioni intellettuali e con esse si può – si potrebbe – chiudere quest’articolo (con un numero decente e sufficiente di battute), senza dire però, oppure peggio senza provare a dire, la cosa essenziale: ovvero quanto, come e perché questo spettacolo parla all’uomo di oggi dell’uomo di oggi. In altre parole, come e perché questo lavoro teatrale è incastonato nella contemporaneità e si nutre di essa. Se si si tentasse una risposta complessa forse si tradirebbe l’assunto: si è detto infatti che De Luca è un artista generoso nel suo darsi, fisico, al pubblico. Allora ecco che la risposta deve esser semplice senza diventare banale. Questo spettacolo, questo tipo di spettacoli, appare necessario perché ci spinge, in chiave comica, a riflettere sul paradigma del corpo che, se tradito, distorto e abusato nella sua umanissima fragilità, si ribella – magari con effetti tragicomici – fino a riportarci a una consapevolezza realistica del nostro essere. Non è del medioevo che si sta parlando, né di quello reale e storico, né di quello immaginario, si parla di noi, della nostra realtà, della nostra contemporaneità.
Il pubblico è trasportato da I 4 desideri di Santu Martinu, una favola con le sonorità del dialetto che ha del boccaccesco fabliaux medievale e del fabulazzo osceno alla Dario Fo. Dario De Luca, uno dei padroni di casa di Scena Verticale, con le musiche di Gianfranco De Franco, davvero un’altra voce, un altro narratore, ci porta nella casa di un capraio, nei desideri suoi e della moglie, nelle pulsioni sessuali, rapendoci come solo i grandi racconti sanno fare.
Il 31 maggio, invece, Dario De Luca travolge gli spettatori con una vertigine linguistica: I 4 desideri di Santu Martinu – Favolazzo osceno adatto per essere recitato dopo i pasti. L’autore utilizza una fiaba dalla struttura drammaturgica classica, quella del genio della lampada che regala desideri i quali, poi vengono dissipati, a causa di inezie e dispetti, per calarla nella relazione tra un pecoraio calabrese e sua moglie. Con una originalissima cifra stilistica, il lavoro, scritto, diretto e interpretato da De Luca, esprime una conoscenza strabiliante quanto esilarante del dialetto calabrese, frutto di una mirabile e decennale ricerca linguistica. Una favola, si, ma “culicaxx” in cui la sua potenza attoriale ed espressiva è riuscita a raggiungere anche quanti, in un pubblico misto di locals, stranieri e settentrionali, potevano capire poco del vernacolo locale.
Al Capannone incontriamo Dario De luca e Gianfranco De Franco con I 4 desideri di Santu Martinu, riscrittura in dialetto calabrese liberamente tratta da fabliaux anonimi medievali. In uno spazio circolare luminescente i due, un cantastorie e un musico sospesi in un tempo indefinito che si colloca a metà tra l’antico e il futuristico, raccontano il loro favolazzo osceno. La vicenda, dagli irriverenti tratti boccacceschi, narra di una umile coppia devota a San Martino la quale, nell’incosciente entusiasmo di esprimere i quattro desideri concessi dal Santo, spreca l’occasione di trarne davvero vantaggio a colpi di scaramucce reciproche per ritrovarsi, esauriti i desideri, allo stato iniziale, priva delle ricchezze sperate ma consapevole infine, di possedere tutto ciò di cui ha bisogno.
De Luca, al centro della scena, tesse le fila della storia con presenza istrionica nel suo abito da pastore corredato da un cappello contornato di lampadine (curatussimo il costume di Mariella Carbone), mentre De Franco, dalla sua moderna postazione con mixer, flauto traverso e sax, accompagna la narrazione con musiche originali che rievocano melodie medievali restituite però con sonorizzazioni elettroacustiche.
La favola è oscena, non c’è dubbio, ma Dario De Luca non scade mai nella molesta volgarità, conserva sempre il giusto ritmo e la misura dei toni e della gestualità che pure asseconda anche i momenti più spinti dell’intreccio. Un esempio godibilissimo di destrezza narrativa e di virtuosismo mai fine a se stesso.
