Due anni dopo la rivelazione del premiatissimo Dissonorata, Saverio La Ruina si ripresenta in abiti femminili in la Borto per esprimere sulla sua sedia, accompagnato dalle musiche dal vivo di Gianfranco De Franco, lo sconforto di una donna malmaritata a 13 anni con una specie di mostro per ritrovarsi sette volte madre a 28. E ci rivela i suoi dialoghi con Gesù, denuncia le angosce di essere donna del Sud sotto lo sguardo lurido dei maschi, la sua progressiva rivolta contro ogni contatto, mentre nel paese cresce la guerra ai mariti, l’angoscia delle gravidanze, e si alimenta l’industria denunciata dal titolo, approdando a un intervento, in cui una nipote della protagonista perderà la vita. Ma tutto questo detto con un sussurro colmo d’orgoglio, mentre voci e sguardi si rincorrono. – Giudizio: Indimenticabile
Dopo il gran successo di Dissonorata, il monologo in calabrese premiatissimo in Italia e celebrato all’estero, in cui Saverio La Ruina, leader di Scena Verticale, in abiti femminili raccontava in prima persona le angosce di una matura donna meridionale del secolo scorso messa incinta e abbandonata, l’autattore si ripresenta in La Borto sulla stessa sedia, sempre accompagnato dalle musiche dal vivo di Gianfranco De Franco. Ora ci racconta il dramma di un’altra donna del Sud fatta sposare per forza a tredici anni e già sette volte madre a ventotto, mettendo sotto accusa la condizione femminile non solo calabra, scrutata dai luridi sguardi animaleschi dei maschi e soggetta a un perenne succedersi di gravidanze. E ci narra la sua rinuncia ai contatti sessuali, la rivolta delle mogli, la scoperta dell’industria dell’aborto del titolo per finire in tragedia questo superbo reincarnarsi dell’attore nella rincorsa dello sguardo e della voce tra il pianto e il riso. Da vedere assolutamente.
Da più di dieci anni tra maggio e giugno fiorisce “Primavera dei Teatri” […] Quest’anno senza che si fosse dato un tema sono stati gli spettacoli impegnati a imporsi, nella varietà dei diversi aspetti possibili, ed è stata Scena Verticale che organizza la manifestazione a dare il la, riprendendo quel mirabile lamento in nome della popolazione femminile che è la Borto […]
Tre anni fa, con Dissonorata, aveva vinto un doppio premio Ubu, come miglior attore e miglior autore: può capitare, dopo exploit del genere, che affrontando un impegno successivo si incorra in un calo di tensione, in una tendenza magari inconsapevole a ripetersi, a rifugiarsi nei canoni di una formula collaudata. Invece il bravissimo Saverio La Ruina, in questo nuovo spettacolo, la Borto, riesce quasi prodigiosamente a mantenersi fedele a uno stile senza perdere nulla nell’intensità della scrittura e dell’interpretazione. Anche in questo caso il calabrese La Ruina testimonia la cultura di un Sud barbarico e retrivo, osservato da vicino con sguardo insieme ferocemente critico e dolorosamente partecipe. Anche in questo caso il punto di vista scelto è la condizione della donna, vittima di ogni sorta di pregiudizi maschilisti e soprusi famigliari. Se Dissonorata ruotava infatti intorno al tema del delitto d’onore, dell’onta da lavare, la Borto – come il titolo stesso suggerisce – parla invece di una gravidanza interrotta al tempo dei ferri da calza e delle mammane. Vittoria, la protagonista, è costretta a sposarsi a tredici anni con un uomo bruttissimo e sciancato, che neppure conosce, e che la mette incinta senza sosta. A ventotto anni Vittoria ha già sette figli, e quando se ne annuncia un altro in arrivo non ce la fa più, si ribella, abortisce a prezzo di gravi sofferenze. La vicenda risale a qualche decennio fa, ma non è che oggi le cose vadano meglio: e infatti alla fine del racconto una sua nipote, in una situazione analoga, dovrà spostarsi al Nord, dove però troverà ugualmente ostilità e pregiudizi. Questa materia ispida, difficile da trattare senza cadere nella retorica o negli eccessi emotivi viene affrontata come dall’interno, con la pacata oggettività di un lucido spaccato antropologico, espresso in un aspro dialetto locale che sembra emergere prepotentemente dalla realtà stessa della vita. L’urgenza della testimonianza si stempera spesso nell’ironia, nella tenerezza, in una dolcezza rassegnata incarnata soprattutto dal legame che Vittoria stabilisce in un sogno con un Cristo dapprima irato, poi sempre più pietoso e comprensivo. Ma il vero miracolo lo compie ancora una volta l’attore-autore che, seduto sulla sua sedia, in pantaloni e maglietta di lana, senza dunque rinunciare alla propria identità maschile, puntando solo sulle posture, sulle intonazioni, sulle risonanze interiori riesce a evocare l’emblema di una femminilità offesa, ferita: è straordinaria la sua capacità di giocare coi dettagli, le ciabatte, le incongrue calzette azzurre. E poi c’è il musicista Gianfranco De Franco, i cui strumenti a fiato aggiungono risonanze lancinanti all’acre narrazione.
[…] Saverio La Ruina, l’attore-regista calabrese che in questi anni si è imposto anche come autore dalla forte e personalissima vena espressiva, attento soprattutto a denunciare le violenze e le discriminazioni subite dalle donne del Sud. I suoi due monologhi precedenti, Dissonorata e La Borto, in questo senso sono ormai da considerare dei piccoli classici. […]
Con scrupolo antropologico, con dignità pari a un dolore antico, con una pazienza remota, con una incisività così tagliente da risultare straziante, Saverio La Ruina racconta ne la Borto la storia di una donna del Sud di non molti anni fa e delle ragioni che l’hanno portata ad abortire, atto doloroso che l’ha segnata. Senza travestimenti, indossata una semplice maglietta sui pantaloni, ai piedi ciabatte sformate, seduto su una sedia con pochi gesti ricchi di significati La Ruina, bravissimo, accompagnato dalle suggestive musiche dal vivo di Gianfranco De Franco, con una recitazione intima, fatta di sussurri, di vergogne trattenute, di ingenuità sconvolgenti, di fatiche che pesano sul cuore, dà vita a Vittoria utilizzando, come sempre, il dialetto calabrese che restituisce aspra musicalità e una verità arcaica, immediata e povera. Vittoria all’età di 13 anni viene “maritata”, venduta, ad un uomo che non conosce, molto più anziano di lei, brutto, sciancato che si rivelerà anche cattivo d’animo e violento. Vittoria, simbolo di donna offesa e violata, condizione che condivide con le altre donne del paese, a 28 anni ha già avuto 7 figli e vive in una società di maschi privi di senso di responsabilità e senza “pietas” che vedono le donne come oggetti cui misurare le circonferenze seduti al bar del paese e da possedere. Una società dura e crudele dove le “mammane” coi loro mortali ferri sono l’unica strada che rimane alla disperazione di non riuscire a volere l’ennesimo figlio indesiderato, l’ennesima bocca da sfamare. Quello di Vittoria è una sorta di dialogo con Gesù nel tentativo di spiegargli le ragioni della sua scelta, sicura che Lui la capirà. Ma anche certa che per la nipote, pur cambiando, la situazione sarà sempre impregnata di sofferenza. Uno spettacolo che colpisce diretto al cuore e alla mente e suscita “compassione” nel senso alto del termine.
Anche queste sono soddisfazioni. Dopo Spiro Scimone tradotto in francese e messo in scena alla Comedie Francaise, ora tocca a Saverio La Ruina. Per la rassegna “Face à face” che porta a Parigi il meglio del nuovo teatro italiano, al Théâtre de la Ville di Parigi / Chantiers d’Europe, il 9 va in scena La Borto (La Vortement) di Saverio La Ruina, appunto, recitato in francese dall’attrice Valérie Dreville, attrice della Comedie Francaise, protagonista sul grande schermo in “Chicas” di Yasmina Reza accanto a Isabelle Huppert. Per Saverio La Ruina è una bellissima soddisfazione dopo quella del Premio Ubu 2010. Un premio meritatissimo per un testo che con una delicatezza rara e in un calabrese reinventato e comprensibilissimo racconta la violenza subita da una giovane ragazza sognatrice che trova in se stessa e nell’amore per la vita la forza di un riscatto. Complimenti!
Si festeggia stasera a Milano il Premio Hystrio (la cerimonia è al Teatro Elfo Puccini), il riconoscimento istituito dalla rivista di teatro diretta da Claudia Cannella. E mi fa piacere sottolineare che il premio si è molto svecchiato rispetto ad edizioni passate e ha indirizzato le sue scelte verso la parte più innovativa e anche giovane del teatro italiano. […] Altro premio meritatissimo a Saverio La Ruina, uno degli attori – autori che si meriterebbe posti di primo piano nel nostro teatro.
[…] la Borto, il bellissimo spettacolo di Saverio La Ruina […] che nei panni di una donna racconta la tracotanza e la prepotenza maschile sulle donne. Donna del sud, in una terra di arretratezza culturale, di fronte al dramma privato dell’aborto, La Ruina dà voce a una ribellione femminile bella, visionaria, perfino divertente. da non perdere.
Saverio La Ruina è una delle personalità più interessanti del teatro italiano anni Novanta. Calabrese, attore-autore, è di quelli che ritengono che tra le responsabilità di un artista ci sia anche quella di opporsi ai segni più oscuri del nostro presente. E Saverio La Ruina lo ha fatto con due spettacoli Dissonorata e La Borto, che puntano l’indice contro il dominio maschile sulla donna, a partire da due “piccole storie” femminili, due destini simili di ribellione e punizione in un contesto sociale chiuso, gretto e maschile. Cariche di emozioni e verità le due storie si caricano di ulteriori simboli perché a raccontarle è un attore- maschio che interpretando una donna, non si cancella, non si tira fuori, ma chiama in causa in modo diretto le omissioni e le colpe degli uomini nei destini di tante donne.