Dario De Luca eccellente trovatore con “I 4 desideri di Santu Martinu”
In calabrese, pieno di ritmo, in scena per le musiche Gianfranco De Franco
Grande divertimento, colto e popolare, questo “favolazzo osceno” a Castrovillari
“Favolazzo osceno adatto a essere recitato dopo i pasti” è il sottotitolo dello spettacolo “I 4 desideri di Santu Martinu”,
quasi a evocare il Dario Fo delle ricerche popolari, un po’ vere e un po’ finte: a Castrovillari per Primavera dei Teatri, con
l’eccellente Dario De Luca - che firma testo, spazio scenico, disegno luci e regia - si vive dentro una felice immersione
favolistica, densa di ritmo, con tracce del cuntu, mentre si narra, come in tanta tradizione, di desideri mal sfruttati, dove
alla fine non si può che essere lieti del ritorno alla situazione iniziale, non importa - o forse sì - se, come sempre, in
povertà.
Spettacolo colto - per i costumi, l’aureola di candele e lucine, la scrittura in versi/ recitazione ritmica, la musica di
Gianfranco Di Franco in scena - i “quattro desideri” conservano nello stesso tempo un denso, giocoso, carattere
popolare, con il gusto divertito del linguaggio scurrile, impudico, da parte di lei prima ancora che di lui, protagonisti due
sposi. Del resto il volume di Alessandro Barbero, che contiene questa narrazione, s’intitola proprio “La voglia dei cazzi e
altri fabliaux medievali” (edizione Effedì, 2020). “Ohi genti di chista cuntrada,/ si chista gran vici sintiti,/scappati, fujiti,
viniti/ scappati, fujiti, viniti...”: lo spazio circolare dentro cui si muove Dario De Luca diviene una sorta di piazza lontana
nel tempo dove invitare la gente a raccogliersi, ad ascoltare, per sentire “stu cuntu fatatu”, un racconto innocente, anche
se sembra indecente (giusta rima), privo di malizia, capace di donare allegrezza.
E al pubblico viene chiesto uno sforzo di fantasia per partecipare a questa storia che, moltiplicati gli organi maschili,
esige i corrispettivi luoghi d’ospitalità femminile. La traduzione di Le Luca in calabrese non è ostacolo alla comprensione:
aiutano le rime, la scansione poetica, alcune ripetizioni. Sacro e profano s’intrecciano, si mescolano con ingenua,
scherzosa trivialità. Con un avvio sereno di un marito e una moglie che si volevano bene con il cuore, la testa e i sensi,
lui che curava il bestiame, lei che zappava la terra. Ma qualcosa doveva accadere: “c’era una vota e na vota c’era...”.
Quale l’evento di novità in molte fiabe? La necessità di recarsi alla fiera per vendere il ricavato del proprio lavoro.
Quindici giorni sono tanti, ma davvero fruttuosi, l’uomo grato a “Santu Martinu” a cui era molto devoto.
De Luca trovatore si mostra lui stesso divertito nel narrare, trovando facilmente la complicità del pubblico, subito
catturato dalla fiaba di sapore antico, non poche le risate all’ascolto del giocoso eccesso di voglie, di piaceri, così anche
per il cibo, quasi filastrocche di sapori. Con molto vino naturalmente. In lei pensieri su come se la sarebbero “spassata
doppu, dintru u liettu. Un si cridìa l’ura”. Ma, ahimè!, troppo aveva goduto lui del cibo, di tante bevute: eccolo che dorme
come una pietra, sbuffando come una zampogna, simile a un porco. Una delizia De Luca che imita ironicamente le
moine di lei, che non riesce proprio a prendere sonno. Straordinario il sogno, avvolto in fumo magico: l’incontro con il
venditore di “trastulli”, “u scialapopulu vinnìa cazzi”!. Un gran diletto tutta la contrattazione per un pezzo particolarmente
apprezzato...che la moglie pensava di avere ancora ancora tra le mani al suo risveglio!, “capita chera tutto nu nsuannu”
L’insoddisfazione della donna fa sì che insista per avere lei la possibilità di utilizzare il primo dei quattro desideri donati al
marito da Santu Martinu. La sua richiesta una sorta di dannazione: “ti vuagliu tuttu chjinu i cazzi./ E i vuagliu tisi e puntati
verso u cìelu/ cumu i fucili ari funerali i nu re”. Il resto prevedibile, dalla comicità crescente. Lui ricambia con la richiesta
per lei. Fino a restare senza nulla entrambi...Almeno dunque tornare alle forme originarie! Il tutto in una densa teatralità
di ritmi, Dario De Luca travolgente....Con epilogo. Per dire delle parole un po’ volgari, ma sono peggio guerra e fame,
strano che si consideri “più osceno ciò che genera che ciò che uccide”... Tanti, tantissimi gli applausi.