[…] Saverio La Ruina, artista capace di intimità spropositate e struggenti, attore dotato di una leggerezza civile e umana sfiorante la soglia di una grazia espressiva piena sempre di calvario e di gran travaglio espiatorio, teatrante geniale nei suoi transfert femminili pervasi da pudore, da posture mortificate, da toni di voce esili e sconfitti, fino a poco tempo fa un protagonista come lui tanto più mite quanto più insuperabile, e ormai oggetto di culto per tante categorie di pubblico […]
[…] la scoperta cruciale è arrivata da cinque scrittori meridionali: lo stesso Saverio La Ruina, Vincenzo Pirrotta, Gianfranco Berardi, Davide Enia, Mimmo Borrelli. Stesso impeto, stessa passione, stessa potenza. Sono davvero un mondo nuovo. Di fronte a loro si pensa che altrove si fa una certa politica perché di costoro si teme l’energia. La Ruina, Pirrotta, Berardi, Enia, Borrelli hanno in comune di aver avviato un processo di trasformazione radicale non solo della drammaturgia ma della scena teatrale. […]
Un’altra storia triste, ma ricca di cuore e di sentimento in mezzo alle vicissitudini e i traumi che una donna ha attraversato, è quella che ci propone Saverio La Ruina con la sua Scena Verticale. Dissonorata era stato il primo exploit dell’attore e autore, un racconto anche quello biografico (ovvero costruito sulla memoria di tante donne) di una creatura che nel cuore profondo della Calabria si era trovata a vivere le sopraffazioni e le violenze dei pregiudizi e dei luoghi comuni, riuscendo però a mantenere una sua dignità e un suo fascinoso “controllo” della situazione. Su quello stesso filone, almeno in apparenza, si muove la protagonista del più esplicito la Borto. Una donna semplice e devota ma di fortissima e lucida personalità, racconta la sua storia, la sua infanzia sottomessa nella famiglia meridionale, fino a quando, a 13 anni, viene “assegnata” in sposa a un giovanotto che non ha solo il doppio della sua età, ma cui non mancano i difetti fisici, dagli occhi al volto, a quello più vistoso di tutti di essere “sciancato”. Fin dall’inizio la donna denuncia un senso di colpa, vede in chiesa Cristo con la tavola apparecchiata per l’ultima cena, e anche se non vede Giuda, capisce che la sedia vuota indica il posto per il traditore, e forse è lei stessa destinata a quel ruolo. Perché dal mostruoso marito è costretta ad avere sette figli, maschi e femmine, finché, arrivata a 28 anni, anche lei sente che è il caso di smettere quell’incessante, defatigante e soprattutto non voluta attività riproduttiva. La sua scelta avviene nei primi anni 70, prima quindi che la legge 94 renda l’aborto legale, e questo la condanna a ricorrere a una terribile praticona, secondo la letteratura che era allora ben nota. Il “tradimento” vero al precetto religioso avviene con molta maggiore serenità. Quando aiuterà la sua nipotina, figlia della figlia, e coetanea della sua lontana prima esperienza “d’amore”, ad abortire, anche se in una clinica, a Milano. Ma il racconto che Saverio La Ruina ci porta, accompagnato solo dalla partitura per fiati di Gianfranco De Franco che la esegue in scena, tutto nero e di spalle, non è solo un apologo lineare di progresso civile. La sua parte più fascinosa anzi sta proprio nella cornice paesana, familiare, comportamentale dentro le quali si iscrive. La donna non lesina particolari su quella società maschile e violenta, abitudinaria e arrogante, che ai suoi occhi di donna, per quanto pia e obbediente, non opporrà per tutta la vita altro che sbarre e giudizi, divieti e grevità. Il dialetto calabrese, chiuso e spesso ostico, scopre una musicalità sensitiva, una capacità di indagine che La Ruina dispiega a pieno. In una prova di bravura intensa e commovente, senza alcun vezzo esteriore, ma con l’intima consapevolezza della tragedia classica.
È un teatro profondamente femminile quello di Saverio La Ruina. Di una femminilità interiore, solo accennata, che si nutre di un gesto, di un sussurro, di un movimento leggero, delle mani o del corpo. E, soprattutto, della straziante verità delle parole alle quali il dialetto calabrese, con la sua severa musicalità, offre una forza dirompente. Non c’è orpello, non c’è esibizione né tantomeno travestimento nel personaggio di Vittoria, donna a ventotto anni già madre di sette figli, che La Ruina interpreta con una misura rara e una profondità sconvolgente. In La Borto, dunque, ancora una volta, come nel precedente Dissonorata, l’attore dà vita a una figura femminile infelicemente in lotta all’interno di una cupa società di uomini fatta di sopraffazione, crudeltà e menefreghismo. Per farlo non rinuncia ai suoi abiti maschili, un paio di ciabatte ai piedi, indossate su delle calze di colore azzurro: la femminilità del personaggio, infatti, gli viene da quel tanto di femminile che ogni uomo porta dentro di sé come il lato nascosto della personalità. Ed è proprio da lì che trae la sua lucida forza che non rinnega neppure per un attimo il sentimento. Vittoria è una figura simbolo di donna offesa, violentata anche se non carnalmente, costretta a sposare per povertà, a poco più di tredici anni, un uomo molto più vecchio, sciancato e prevaricatore. Del resto è proprio sui guasti di questo egoismo maschile, della violenza fatta anche di supponenza, di crudeltà, di indifferenza a meno che non riguardi il proprio piacere che qui si racconta: una quotidiana via crucis familiare, silenziosa, ma scientifica. Vittoria sa che questa situazione non riguarda solo lei: non c’è donna del paese che non la conosca, che non ne condivida le angosce, le paure, la voglia di scappare. Tutte per sopravvivere e non passare la vita perennemente incinte si creano dei punti di fuga; ma quando questi vengono meno non resta che l’aborto (da cui il titolo del monologo) in situazioni disperate, fatto dalle mammane e con i ferri da calza, fra atroci sofferenze. Quasi una condanna a vita, quella di questa donna del sud costretta perennemente a subire e che non cambia neanche con il passare degli anni quando una sua nipote per abortire si trasferisce al nord, dove però i pregiudizi e l’ostilità sono gli stessi. Un testo crudo, impietoso La Borto che Saverio La Ruina interpreta con una coraggiosa pacatezza, seduto su di una sedia, sostenuto dal suono degli strumenti a fiato suonati dal vivo da Gianfranco De Franco, che dà le spalle al pubblico, avvolto nell’oscurità che ricorda il buio del mondo in cui è costretta a vivere la protagonista, appena rischiarato dai suoi sogni che hanno per protagonista Gesù Cristo, che prima la rimprovera e poi via via è sempre più dolce verso il calvario terribilmente umano di questa donna martoriata. Uno spettacolo di grande forza, un formidabile interprete.
Nella patria dei dialetti e di Gadda la lingua comune dei romanzieri è solitamente piatta e giornalistica, e la sua sperimentazione è lasciata semmai a un teatro non centrale e raro (ai primi posti il calabrese Saverio La Ruina e la siciliana Emma Dante). È un segno anche questo dell’omologazione e della mercificazione, che riguarda però anche la letteratura mondiale: sono pochi gli scrittori che sembrano resistere agli obblighi di una produzione mercificata, e che cercano, inventano. costruiscono. Che non preferiscono la facile traducibilità. […] Goffredo Fofi | “Qui ho conosciuto purgatorio inferno e paradiso” di Giacomo Panizza e Goffredo Fofi, con prefazione di Roberto Saviano | Feltrinelli Editore, 2011. […] Tra i calabresi – a parte Carmine Abate con il suo mondo calabro-albanese, e gli esuli Enzo Siciliano, che è morto, e Mario Fortunato – c’è Saverio La Ruina, attore e autore di straordinari, bellissimi monologhi sulla condizione femminile in Calabria […].
[…] Una distanza marziana sembra separare questo Orson Welles Roast da la Borto, scritto e interpretato con stupefacente sobrietà da Saverio La Ruina: monologo sull’urticante tema dell’aborto, nell’ottica di un’umile e maltrattata donna del Sud che dialoga in sogno con Cristo nel proprio aspro ed espressivo dialetto. Due spettacoli agli antipodi, si direbbe. Ma a vedere a distanza ravvicinata Battiston e La Ruina sulle scene milanesi (rispettivamente all’Elfo Puccini e al Crt) è stata un’iniezione di adrenalina pura nelle vene.
Teatri in festival. A Castrovillari, Primavera dei Teatri racconta […] il corpo oggetto della donna nel nuovo straordinario monologo, “la Borto” di Saverio La Ruina […]
Saverio La Ruina commuove con lo sguardo che appena sfiora la platea. Oppure inquieta muovendo lieve la testa, prima di irretire con un tic nervoso. E questo perché è un grande attore. Ma, dietro quello sguardo, quella testa, quel tic nervoso, scorrono parole che rimangono sotto la pelle e non se ne vanno, che ci si porta a casa un po’ a disagio, fosse solo perché non si è più capaci di ripeterle. In un teatro che troppo spesso scavalca le parole perché incapace di usarle, testi come Dissonorata o La Borto ricordano invece quanto la bellezza della scena passi ancora dal linguaggio, dalla comunicazione verbale. Da La stanza della memoria alla trilogia calabro-scespiriana dedicata a Otello e Amleto, Saverio La Ruina, autore, regista e interprete degli spettacoli realizzati dalla compagnia Scena Verticale, da lui fondata a Castrovillari insieme a Dario De Luca, insegna a non impigrirsi di fronte alla superficialità delle grammatiche contemporanee, sotto e sopra il palcoscenico. A scavare nella ricchezza nascosta della strada, dei dialetti come delle letterature. Con un’eleganza formale capace di piegarsi all’invettiva come alla chiacchiera da bar, al gioco dell’ironia come alla delicatezza di certe passioni colme d’umiltà. E improvvisamente, anche le vicende più dure parlano la lingua della poesia. A lui un meritatissimo Premio Hystrio alla drammaturgia.
Stasera, a ingresso libero, all’Elfo Puccini saranno assegnati i Premi Hystrio […] Si premia la genialità dell’attore calabrese Saverio La Ruina che con un grottesco en travesti ha sconvolto ovunque le platee di La Borto […].
Sembra impossibile ma ancora oggi a casa nostra quando si parla di teatro dialettale, si pensa subito a qualcosa di deteriore, per non dire di goliardico. Come se, fatta eccezione per Eduardo a Napoli e Gilberto Govi a Genova, non si potessero esprimere nella pluralità delle lingue che costellano la penisola altro che frizzi malandrini e sconce e sguaiate risate. Mentre da tempo echeggia da Castrovillari, sede di un festival tra i più ricchi di proposte innovative, la voce di un autore – attore come Saverio La Ruina che, oltre che essere pluripremiato, all’estero riscuote consensi tutt’altro che effimeri. Sempre in rigorosa tenuta maschile, con la sua zazzera di capelli corvini che gli incorniciano il viso in cui due mobilissimi occhi di furetto da parte a parte ti trapassano costringendoti a non perdere una sillaba delle sue dolorose ballate, il nostro gira da tempo l’Italia con un eccentrico spettacolo bifronte dedicato alla condizione femminile invalsa nella sua terra tra la fine del diciannovesimo e buona parte di quel ventesimo secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Spettacolo bifronte perché “Dissonorata” col suo onirico complemento “la Borto”è un ritratto al vetriolo della violenza insita nella cultura di un paese che considerava la femmina alla stregua di un oggetto d’uso. Si comincia, in questa performance che vede l’interprete arringare il pubblico con la sola forza della parola, con un narrato che ricorda il primo Verga. In cui la protagonista emerge con la sua atavica pena. Straziata, maledetta e vilipesa per aver ceduto, sia pur vittima dissenziente, alla prevaricazione della carne. Mentre nell’unicum conclusivo non di aborto si tratta ma del sogno di ritrovare una purezza che escludendo qualsiasi contatto elevi al cielo, come in un Retablo da paese, chi è da sempre schiava della ossessiva pretesa del consorte. Quasi per magia, grazie alla vis struggente dell’interprete e alla musica dissonante del dialetto, l’affresco si compone in canto aperto. Perché il teatro è soprattutto questo: parola che si fa sangue e voce nell’affresco della comunicazione.
Due spettacoli straordinari, poetiche molto diverse e pure ugualmente essenziali, travolgenti, di assoluta commozione: è stato alla Cavallerizza di Torino, per il Festival delle Colline, tra i più attenti al teatro contemporaneo, che è stato possibile incontrare, in un solo giorno, indimenticabili, il debutto nazionale di «Iovadovia» dei Motus […] e «La borto» di Scena Verticale, autore, regista e interprete Saverio La Ruina, musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco, tantissimo pubblico e applausi che non finivano più per entrambi gli spettacoli, una gioia speciale all’incontro con opere di tale energia e tensione artistica, capaci di creare lunghe scie d’emozioni e pensieri. […] E come in «Dissonorata», che aveva ricevuto premi e riconoscimenti ovunque, anche in «La borto» Saverio La Ruina è seduto su una sedia a parlare in un ruolo femminile. Note di sfondo che sono intime vibrazioni del cuore solo per alcuni passaggi. E quel parlare quieto – che intreccia ricordi, evoca stati d’animo, alternando strani sogni e realtà quotidiana in un paesino calabro, la solitudine, l’incomprensione, i figli uno dietro l’altro – si carica di una speciale, indefinita, intima drammaticità, sofferenze reali, infezioni e morte per chi nascostamente si trovava nella necessità di compiere quella scelta, rinunciare a nuove nascite. Tante figure così intorno, ricordando nomi e situazioni, parlando piano, lasciando trapelare situazioni anche buffe, ironiche, di cui ridere, ma che conservano sempre integro, assoluto, tenace il dolore che dalla scena invade tutta la platea. Perfetto.
due opere-capolavoro […] “Dissonorata” e “La Borto”
[…] i suoi personaggi, donne non sconfitte ma profondamente ferite quelle di “Dissonorata” e “La Borto”, si confrontano con realtà dure di una provincia molte volte ottusa del Sud Italia, donne e uomini che non si danno per vinti, che combattono le loro vite cercando fughe in avanti e piccole ribellioni, con il sarto di “Italianesi” ha composto un trittico memorabile […]
[…] Un monologo, che si avvale delle misurate e suggestive musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco, del quale, per chiarezza, è bene dire subito due cose: è in calabrese, ma comprensibilissimo, ed è bellissimo, sia per il testo che per l’interpretazione. Ma andiamo con ordine. Dopo il successo di “Dissonorata, un delitto d’onore in Calabria”, che gli è valso il Premio Ubu 2007 come miglior attore italiano, Saverio La Ruina prosegue nella sua ricerca “en travesti” sulla donna del Sud, alle prese con una società maschilista e poco aperta. Una ricerca che è anche una sorta di autocritica: “come uomo mi sento sulla sedia degli imputati: dove erano e dove sono gli uomini di fronte al dramma di queste donne?” “La Borto” non affronta solo la terribile esperienza che, volutamente sgrammaticata e declinata al femminile, a sottolineare un “maschile” pronto a lavarsene le mani, porta nel titolo, ma va ben oltre. È una storia di una donna, anzi la storia della donna. Anzi, di due donne. Madre e figlia. Lei, la madre, che col dialetto aspro, ma armonico e a tratti poetico nella dizione di Saverio La Ruina, della cosentina Castrovillari, racconta la sua (non) vita: sposa a tredici anni ad un uomo scelto dalla famiglia, che lei non ha mai visto in faccia, e che si presenta in chiesa in là con gli anni e sciancato. Madre sette volte in meno di un decennio. Fino a quella ribellione, all’ottava gravidanza, combattuta con i ferri da calza di una mammana, nell’indifferenza maschile. Un aborto che, nel finale, la donna rivive accompagnando la nipote ad abortire, ma in una clinica milanese. Da vedere. Da riflettere.
[…] Ed eccolo ora, Saverio La Ruina, rieccolo nel suo nuovo spettacolo, “La borto”, che chiamare spettacolo, come già “Dissonorata”, è forse inesatto, dovremmo dire denuncia, disperazione, canto di un’anima tormentata… Calabria, ancora; e in quel dialetto difficile da afferrare parola per parola, eppure intriso di una poetica armonia che conquista. Lui, solo, alla ribalta, con appena qualche lieve accenno… il colore delle calze… l’orlo di una maglietta… a farci conoscere Vittoria […] Lievi le mosse, a tratti una mano sul volto o le gambe incrociate, ma sempre lì, quasi immobile su una sedia, a guardar noi che ascoltiamo Vittoria; e dietro di lei, dietro Saverio La Ruina, voltandoci le spalle, nell’ombra un musicista, Gianfranco De Franco, le cui note accompagnano la voce di Vittoria come un sommesso ricamo. Sottile, un filo di ironia corre nelle verità di questa donna, e il romanzo di una maternità non voluta, di una spietata tradizione, del mondo cupo e incivile in cui è imprigionata non sembrano i segni di una realtà del nostro Paese. Un messaggio, dicevamo, che chi fa soltanto una politica di vani discorsi avrebbe il dovere di saper cogliere. 70 minuti a teatro, per ricordarci che siamo o dovremmo essere italiani. […]
In Dissonorata, indossava una vestaglia da donna: un povero straccio che qualcuno avrebbe potuto trovare alla fine del mondo, relitto di una civiltà preistorica in cui gli uomini consumavano le carni delle donne. Oggi, con la Borto, Saverio La Ruina ha lasciato solo un paio di calzatte turchesi come segno di un corredo femminile catapultato da quello steso mondo barbarico, il nostro. Più un piccolo merletto che spunta da un abito maschile. La Borto è una parente elettiva di Dissonorata. Sono cadute nello stesso pozzo della storia, là dove Cristo si è fermato tanto tempo fa, dove non passa nessun treno che se le porti via. Nel profondo profondo Sud (che è quello dove, a tutte le latitudini, anche al Nord, si compiono metodici massacri senza eco), l’ultima creatura partorita dalla sensibilità affebbrata e dolente di Saverio La Ruina, da quella sua lingua fatta di elementi naturali, attorcigliata alle pietre e ai rami odorosi di vite dimenticate, porta nel corpo giovane le stimmate di una precoce vecchiaia. Usata da un marito osceno come ventre da ingravidare con disprezzo e senza desiderio, La Borto diventa il simbolo più prezioso della violenza maschile sulle donne. La scena espressionista, da fiaba antica e crudele, che descrive l’aborto cercato come liberazione ed espiazione, si rifrange nei colori tetri di una moderna clinica milanese, dove la giovane nipote andrà ad abortire, tanti anni dopo, accompagnata dalla zia. Un cortocircuito tra passato e presente, nella continuità di un abuso, dove la nonna che vuole liberarsi da una vita animale viene umiliata e messa al bando da una società che, allora come ora, condivide le stesse pratiche stregonesche, senza pagarne mai il prezzo. Non sappiamo se chiamarlo spettacolo. Il pezzo d’arte di Saverio La Ruina vale più di mille libri d’inchiesta, dei discorsi dei politici, e di tanti altri lavori di impianto dichiaratamente civile. Attraverso il dialetto calabrese e la parlata dolcissima, scolpita nel suono, del suo interprete, la Borto è la messa in vita – tragica, ironica, piena di colori nella variante del nero – della “questione fondamentale”, del vero male oscuro della nostra società. Per questo, politici, economisti, femministe, uomini di cultura, antropologi, psicologi, tutti, dovrebbero mettersi in fila e ascoltare in silenzio questa meravigliosa lezione d’umanità fatta con il pudore e la grazia che possiedono solo i grandi artisti.
C’è qualcosa di straordinario nella sensibilità teatrale di Saverio La Ruina, attore, autore, regista, fondatore della compagnia calabrese Scena Verticale. La sua scelta di dare voce e corpo alle donne della sua terra non ha niente a che fare con una performance en travesti ma è tutta questione di timbri, silenzi, sguardi bassi, gesti nervosi e pudichi, sussurri dolcissimi, improvvisi sussulti di orgoglio: una partitura millimetrica di emozioni e sfumature che solo un teatrante di talento può reggere. Dopo Dissonorata lo ritroviamo in La borto alle prese con un’altra storia di strazio al femminile, quella di Vittoria, a 13 anni maritata con un vecchio sciancato e violento, a 28 già madre di 7 figli. E siccome non si può passare la vita restando incinta, in un Sud medievale pre legge 194 non restano che mammane, ferri da calza e atroci sofferenze. E se anni dopo la nipote potrà usufruire in una clinica milanese di un diritto acquisito, ad unirle oltre le generazioni resta il destino di donne abusate. Con un paio di calze azzurre come unica concessione a una femminilità dimessa. Un potente pezzo di teatro. Così vivo da conficcarsi nel cuore.
Donne, umiliate e offese in un meridione governato da leggi maschili e arroccato in una mentalità medievale. A Saverio La Ruina, straordinario, basta un gesto, un’espressione, una vestaglietta e il suo aspro dialetto calabrese per incarnarsi nelle protagoniste di questi struggenti monologhi.