Anche in quest’edizione del Festival di Castrovillari Dario De Luca è protagonista nello spazio del Capannone di un singolare spettacolo tratto da un canovaccio calabrese di cui non si conosce l’autore, divertendo il pubblico che lo subissa di applausi. Il testo recuperato s’intitola I 4 desideri di Santu Martinu, cui segue il sottotitolo Favolazzo osceno adatto ad essere recitato dopo i pasti che sembra quasi una parabola o una favola moraleggiante di tipo erotico, come quelle che poteva scrivere con spirito boccaccesco Domenico Piro, meglio conosciuto come Duonnu Pantu, vissuto nella seconda metà del 1600 ad Aprigliano in provincia di Cosenza, o come quelle altre di Domenico Tempio, noto come Miciu Tempiu, originario di Catania e vissuto a cavallo del 1700/1800, definito il maggior poeta siciliano del suo tempo assieme a Giovanni Meli e bollato come poeta pornografico. Qui De Luca in abiti monacali, aureola in testa, cuffia bianca che gli copre le orecchie, con la grazia che lo caratterizza e in una lingua calabra arcaica tuttavia comprensibile, accompagnato dalle musiche arabeggianti di Gianfranco De Franco che utilizza vari strumenti musicali come il flauto traverso, il clarinetto, il sax e altri ancora, racconta d’un pecoraio devoto a San Martino e della di lui moglie sempre infoiata. Una sera dopo una cena abbondante innaffiata da una quantità eccesiva di vino, il villico non riesce a soddisfare la moglie perché s’addormenta pesantemente. Il giorno dopo mentre pascola il suo gregge, gli appare per miracolo San Martino che gli dice di esprimere quattro desideri che l’uomo mette subito in atto. Il primo è quello di avere tanti falli sempre funzionanti. Ed ecco ogni parte del suo corpo diventare una selva piena di mentule, belli per la moglie ma difficili da utilizzare, al punto che il poverino esprime subito il secondo desiderio perché quelle appendici trovino i corrispettivi sessi femminili. Ma come si può capire, il problema non si risolve tout court e allora il pecoraio esprime come terzo desiderio che quelle appendici scompaiano del tutto e subito dopo sia la moglie che il marito si ritrovano privi dei propri organi sessuali. Ecco infine far ricorso al quarto e ultimo desiderio perché tutto torni alla normalità, ad una felicità ritrovata dopo aver capito quella morale per cui “chi troppo vuole nulla stringe”.
I 4 DESIDERI DI SANTU MARTINU – UN GUSTOSO FAVOLAZZO TUTTO DA RIDERE
Natale, tempo di desideri, santi e di racconti. Si chiama “favolazzo – adatto ad essere recitato dopo i pasti” I 4 desideri di Santu Martinu, la pièce in versi di Dario De Luca, andata in scena in anteprima nazionale nel piccolo, ma già prestigioso, Teatro della Chimera di Castrovillari, dove Scena Verticale è di casa.
Un racconto in versi gustosissimo, preso a prestito dalla letteratura medievale dei fabliaux del XII secolo, riscritta in dialetto calabrese, erede delle storie satiriche della tradizione novellistica di Boccaccio e di una certa letteratura fiabesca occidentale dove l’ingenuo si sposava con il sacro e con l’osceno e il genere popolare, contadino, bucolico incontrava il grande gusto della borghesia, raffinata, colta, grazie al vezzo della poesia in musica.
De Luca, moderno trovatore che dal passato precorre il futuro della romanza, sulla strada già tracciata da Re Pipuzzu, ci racconta ora un’altra storia dall’impianto semplice, diretto, divertente e sagace, non priva di condita saggezza. Una coppia di contadini che vivono un matrimonio lieto e fedele, onorandosi con reciproci doveri nella normalità scandita dal lavoro della vita dei campi. Entrambi sono tipicizzati nei loro rispettivi difetti e caratterizzati in modo rocambolesco da De Luca che ce ne consegna i ritratti, scoperchiandone i desideri più latenti, attraverso una parola vivifica che scruta ogni aspetto di pensiero e di intenzione, unita alle melodie rapsodiche di Gianfranco De Franco, che ci lascia immaginare anche i sapori e gli odori del racconto, accompagnandoci in un viaggio sensoriale che rapisce i sensi e l’intelletto.
Partendo da un intreccio semplice, lo spettacolo suscita curiosità crescente nello spettatore mai sazio di piacere, come i personaggi animati da appetiti che vanno dal cibo, al vino, all’unione sessuale, mai realizzata e consumata, ma sempre cercata, in un crescendo di allegorie, visioni e immagini, evocate dal ricco vocabolario e lessico che fanno di questo lavoro un raffinato pamphlet erotico. Dal sogno del venditore ambulante di falli che ne ha di ogni tipo e misura, con il sacco sodo e il “manico” lungo fino ai desideri di San Martino che si realizzano come una maledizione nelle metamorfosi dei personaggi in creature di falli e vagine, che diventano sempre più umani e grotteschi, quindi sempre più reali e più veri, capiamo la differenza tra il peccato e l’innocenza.