Indimenticabile autore e interprete di ritratti di donne del sud umiliate e offese, ma piene di orgoglio e dignità (“Dissonorata” e “La Borto”) […]
[…] Il festival ha proposto <La Borto> di e con Saverio La Ruina. È un monologo che ha già una sua storia di successi. È la storia di una donna del Sud vittima del mondo maschile e delle sue ottuse regole. In questa arcaica guerra tra i sessi, alle donne toccano le gravidanze. E davvero non sanno più chi pregare per evitarle. L’ultima risorsa è la <mammana>, è <la borto>, per qualcuna è anche la morte. Testo duro e poetico, polemico e sarcastico che La Ruina, accompagnato dalle musiche di Gianfranco de Franco, interpreta con una grazia favolistica e con una gestualità trattenuta, esaltata dal movimento delle mani, che quasi offrono un racconto nel racconto.
La borto è uno spettacolo straordinario come il suo predecessore, il pluripremiato Dissonorata […] Il personaggio cui l’attore dà vita senza particolari mascheramenti si chiama Vittoria, calabrese tra le tante costretta a sposarsi appena tredicenne, e a ventott’anni già madre di sette figli. In un tracciato verbale dialettale – che grazie al ritmo scenico e alla sapienza dei gesti che lo commentano diviene quasi magicamente una lingua archetipica, comprensibile ed emozionante – questa donna calpestata dalla violenza maschile racconta, tra ironia e pathos tragico, la propria esistenza, culminata, appunto in un aborto clandestino, praticatole a rischio di vita da una delle tante mammane. […] In questo desolato e potente ritratto l’artista regala agli spettatori una serie infinita d’emozioni, ancor più stridenti se inserite in un contesto come le celebrazioni dell’8 marzo. È questa infatti la data prescelta con intelligenza dall’Università di Ca’ Foscari per inaugurare con questa perla teatrale la propria stagione al Teatro Giovanni Poli. E a rendere indelebile il ricordo di quel testo e di quell’interpretazione pensano le dure, straordinarie parole finali: «Ca la borto miju un ha statu sulu quiddu c´agghiu fattu addù a mammana. La borto chiù grùassu, quiddu c’ha ccisu tutta a vita meja, agghiu fattu a quinnici anni, u jùarnu c’agghiu rimasta ncinta. Ca a sacciu ji a vita c´agghiu fatta. Ji a sacciu. A sacciu ji. Ji a sacciu. A sacciu ji. Sulu ji».
[…] È assolutamente da vedere, perché la Ruina, […] crea spettacoli dove la memoria, l’analisi e l’indignazione diventano profonda indagine artistica e umana. […] Ora con La Borto ritorna al dialetto calabro-lucano, che distacca però dal parlato rendendolo lingua d’arte, fatta di ripetizioni, assonanze, sonorità aspre e dolci che aprono, anche a chi non lo comprende, qualche stanza della memoria. Torna soprattutto a incarnare, senza nessun ammiccamento camp, una povera donna, a ripercorrerne la storia con una gestualità asciutta, empatica, accompagnata dalla musica di Gianfranco De Franco.
[…] Saverio La Ruina, pluripremiato autore e interprete della nuova scena italiana […] nel suo nuovo, accalorato e lucido lavoro, La Borto, in scena per due sere al Verdi di Pordenone […] Il racconto, in stretto calabrese, che la prestazione superba di La Ruina – in pantaloni, maglietta di lana con un semplice merletto a suggerire una femminilità che è soprattutto svelata nel suo mondo interiore e non banale esibizione realistica en travesti – esalta, si inquadra però non in una piatta ricostruzione narrativa, ma in una sorta di confessione-confronto con Gesù. […] È questa intuizione drammaturgica che dà forza teatrale al racconto di La Ruina, il cui portato di senso e necessità fa sì che lo sguardo indagatore, piuttosto che sul versante del ricordo, si sviluppi su quello della ricostruzione d’ambiente. Che si materializza in episodi, anche comici, come quello in cui vediamo (sì proprio vediamo, ché tanta è la capacità evocativa della recitazione di La Ruina) le donne del piccolo paese del Pollino in cui si svolge la storia dar vita a una sorta di aristofanesco sciopero del sesso per evitare gravidanze […] Un monologo di rara intensità, malinconico, rabbioso e doloroso sapientemente contenuto in una sorta di commovente pudore secolare, e anche ironico di quella ironia che è forza di sopravvivenza e riscatto. Applausi meritatissimi, ancora in regione il 28 gennaio a Monfalcone: da non perdere.
[…] Saverio La Ruina incarna di nuovo, con tragicità popolare e umanamente grottesca, nella sua profonda verità, il dolore della solitudine femminile. […]
[…] La Borto può ingannare, dare l’impressione del manierismo, rispetto al precedente Dissonorata. […] Ma i due spettacoli vanno visti correttamente come un dittico, le due parti di un’unica sacra rappresentazione che si interroga sulla forza operante dei simboli di un destino di oppressione della donna in Calabria. Il sentimento religioso, vivo, deluso, deviato, è materialmente intrecciato al sentimento, solo in apparenza opposto della laicità. Dissonorata o l’aborto, sono le due sole strade che può percorrere. Calvari differenti nel tempo, il primo ad effetto immediato, il secondo dopo qualche mese. In qualche modo, introiettandone le emozioni nel proprio corpo maschile, La Ruina compie un’operazione opposta alle incursioni en travesti di Annibale Ruccello, Geppi Gleijeses, Arturo Cirillo, Leopoldo Mastelloni… Quello di mettere in secondo piano la differenza sessuale per riscoprire le altre differenze del corpo, senza mai cessare di punteggiarla con ironiche estraniazioni brechtiane… Dall’altro lato, La Ruina esalta la com-passione, la capacità di sentire insieme, di scoprire le proprie affinità, la propria solidarietà con la protagonista condannata alla solitudine. […]
Il monologare di Saverio La Ruina conferisce voce e straniata presenza a memorabili identità corali: la donna sottomessa, la donna ribelle, il deportato di guerra, l’omosessuale.
Ricordiamo innanzitutto Saverio La Ruina, che figura nel panorama nazionale come un artista che ha fatto precipitare la narrazione nel personaggio, un procedimento non sarebbe stato possibile in assenza di un dialetto dominato e vivo, capace di aggregare dentro sé presenze identitarie.
Le mani accennano piccoli gesti, oppure riposano, stanche, in grembo. La figura è seduta, composta, i piedi nelle pantofole, un paio di calzette colorate a riscaldarli. E la voce, densa e antica, racconta e incatena. […] Si ride, si piange, si sta con infinita pena e altrettanta empatia dalla parte di Vittoria, ascoltando La Ruina illuminare questa vita del margine. Dopo il bellissimo “Dissonorata” l’attore è nuovamente solo in scena in “La Borto”: il suo saper trovare dentro di sè toni, gesti e misure di quest’anima femminile restituisce amplificata l’intensità di questo lavoro, oltre a far balenare una possibilità, che va oltre il teatro e che sembra assai preziosa, di un guardarsi di qualità differente tra donne e uomini.
Ci sono due universi nel teatro di Saverio La Ruina, come dimostra l’emozionante monologo “La borto”. Uno è quello femminile, che l’attore calabrese indaga da anni senza inibizioni ma senza esibizionismi, pur così presenti nel teatro en travesti. L’altro è quello meridionale, inteso come condizione dello spirito, espressione di una condizione antropologica, che unifica il sud del mondo ben oltre il microcosmo del territorio pollinese da cui proviene. E così la sua vocazione di “cuntista” risulta universale, nel tempo e nello spazio, declinata con una lingua bella, arcaica e plastica, un calabrese del nord che raccoglie umori lucani, pugliesi e napoletani, e perciò comprensibilissima. Anche perché nella protagonista Vittoria, che sembra estratta da un Macondo Ionico, ci sono modi e tragedie antiche di donne vesuviane, irpine, sannite. Donne che al settimo figlio, a soli 28 anni, rischiavano la vita sul tavolo di una “mammana” per limitare il senso della propria schiavitù.
Ripetersi senza essere ripetitivi. È una prerogativa di pochi artisti, e nello specifico di quelli che sanno entrare in un mondo restando in ascolto, e con discrezione e sapienza portare alla luce ciò che c’è da raccontare. È ciò che accade con la Borto di Scena Verticale, ultimo lavoro di Saverio La Ruina, che torna a dare voce a un personaggio femminile del sud. […] Forte è l’eco del precedente lavoro, Dissonorata, ma soprattutto in quanto conferma del fatto che l’autore è sceso a una profondità tale nell’osservazione di questo territorio dell’animo femminile da non poter essere contenuta in un singolo spettacolo. […] a dare corpo allo spettacolo è l’interpretazione, ancora una volta straordinaria, di La Ruina. E non si tratta soltanto dell’uso ipnotico del dialetto, che senza enfasi riesce a trascinare lo spettatore nella storia grazie, più che alle parole, alla loro sonorità. È la grazia che guida i suoi gesti, le piccole movenze, gli sguardi, a far sì che di questo spettacolo ciò che ci rimane addosso, una volta usciti dalla sala, sia un’estrema dolcezza.
Quando si torna con la memoria a “Dissonorata”, il monologo che nel 2007 valse al calabrese Saverio La Ruina due Premi Ubu come migliore attore protagonista e per la novità drammaturgica italiana, su quel piccolo palcoscenico sembra di rivedere vecchi muri a secco su strade sterrate e case di campagna bruciate dal sole e imbrattate di indifferenza. Come se quella sera sia passata in rassegna, in penombra, un’intera umanità derelitta e arresa a una misera esistenza. E invece lì, di fronte a noi, c’era soltanto una vecchina che raccontava la sua vicenda “qualunque” acquattata su una seggiola di vimini. Adesso quel “miracolo” si rinnova con un altro assolo toccante e stemperato da sapiente ironia: “La Borto”. Qui La Ruina, autore e interprete, lasciandosi a tratti magistralmente “possedere” dal personaggio, ci racconta nel suadente dialetto di Castrovillari la storia di una dolente donna senza età: Pur restando fermo sulla sedia, La Ruina riesce a “danzare” con mani e braccia, mimando una indicibile afflizione, mentre i fiati e le corde delle melodie, eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco (sempre di spalle), ricreano gli echi di una provincia dimenticata.