Di grande effetto è l’aureola di san Martino, un candeliere circolare prima poggiato sul lungo bastone che ha in mano il narratore De Luca, poi a terra, quando dopo l’apparizione a una a una sistema le candele a ricordare dal basso, l’umiltà della devozione. Così come gli oggetti di scena, anche i costumi di Mariella Carbone costituiscono una parte essenziale della narrazione, che appare nitida e dipinta. Il pastiche è fatto.
Come il mito e la storia insegnano, da re Mida ad Apuleio, ma anche Rabelais, Grimm e La Fontaine, i desideri quando non fanno più paura si sprigionano e aprono a nuove fantasie che portano alla verità, nuda e cruda, di tornare se stessi.
Originale, singolare e di grande impatto immaginifico questo quadro vivo di De Luca e De Franco che rimanda ai mondi onirici dei quadri fiamminghi di Bosch, oggetto di fantasia totale. Appaiono i temi del fantastico, il quotidiano si trasforma in visionario, come avevano fatto gli intellettuali e gli artisti del Trecento e del Quattrocento. La metamorfosi della donna è un tripudio di organi femminili che richiama i Monologhi della vagina di Eve Ensler, che nel teatro d’avanguardia aveva spianato la via a questo tema facendone una bandiera politica e culturale ancora viva. Il linguaggio regge la pièce sulla potenza espressiva e linguistica di De Luca che stratifica ogni senso che sia esplicito o non lo sia, fino alla fine: quando il candeliere diventa copricapo di candele accese, da far spegnere al pubblico, nella consapevolezza della pericolosità dei desideri. Quando la preghiera al ritorno della normalità ci ricorda che non è la protezione dei santi che ci salverà, ma il nostro rapporto diretto con la coscienza.
“I quattro desideri di Santu Martinu”, in scena Dario De Luca
[Pubblicato anche su manifestblog.it]
Per la stagione 2023/2024 de I Vacantusi, sulle tavole del Teatro Grandinetti, è andato in scena lo scorso venerdì lo spettacolo “I quattro desideri di Santu Martinu”, una produzione della compagnia Scena Verticale, liberamente tratto da fabliaux anonimi medievali, di e con Dario De Luca e il musicista Gianfranco De Franco.
Una superba prova, quella dell’attore e regista cosentino che, con l’intrigante accompagnamento musicale dal vivo di De Franco (una garanzia di eleganza e di architettura sonora), ha intrattenuto il folto pubblico in sala con la riscrittura “in salsa calabrese” di un anonimo fabliau medievale, di ambiente piccardo, e a tratti grottesco, cioè uno di quei modelli, un prototipo quasi, per tutta la letteratura erotica e oscena che forse persino oggi può ancora scardinare diversi tabù. L’originale è stato peraltro di recente pubblicato nell’antologia curata dal celebre medievista Alessandro Barbero, “La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali”.
Attraverso sapienti manovre drammaturgiche di trasformismo, De Luca diventa così il novello trovatore calabrese che incornicia l’ilare storia del pecoraio e della pacchiana, sua moglie, personaggi forse archetipici per le tradizioni nostrane ma qui imbevuti di un picaresco che è il risultato della coraggiosa ibridazione di tradizioni diverse. I due, alle prese con un San Martino disposto a esaudire ben quattro desideri, si immergono in una poco sagace, quanto surreale, situazione metamorfica piena di sconcezze memorabili. Ma è chiaramente il gioco del teatro a farla da padrona: nel patto silente tra corpo recitante e pubblico in ascolto, quest’ultimo si riscopre “corpo recitato” se è vero che il riso non è mai passivo, seguendo De Luca, ma partecipante, perché anche liberatorio, perché privo dei tabù spesso autoimposti pudicamente.
Com’è vero, per esempio, che la storia messa in scena scardina con intelligente irriverenza il tabù della sessualità femminile, visto che è la Pacchiana a tenere le redini dell’erotico intreccio. Poi, c’è il potente mezzo della lingua, del dialetto in questo caso, che ha dalla sua un’evocativa potenza lessicografica, come nel momento in cui vengono sciorinati con gusto i geosinonimi degli organi sessuali, maschile e femminile.