[…] La sua vocina sottile ed efficace arrota le parole nel dialetto calabrese di Castrovillari, le sussurra a volte con toni farneticanti e visionari, pronto a riprendere il filo del discorso con ironia e con un’arte affabulatoria che cattura il pubblico ipnotizzandolo. […] Spettacolo emozionante, sconvolgente, da cui si esce in certo modo colpevoli ma più responsabili. Alla fine applausi calorosi che sembravano non finire mai.
Dopo il successo di Dissonorata, l’attore-regista di Scena Verticale torna con La Borto ad “indossare” il personaggio di una donna del suo sud raccontando un’altra storia di violazione e di saccheggio del corpo e dell’anima femminili sullo sfondo di un meridione inveterato. Quasi una variazione su tema ma giocata (e vinta) grazie alla capacità poetica di un grande interprete. […] Musica. L’intraducibilità di certe opere, che sono altro senza la presenza intima della voce cui quella storia appartiene. Tale è questo nuovo lavoro di Scena Verticale, dal titolo La Borto, che vuole di nuovo in scena Saverio La Ruina con la sua regia e le luci di Dario De Luca, dico di nuovo perché un antecedente celebre e premiatissimo di sicuro ne è alle fondamenta, il loro lavoro del 2006 dal titolo Dissonorata. La storia è di forte impatto emotivo, ed è facile anche dal titolo trarne spunto. Una ragazza costretta alla gravidanza, sei volte in sette anni, a partire dai tredici in cui prende marito. Una storia affascinante di cui forse sfuggono alcuni passaggi testuali, ma che proprio grazie alla musicalità della narrazione di La Ruina torna comprensibile, partecipata. La sua interpretazione è eccellente, stringe assieme il cuore e la pancia ammantando di una sensazione non pacificata l’intero corso narrativo, lasciando sempre il filo teso tra le parole e il loro significato. Il testo ha dei lampi di ironia più potenti di allora, è uno sguardo più a fondo che svela contraddizioni di vario livello, senza mai tradire la rara qualità melodica del dialetto e cogliendo un ottimo equilibrio dolceamaro. […] Dopo Dissonorata […] ancora una piccola grande donna passata attraverso il filtro di un attore straordinario. […] C’è un richiamo così forte a quel lavoro precedente che quasi non si riesce a parlarne se non – per chi l’ha visto – ad esso riferirsi. È qui che sono costretto a dire rischioso il terreno di gioco, perché un azzardo è lo stesso gioco. Ripetere una formula è mostrare il fianco all’accusa di piaggeria verso sé stessi, va modulato ed è una difficoltà che spesso si corre il rischio non paghi in termini di consenso. Che pure sarebbe il giusto tributo a questa compagnia di livello eccelso. Tuttavia, quando entra in scena, nel testo, “la borto”, una piccola stasi fa da ingresso, un tocco lieve sulle luci tira dentro i nostri sguardi, la voce si fa assieme dura e dolente. La Ruina «indossa» letteralmente questo personaggio femminile con una dolcezza di grande impatto emotivo, sensibilmente trova uno spazio dentro il nostro, di cuore, chiudendo con una mano, di taglio, a tenere forte il suo.
Un’occasione da non perdere per il pubblico milanese è l’opportunità di una musica che, dalle loro parti, passa con difficoltà: al Crt c’è un grandissimo ritorno, dopo il successo straordinario di Dissonorata, che gli è valso il premio Ubu 2007, Saverio La Ruina torna con La Borto […] Con straordinaria efficacia evocativa, il dialetto stretto calabrese e la grande presenza scenica di La Ruina offrono uno spettacolo davvero di grande spessore […]
La donna con la sua veste candida, le mani giunte, sta in fronte al pubblico. E’ una confessione “la Borto”, di e con uno smagliante Saverio La Ruina, che non ha paura del giudizio della gente, tanto meno di quello di Dio. L’uomo, il musicista Gianfranco De Franco, rimane un passo indietro, in nero, per giunta di spalle, con gli occhi bassi, come messo in punizione dalla Storia, in castigo dietro la lavagna. Non ha il coraggio di affrontare gli sguardi. Quest’uomo è l’ombra della donna, è il suo alter ego minaccioso, colui che sa soltanto dire “arrangiati” e che lascia, abbandona meglio, la donna al proprio destino biblico, a quel “partorirai con dolore” che condanna la donna a donare la vita. […] Voto 8
Ciò che la scrittura di Saverio La Ruina possiede è la capacità di stratificarsi nei significati attraversando a più riprese, come un telaio sul quale intessere i fili di una storia, la cultura arcaica del Sud, il dialetto calabro – lucano del Monte Pollino (del quale egli (e)segue ritmo, musicalità, battute sincopate, pause di silenzio), i rimandi antropologici, i cenni storico – sociali, con una valenza dialettica in cui ogni parola o frase agisce da detonatore per quella successiva pur non rinnegando mai la precedente. […]
[…] Grande assente di tutti i drammi narrati è l’uomo (inteso come maschio): il nero che avvolge la protagonista racconta proprio di questa solitudine totale e sofferta. Ma in scena vi è lui, La Ruina, un uomo: la forza dell’operazione sta proprio nel coraggio e nell’intelligenza di farsi voce e corpo di un’accusa mossa ai suoi simili. Con una prova attoriale soppesata nei minimi dettagli, lo straordinario interprete riesce a restituire la vigorosa fragilità della femminilità: delicata e fiera, coraggiosa e remissiva, ironica e affranta. Anche grazie all’uso del dialetto, di quella parlata viscerale e poetica della sua Calabria che rende il racconto ancora più intimo e sincero, La Ruina compone uno spartito di parole che, insieme alle esili, eclettiche ed efficaci musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco – di schiena al pubblico e al suo compagno di palco proprio per non scardinare la solitudine del racconto – cullano con dolcezza il pubblico trafiggendogli il cuore. la Borto diviene così una denuncia sommessa e potentissima di una società incancrenita da pregiudizi fomentati da sermoni distorti e medievali convinzioni, che riducono le donne a un’appendice degli uomini, ad un ruolo marginale e perennemente violentato della loro stessa esistenza. Un esame di coscienza che La Ruina, in quanto uomo e quindi potenziale carnefice, delinea vestendo con umiltà ed onestà i panni di una donna, alla ricerca di un’umanità che, trasalendo le distinzioni di genere, sia finalmente degna di questo nome.
[…] Diciassette spettacoli per otto prime nazionali non sono pochi se si pensa che Primavera dei Teatri si è svolto dal 30 maggio al 5 giugno: un fitto calendario di appuntamenti che hanno sorpreso per qualità e tematiche impegnate trattate, con una grande attenzione alla drammaturgia come poco in Italia oggi si può trovare. […] Il Tamburo di Kattrin, dopo aver fatto da giornale di bordo con recensioni, presentazioni, video interviste e approfondimenti e aver visto tutti gli spettacoli proposti nel Protoconvento di Castrovillari, ha deciso di fare delle segnalazioni speciali a delle pièce che hanno più colpito la nostra redazione. […] Come miglior spettacolo, infine, indichiamo La Borto di Saverio La Ruina: per la sua profondità, per il suo toccare l’anima e stritolarla, lasciando il pubblico carico di emozioni perfettamente visibili all’uscita dello spettacolo.
[…] Per entrare nel corpo, nell’anima e nella mente di una donna, Saverio La Ruina non ha bisogno di trucchi e di travestimenti. L’attore, regista, drammaturgo calabrese si concentra con una sensibilità così delicata e solidale sulla condizione delle donne da identificarsi con loro alla perfezione senza assumerne gesti, tratti, registri vocali di genere. E soprattutto appare sorprendente quando si accosta con affettuoso rispetto alle donne dell’Italia meridionale, dove si impongono ancora l’oppressione e il dominio maschili. […] Il monologo, recitato dall’attore seduto su una vecchia sedia, abbraccia l’elemento tragico, ma anche comico di una vicenda dai confini ristretti, che però attraversa in fondo tutto il Novecento. Gli accenti del racconto sono pacati, a volte vellutati, ma nel suo flusso vibra un’energia solida grazie al talento dell’attore e al dialetto calabrese che qui ha una sua potenza e un’espressività che la lingua nazionale forse non potrebbe esprimere. […]
Pare un po’ una confessione, un po’ una preghiera. Forse è una visione. Di certo è un raccomto, semplice ma devastante, di una vita tribolata, negata. Forse alla fine redenta. […] A “diventare” Vittoria, a darle la sua voce, ad entrre nel suo corpo col ventre gonfio, e poi svuotato, è stato un uomo. Un attore di straordinaria sensibilità: Saverio La Ruina, protagonista domenica della rassegna proposta al teatro Verdi di Fiorenzuola […] La lingua calabrese rende il racconto credibile, concreto, vero. [..] In scena con La Ruina, il musicista Gianfranco De Franco, che si accorda al racconto con dolenti note, battiti, silenzi, fiati, respiri. Straordinario anche lui, in questo racconto che pare una preghiera. Alla fine viene da farsi il segno della croce e invocare Dio, perché perdoni gli uomini che non sanno quello che fanno.
<Cristo si è fermato a Eboli> scriveva Carlo Levi; certo, ma neppure in Calabria è arrivato, se non in sogno a Vittoria, archetipo della donna del Sud, che racconta a un Gesù corrucciato e ai suoi Apostoli pure arrabbiati il suo “tradimento”, ovvero quel peccato nascosto nel fondo dell’anima di tante donne. Tutto ciò avviene ne “la Borto”, il testo scritto e interpretato da un sorprendente e applauditissimo Saverio La Ruina, per due sere nella sala prove del Teatro Comunale di Pordenone. […] è tutto l’universo femminile del Sud a prendere vita, a gridare la sua pena e rabbia per uno stato di sottomissione e emarginazione che forse non è cambiato molto. […] La Ruina intermezza il suo terribile racconto con momenti ironici […] per concludere con il viso di Cristo che si apre a quella “pietas” che è comprensione e amore vero.
[…] uno spettacolo particolarissimo […] alterna della fasi molto divertenti a dei momenti tragicissimi, direi struggenti […] Un testo struggente, molto tragico, che denuncia la piaga degli aborti clandestini […] Un testo scritto per tutte le donne […]
[…] Saverio La Ruina dimostra come bastano voce, corpo, tono. […] Anima, la narrazione, di una drammaturgia minuziosa, di altissima valenza teatrale, la parola recitata tramutata in partitura scenica. […].Dalla prima all’ultima battuta, per quasi due ore di spettacolo, l’attore La Ruina mette la pelle del personaggio che figura, una donna, un’anziana donna di paese, soggetto di un contesto meridionale rintracciabile in una dimensione più universale, più comune, più macrocosmica, de-localizzata. […] Una dialettica che detta ritmo, azione, temporalità, immagine. Scene vivificate immaterialmente, ordinate in sequenze non immediatamente successive l’una all’altra, scomposte e ridisegnate, piuttosto, tramite artifici affabulativi. Ricamate dalle composizioni sonore di Gianfranco De Franco, in spalle poco dietro al proscenio sinistro: il suono dell’interiore, dell’intimo, tutt’altro che tappeti sonori. Il colore delle parole e delle immagini lasciate intravedere. […] A scena nuda, senza sipario né quinte, né entrate e uscite di scena. Una sedia, un corpo, una voce, un attore, un musicista. Emozione. Pura.
[…] “Dissonorata”, “la Borto” e “Polvere (dialogo tra uomo e donna)”[…]un crescendo di emozioni rossiniano, in cui le capacità di La Ruina, di modulare corpo e voce, hanno messo a nudo la forza, le difficoltà e le paure delle donne: ieri come oggi, nella Calabria più primitiva così come in una moderna metropoli, vittime coraggiose del morboso bisogno maschile ed ancestrale di averne il controllo […] In tutti e tre i casi è lo sguardo del drammaturgo sul mondo femminile che viene proposto cristallino, invadente ed emozionante. Tanto invadente che Saverio La Ruina non sceglie di guardare ognuna delle protagoniste dall’esterno, come fosse il narratore onnisciente di un romanzo ottocentesco, ma diventa lui stesso ognuna di loro esprimendosi con la loro voce, con le loro sensazioni, con le loro forze e debolezze. Una immedesimazione che parte dalla scrittura, per tutti e tre i testi, e che diventa totale quando l’artista si presenta davanti al pubblico su di una sedia, unico elemento scenico, indossando gli abiti e le anime delle protagoniste, come in Dissonorata e la Borto. […] Saverio La Ruina, in questo complesso processo di analisi, non sbaglia un colpo a partire dalla gestione del corpo: nessun movimento e nessuna espressione risultano mai fuori posto anche laddove la tentazione di cedere alla retorica e al sentimentalismo si fa pressante. Il linguaggio stesso, significativo nella sua caratterizzazione territoriale inequivocabile, è tanto importante nella forma quanto talvolta si fa quasi superfluo nel contenuto. Bastano infatti gli sguardi, le movenze delle mani e il tono della voce a squarciare il velo dell’indifferenza per assistere alla cruda realtà dei fatti[…] Mai nulla nel trittico a cui abbiamo assistito è apparso stonato ed evidente è il lavoro di cura e affinamento che hanno preceduto la scrittura di ognuno dei tre testi, a partire dall’esperienza con i centri antiviolenza per raccogliere testimonianze e confessioni. La drammaturgia impietosamente vera di Saverio La Ruina diventa pertanto un’autentica forma di Verismo contemporaneo […] in questo lungo percorso, compiuto quasi completamente in solitaria, spicca, oltre alle suggestioni delle musiche di De Franco, l’interpretazione sommessa ed efficace di Cecilia Foti in Polvere. […] Anche in questo caso una prestazione fatta di una gestualità attenta, che non sfiora mai la caricatura, nel rispetto del profondo dissidio interiore che la protagonista sta vivendo e subendo.[…] Chiunque possa pensare che quello proposto al Magnolfi sia un trittico riservato ad un pubblico esclusivamente femminile, compie un grosso sbaglio. Saverio La Ruina, infatti, sfrutta le storie di tre donne, eroine a loro modo, per smascherare quanto ancora manca all’evoluzione del pensiero maschile per poter raggiungere quello stesso livello di forza e dignità. Se le spettatrici escono dalla sala con la rabbia dell’ingiustizia che sono storicamente costrette a subire, ogni spettatore ne esce denudato, impoverito di tante certezze e arricchito di indignazione verso il proprio essere tanto da vergognarsi a guardare negli occhi le donne alla riaccensione delle luci in platea. Ogni emozione ed ogni sensazione instillano un desiderio di rivalsa e di cambiamento che rendono il teatro di Saverio La Ruina un potente mezzo di introspezione personale e collettiva, fine ultimo di quello che noi intendiamo il Teatro.
22 Giugno ultima recita dello spettacolo La Borto di Scena Verticale al Festival delle colline torinesi; serata sold out con molte persone sedute sui gradini della sala. Molte donne. Il coraggio e la sapienza teatrale di Saverio La Ruina hanno fatto sì che riuscisse nella difficilissima operazione di riproporre, dopo il doppio premio ubu per dissonorata, uno spettacolo che ricalca una stessa struttura scenica: un monologo di una donna del sud interpretato da un attore con in scena un musicista. Monologo in dialetto calabrese di musicale bellezza. […] Stessa struttura, dicevamo, e due spettacoli diversissimi, due personaggi diversi e ugualmente potenti recitati da un attore bravo come pochi oggi in Italia. Il rischio, altissimo, di ripetere qualcosa di già fatto viene superato grazie al fatto che la storia è di una potenza pari a quella di Dissonorata e la struttura drammaturgica riesce a dosare saggiamente i tempi e i modi in cui lo spettatore viene affascinato dalla storia, reso partecipe, fino al punto di provare dolore. Questo è quello che mi è successo. Sentirmi preso in una morsa teatrale d’antica sapienza grazie alla quale è possibile – le rare volte che accade oggi a teatro – provare empatia con il personaggio (o con l’attore/il dramma/ gli affetti della musica etc etc etc) e sviluppare un pensiero critico (fondato su un affetto vero) su ciò che è il senso dello spettacolo che si sta vedendo/ascoltando.
[…] Da attore sensibile e attento qual è, La Ruina, accompagnato da un bravissimo Gianfranco De Franco che si destreggia tra più strumenti a fiato, offre un sentito omaggio all’umanità del personaggio che interpreta magistralmente, offrendone in pochi e semplicissimi dettagli un quadro psicologico e storico nitido e pungente. Anche nei passaggi più crudi la narrazione è talmente dolce e partecipata da scorrere fluida, potente e femminile verso il suo centro: la denuncia ed il riscatto da un silenzio carico di violenza che ancora oggi non è sconfitto.
[…] Un calvario, quello della protagonista, sapientemente interpretato da Saverio La Ruina, che riesce a dare corpo, soprattutto attraverso l’utilizzo di un dialetto musicale ed espressivo della zona calabro-lucana, ad un percorso di sofferenza che si fa metafora ed emblema di una femminilità offesa non solo in un distante e sconosciuto Meridione d’Italia. Così, la vicenda di Vittoria viene narrata in prima persona attraverso un lungo e ipnotico monologo […] Ma è soprattutto l’incarnazione di una femminilità tutta interiore all’attore che La Ruina riesce a far emergere per affidarle il compito di identificarci nella protagonista. Grazie a una partitura scenica fatta di pochi gesti e posture significative, alcuni curiosi dettagli (le calze azzurre su un paio di ciabatte) e ad una dolcissima tonalità espressiva ricca di poetici intercalari, riesce a materializzare un’indimenticabile figura, semplice e ingenua, che con candore e leggerezza ci mette davanti agli occhi le atrocità di cui è vittima […] Si sorride amaramente e ci si commuove con sofferta partecipazione davanti agli episodi che costellano il travaglio di Vittoria. E si esce da teatro consapevoli di aver condiviso il racconto di una voce che, proprio perché non ha affermato il proprio riscatto col furore di un grido ma con la sommessa tonalità di un flebile canto, rimarrà più a lungo nel cuore di noi spettatori. Testimoni impotenti, come Gesù, del destino di una tra le tante vittime del mondo. Ma abbagliati dalla bellezza di uno spettacolo intenso e privo di retorica.
[…] In un’epoca in cui sta spopolando, in letteratura come al cinema, il fenomeno dell’autofiction, la conclusione alla quale sono giunta è la seguente: il narratore perfetto è colui che, pur attingendo alla propria esperienza, più o meno diretta, è in grado di raccontare una storia che sia di tutti, una storia in cui ognuno di noi riesca a trovare elementi in comune con la propria vita, la propria epoca, la propria civiltà. Ecco, secondo questa teoria, Saverio La Ruina è il narratore perfetto: Dissonorata e La borto sono infatti due monologhi interpretati da un uomo che parla in prima persona, da donna, di problemi prettamente femminili, eppure sono tremendamente credibili. […] le donne che rivivono in La borto, schiave di padri-padroni in grado di decidere del loro futuro vendendole – ancora bambine – al miglior offerente intenzionato a sposarle, sperano di emanciparsi dalla propria famiglia di origine. […] Ed ecco che La Ruina, seduto al centro del palco, con indosso una veste che avrebbe potuto portare mia nonna, con quel calore e quella determinazione che lo rendono l’acclamato attore e regista che il mondo teatrale italiano conosce, è in grado di parlarmi di meridione, dell’Italia e del mondo, di ignoranza, di arretratezza, di inciviltà, di violenza sulla donna e non solo, di diritto alla vita, alla maternità, alla felicità, tutte questioni purtroppo ancora calde ai giorni nostri.
[…] E’ una storia tremenda quella de «La Borto», messa in scena con grande successo di pubblico l’altra sera all’Odeon di Lumezzane da Saverio La Ruina. […] Non ha bisogno di travestimenti verosimili Saverio La Ruina. Gli bastano due ciabattine ai piedi, una maglietta di lana. Le sue mani che aggiustano la stoffa e lisciano le ginocchia restituiscono il bruciore di un’umiliazione e un antico pudore. Il corpo allude ai tormenti, ma è la voce-orchestra che ricorre alla comunicazione diretta dell’io, della prima persona, e cava fuori lo strazio infinito di una donna forzata della maternità. Seduto sulla sedia, Saverio La Ruina interpreta anima e corpo il suo teatro al femminile con una forza di verità che atterra e sconsola. Il tono sommesso della sua voce, che si colora di amara ironia, l’impasto del suo dialetto calabrese durissimo, sanno toccare profondità intense. Accanto a lui c’è la prova magistrale del musicista Gianfranco De Franco con i suoi strumenti a fiato che emanano suoni graffianti e sofferenti. Non a caso dà le spalle alla platea, immerso in un buio che fa il paro ala solitudine oscura della protagonista. Applausi commossi e sinceri.
Sulle note di Gianfranco De Franco, l’occhio di bue illumina il corpo dimesso di Saverio – Vittoria, coperto da una canottiera slabbrata di lanetta che è già un condensato di grazia e poesia. […] Secondo un registro drammaturgico che coniuga mirabilmente realismo e audace slancio visionario, il corpo e la voce di Saverio La Ruina danno vita ad una storia che tocca le corde più profonde dell’anima. Il pubblico, di romani soprattutto, è rapito dall’inizio alla fine. Nemmeno la lingua, un calabrese ibrido e denso di potenzialità evocative, costituisce un argine alla partecipazione emotiva degli spettatori, traghettati con pudore e maestria lungo una storia drammatica, che tuttavia concede anche momenti di irrefrenabile ilarità. […] La bravura di Saverio strappa al pubblico un applauso scrosciante che non vuole finire. Usciamo dalla sala con le lacrime agli occhi, e, in silenzio, aspettiamo l’attore per congratularci con lui. Quando esce, Saverio viene raggiunto da una donna molto bella, che è evidentemente impaziente di parlare con lui. È Dacia Maraini, la scrittrice italiana più letta e tradotta all’estero, da sempre attenta alle questioni di genere. […] Usciamo dal teatro. La serata è mite, dolce. Lasciandoci alle spalle gli ex stabilimenti della Mira Lanza, ci dirigiamo verso il Gazometro. la Borto. Dovrebbero vederlo tutti.
Se la storia descritta trascende spazio e tempo, diventando paradigmatica di un vissuto che accomuna tante donne, nelle loro solitudini; se il teatro di narrazione non si ferma al racconto, ma è teatro, è coinvolgimento, parla con gli occhi, con la fisicità dell’attore; se il linguaggio, pur essendo dialettale, anzi, proprio attraverso il dialetto, valica i confini di ogni idioma, diventando musicalità universale che delinea il racconto stesso, che lo indirizza con le sue cadenze, i suoi toni differenti, verso l’ironia, l’umorismo, il dolore e la tragicità; ebbene, se uno spettacolo riesce ad essere tutto questo, come “la Borto”, portato in scena da Saverio La Ruina, il teatro dimostra di sapere ancora essere quell’arte unica che emoziona, che supera confini, anche quelli tra attore e spettatore, che mostra la sua essenza tra riflessione, riso e pianto. […] La Ruina non racconta semplicemente: trasporta lo spettatore, lo coinvolge con quel linguaggio che diventa musicalità, fondendosi con le note prodotte in scena da Gianfranco De Franco; lo trasporta attraverso sentimenti, oltre che storie, attraverso immagini che le storie riescono a creare; lo trasporta grazie ad una interpretazione reale, intensa, che riflette condizioni, stati d’animo mai artificiosi, trovando una grande misura che trasmette verità. E alla fine […] la sensazione che si prova è quella di un teatro che sa ancora essere vivo.
[…] Saverio La Ruina continua a dar corpo e voce alla femminilità oltraggiata e abusata della sua Calabria atavica. Lo fa con sorprendente sapienza interpretativa e senza scivolare mai nell’eccesso melodrammatico che incombe sulle storie che va raccontando. Le modalità registiche e formali di La borto non sono dissimili da quelli del primo fortunato spettacolo, ma l’intensità della performance è ancora più coinvolgente. […] La Ruina non nasconde la sua identità maschile, eppure, quando la luce dà volume al suo corpo scenico incorniciato dal buio, lui è un tutt’uno con il suo personaggio femminile. Più che interpretarlo, lo incarna. […] La forza è nella gestualità, negli sguardi, nei sospiri, nei sorrisi trattenuti, dalle parole non dette e da quelle pronunciate con imbarazzo. Tanti piccoli, quasi impercettibili, movimenti capaci di dischiudere la complessità di una vita che è unica ed emblematica allo stesso tempo. […] C’è una musicalità ipnotica in questo monologo in cui si ode il coro di altre voci femminili. Senza enfasi alcuna, e con la sola flessibilità timbrica della voce, il palcoscenico spoglio si popola di figure evocate ma non per questo meno presenti. Nella voce di Vittoria c’è una comunità intera e quegli uomini che le misuravano le forme con gli occhi, sembra davvero di vederli, attraverso le sue parole. […] La solitudine è comunque senza scampo e le chiacchiere che la donna scambia con Gesù raggiungono vette di intenso lirismo. […] Ma quel che più colpisce è il rigore formale e la compostezza della rappresentazione, sostenuta da un testo denso ed essenziale. Non ci sono grida, ma sussurri e il tutto arriva al cuore, nonostante l’ostacolo del dialetto, grazie ad una interpretazione che scavalca le parole.
I suoi spettacoli sono orazioni civili. Nel teatro di Saverio La Ruina convivono storia e poesia. […] La recitazione di La Ruina è un urlo disperato, una ferita aperta, un canto poetico.
Saverio La Ruina in ‘La Borto’ all’Archivolto. La straordinaria trasformazione dell’attore in una donna calabrese si racconta. In un dialetto stretto, marcato da tipici vocalizzi di parlata popolare veniamo rapiti da una misera esistenza. […] La Ruina, con quel suo tono basso, la parlata pacata ci costringe ad un ascolto voyeuristico: siamo messi a parte di un’intima confessione che, mai e poi mai, simile donna oserebbe pronunciare ad alta voce. […] Con grande ironia, La Ruina sfrutta le potenzialità del linguaggio (suo il testo) per produrre sofisticate immagini che raccontino quel cieco e ottuso maschilismo, oppressivo e omertoso. […] Si prova gratitudine verso questa versione di Marianna Ucrìa per il palcoscenico, come donne. Si prova gratitudine per la capacità di entrare nel dolore di essere bambine guardate e spogliate e quindi oggetto di violenza maschile, di abuso, di tormento psicologico prima che donne. […] Accanto a La Ruina, sul palco, di schiena Gianfranco De Franco con il sax e alcuni altri strumenti, produce musiche (originali) straordinarie nel dare spessore alle immagini del testo. […] Una piccola storia epica dal valore universale che un uomo ci regala come un cameo da custodire a memoria, per non scordarci mai quanto male si è consumato in questo corpo di donna: ieri oggi domani ancora preda invece che parte di una persona intera, da riconoscere come tale.
[…] migliori esempi di teatro di narrazione contemporaneo, dal Vajont a Ustica di Marco Paolini, da Olivetti a Mattei di Laura Curino, fino alla preziosa drammaturgia di Saverio La Ruina dove donne e uomini ignoti della nostra Italia vanno in scena nelle loro lingue e storie, tutt’altro che eroiche (Dissonorata, La Borto, Italianesi).
Saverio La Ruina, […] è diventato uno dei protagonisti del nuovo teatro italiano, grazie allo straordinario “Dissonorata”, con cui nel 2007 vinse due Ubu come miglior attore e autore. […] L’attore di Castrovillari è tornato con un nuovo monologo, “La borto” […] Al centro ancora una donna-vittima, Vittoria, interpretata da La Ruina senza forzature né caricature, seduto su una sedia, vestito con abiti maschili (a parte le ciabatte da donna e le calze azzurre), giocando tutto sui gesti essenziali, sugli sguardi e sulle parole che ancora una volta sono quelle aspre ma allo stesso musicali del dialetto calabro-lucano. […] La Ruina propone una nuova eccezionale performance, raccontando un passato di sopraffazioni maschili che purtroppo, come mostrano le cronache, non vuole passare.
La borto, come Dissonorata, con cui costituisce un ideale dittico, è un affare di donne. […] I due spettacoli fanno respirare il profumo dell’aspra Calabria, delle donne calabresi tutte vestite di nero, ma raccontano una realtà universale, che si perpetua in tanti posti, in tante situazioni. […] Il teatro di narrazione ci ha abituati ai racconti autobiografici, in prima persona. Saverio La Ruina però mescola le carte in tavola, enunciando una storia in prima persona che non può essere autobiografica. Non c’è bisogno di costumi e di trucchi anche se un uomo interpreta la parte di una donna. E’ la magia del teatro a creare la sospensione dell’incredulità. E allo stesso tempo, il pubblico continua a vedere un uomo in scena, che da voce alla vittima del genere maschile: è vittima e carnefice allo stesso tempo. La borto si svolge nel fluire della narrazione, che sembra farsi da sola, tanto è spontanea e verista. […] E’ uno spettacolo di grandissima intensità che funziona con pochissimi elementi. Un attore seduto per quasi tutto il tempo, si alza solo una volta; qualche minimo cambiamento di luce; e un accompagnamento musicale, di Gianfranco Di Franco, estremamente discreto, appena percettibile. Eppure una messa in scena dalla grande forza evocatrice e che sprigiona una grande energia. Questa è la quintessenza, e la magia, del teatro.
La delicatezza e la misura rara di chi il teatro lo sfiora e accarezza, con riverenza, quasi fosse un bambino. Regala gioia e insegna umiltà, dentro e fuori dal palco, Saverio La Ruina, regista e attore pluripremiato, tra i più interessanti del nostro teatro contemporaneo, formidabile interprete del suo ultimo lavoro La Borto, capace di portare in scena ancora, dopo Dissonorata, la storia di una donna del Sud in lotta con una società maschilista dominata dall’egoismo e dalla sopraffazione. Seduto su una sedia e accompagnato dagli strumenti a fiato di Gianfranco De Franco, racconta la vita di Vittoria, donna simbolo di un universo femminile solo e offeso, impotente nel dolore di una scelta straziante. Costringendo l’uomo a rimanere sulla scena, nutrendosi di gesti e di un duro dialetto calabrese, La Ruina porta in scena un’ora di racconto delicato, ironico, ma atroce. E lo spettatore non dimentica, neanche a volerlo.
Di grande impatto e dai mille riferimenti a fatti, costumi, arretratezze di ieri e di oggi. Ci riferiamo all’intenso atto unico, di e con Saverio La Ruina, “La Borto” […] una pagina sofferta di storia che fa emergere, ieri quanto oggi, l’ignoranza e l’oppressione, il valore della vita ed il dibattito sulla procreazione, attraverso una accurata indagine artistica e umana. […] Saverio La Ruina si ripete con un altro lavoro di grande valenza culturale ed una interpretazione di sicuro affidamento che riscuote i consensi anche dal pubblico di Catania.
Sulla scena non c’è che una sedia e in un angolo, di spalle, il musicista Gianfranco De Franco. Tutto il resto prende forma dinanzi agli occhi degli spettatori attraverso la straordinaria capacità espressiva e narrativa dell’attore che, seduto, interpreta Vittoria, una donna popolana del sud Italia. La sedia sparisce così come il musicista e il racconto prende vita. […] Una storia di una semplicità e una dolcezza disarmanti, raccontata con toni delicati, e che in maniera lieve tocca le coscienze. È straordinario come in Vittoria si riconosca l’universo femminile; ancor più straordinario è il fatto che chi interpreta e ha scritto il testo sia invece un uomo. Il dialetto, usato quasi come fosse una lingua poetica, diventa forma espressiva; e infatti La Ruina con il solo ausilio del disegno luci di Dario De Luca e della musica di Gianfranco De Franco rimanda costantemente dallo sguardo al gesto, dalla voce all’immagine, e fa sorridere, trascina, commuove. Un lavoro difficile e coraggioso anche perché nasce dopo il successo di Dissonorata, con cui Saverio La Ruina vinse il premio Ubu come miglior testo e miglior attore, ma che riesce ancora una volta a muovere lo stupore. Frutto anche di un’attenta ricerca linguistico-espressiva La Ruina acquista una tale consapevolezza del tema trattato da non rendere il testo mai banale o superficiale e in cui ogni singola parola ha un suo peso e una sua profonda ragione.
Al Teatro Franco Parenti una voce di uomo si presta al racconto di una donna, con infinita delicatezza e rispetto. […] L’universo che ci presenta Saverio La Ruina è quello di una società patriarcale, dove la sopraffazione nei confronti della donna è per il maschio la normalità. La bravura dell’attore sta nel confondersi e fondersi con la protagonista, fino a creare una figura che è insieme uomo, donna, a volte qualcosa a metà tra i due. Ma La Ruina non scade mai in voci in falsetto, non fa la parodia della donna – con maestria e mestiere lascia che i due sessi parlino tra loro. […] Con una delicatezza incredibile, Saverio La Ruina ci regala l’immagine di una donna molto diversa dalle apparenze: Vittoria è forte e mai e poi mai si lascerebbe andare alla disperazione. Al contrario, conserva sempre la dignità che la contraddistingue. Perfino di fronte al giudizio di Gesù – che la giudica indegna di essere accolta in Paradiso – difende la propria vita. Si torna a casa con un gran nodo allo stomaco, ma anche con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico ed estremamente toccante.
[….]abbiamo avuto la fortuna e l’onore di imbatterci nel teatro di Saverio La Ruina: indispensabile [… ] Nella sua profondità, nella capacità d’immersione tra i meandri più occulti e sconfinati delle paure e delle verità tenute per secoli a freno e sotto spirito, Saverio La Ruina estrae, come un solo un lungimirante ma infaticabile cercatore d’oro sa fare, l’essenza della materia, quella che viene asetticamente tramandata da generazioni e che ha trovato, nel suo teatro, un attento, rigoroso e tenerissimo interprete […] La comunione dei suoi testi diventa guida e materiale importantissimo per cercare di capire la storia frammentata di questo paese: le sue contraddizioni, espresse e inespresse, la sua tacita sottomissione a leggi non scritte, ma tramandate con il piglio e la fermezza che solo un poeta avrebbe potuto scalfire, mettere in discussione e condannare. Sono proclami di profonda scorrettezza politica, manuali di pronta e irrimandabile insurrezione, i testi di Saverio La Ruina, raccontati però con il tepore che si addice a un contesto familiare […] Saverio La Ruina […] rende alla sua Calabria e alla sua ribellione i galloni di un comandante che ha deciso di non impartire ordini, ma sussurrarli; forse perché fioco, forse perché è così che si fa a teatro.
[…] “La borto” di e con Saverio La Ruina […] è “spettacolo” titanico e inchiodante. Primigenio e moderno, maestoso e atemporale. Come antichissimo e contemporaneo è già quel consorzio umano (noi, in platea) che si raduna, muto, attorno all’uomo e al “cunto” consumato seduto su una seggiola, con ferma, rabbiosa pacatezza di toni che opprime il cuore e lo libera a un tempo. Affiancato e spalleggiato (nell’accezione più fisica del termine giacché il musicista è assiso senza mai guardare la platea) dai sax “parlanti” di Gianfranco De Franco, La Ruina è quintessenza di “teatron”, punto d’osservazione e discussione sull’esistenza in cui – alla maniera dei Greci o degli elisabettiani e non solo – poco importa che colui che “agisce” sia attore o attrice.
[…] La recitazione di Saverio La Ruina, l’unico attore sul palco (anche autore del testo) ha un tono dimesso, mai sopra le righe, l’utilizzo del microfono permette di cogliere anche le frasi sussurrate, dette con solo un filo di voce. La scelta di utilizzare il dialetto calabrese non deve spaventare: ci sentiamo di garantire innanzitutto che la lingua non compromette la comprensione dello spettacolo; aiuta in questo senso la modalità di recitazione che scandisce le parole al fondo della frase e che ricorre all’utilizzo di formule per ripetere i passaggi più importanti del discorso. Il dialetto anzi arricchisce l’opera permettendo sfumature di significato altrimenti impossibili da ottenere. Lo spettatore (sempre se ben predisposto!) affascinato dalla musicalità della lingua, riesce facilmente ad abbandonarsi alle parole e alle immagini che quelle parole evocano; la scelta di avvicinare il più possibile gli spettatori al palco, va a nostro parere nella stessa direzione. L’attenzione è tenuta alta anche dalla varietà di toni che vengono utilizzati, non mancano parti decisamente comiche alternate a quelle più drammatiche. […] Ne esce un’opera equilibrata ed affascinante, molto semplice nella sua costruzione, ma in grado di far riflettere con efficacia su di un tema quantomai delicato, mettendo in risalto, per contrasto, tutta la superficialità e l’inutile clamore con cui il tema viene affrontato nei dibattiti di oggi.
Uno spettacolo straordinario. Ero partito preparato all’idea di trovarmi di fronte ad uno spettacolo molto pesante e sicuramente noioso. Ed invece me ne sono pienamente ricreduto. Circa due ore sono volate pendendo dalle labbra di Saverio La Ruina, che impersonava questo personaggio femminile di un paesino meridionale, di quelli dove le tradizioni l’hanno vinta su tutto. Di quei paesi dove le donne venivano, e a volte ancora oggi vengono trattate come pezze. Ci mette di fronte ad una donna che riesce a farsi perdonare del suo atto anche da Gesù e tutto il paradiso unito. La storia, direi straziante, di una vita che tanto vita poi non è. La Ruina ha deciso di usare il dialetto di questo paese, scelta sicuramente coraggiosa, visto che rischiava di non farsi sempre capire. Infatti credo che di tanto in tanto qualche pezzettino me lo sono perso, ma forse se non fosse stato così, non avrebbe avuto lo stesso impatto. Insomma, uno spettacolo che mette a dura prova anche i caratteri più duri. Assolutamente da vedere.
L’associazione Usciamo dal Silenzio e il Teatro Franco Parenti in collaborazione con Scena Verticale presentano il progetto Un diverso parlarsi tra uomini e donne, due spettacoli e un dibattito sulle relazioni tra i generi a partire dal teatro di Saverio La Ruina. Il teatro di Saverio La Ruina, uno dei protagonisti della nuova scena italiana, è l’emozionante testimonianza di un autore-attore capace di raccontare le donne, di farsene interprete ma soprattutto di capirne i sentimenti e le sfide anche in contesti culturali e sociali difficili e ostili. […]
Usciamo dal silenzio e il Teatro Franco Parenti, danno vita al progetto “Un diverso parlarsi tra uomini e donne”, incentrato sul teatro di Saverio La Ruina, attore calabrese della compagnia Scena Verticale. In due intensi monologhi che il progetto presenta a Milano – Dissonorata e La Borto – La Ruina presta la voce a due straordinarie figure di donne, alle loro vite consegnate per destino alla legge dura degli uomini, ma anche alle strategie – di intelligenza e di ironia sottile – che rendono le loro esistenze, dolorose, difficili ma mai asservite.
[…] Vittoria è un personaggio delicato e fragile. […] Saverio La Ruina la disegna con pochi tratti essenziali non privi di leggerezza e di delicata ironia […] tratteggia gli episodi con una sensibilità e una partecipazione che non dipendono solo dalla sua consolidata professionalità: egli si gira con gesti misurati, privi di enfasi, intorno ai 180 gradi che le consente la postura in palcoscenico, lo fa pausando, quasi millimetrando i movimenti e formalizzando attraverso gli occhi e la bocca modalità di rassegnazione e di spavento, ma anche alla fine di determinazione e coraggio. […] Non è raro ascoltare pause e cambi di toni che contribuiscono a garantire un ritmo al racconto che non vuole essere gratuita denuncia o facile elegia di un’età trascorsa e irrepetibile: a volte c’è un ritorno sulle tematiche che stimola alla riflessione, quasi a voler richiamare lo spettatore alla drammaticità non spettacolare e catartica dell’evento. Una scelta interpretativa di grande effetto e di profonda risonanza emotiva. […] Saverio La Ruina ha descritto il tutto con olimpica compostezza, per cui i maschi diventano pupazzi e marionette manovrati da un inconscio collettivo ancora duro a morire: il tono è improntato per la circostanza a disincanto e divertimento. Quando alla fine Vittoria deve abortire, il performer sfodera l’arma migliore della sua recitazione: non tralascia nulla della crudezza dell’evento, ma non si vieta di elevare una garbata, ma decisa filippica contro chi vorrebbe relegare le decisioni sul corpo delle donne ad una fantomatica ed ingiustificata morale priva di ragioni e regole fondate sui fatti e sulle esperienze delle donne stesse. […]
[…] La Borto andò in scena per la prima volta nel 2009, vincendo due tra i più importanti premi italiani: il Premio Ubu per “migliore testo italiano” e il Premio Hystrio per la drammaturgia nel 2010. Una maglia intima di lana sottile, un pantalone scuro senza tempo e calze turchesi sotto gli zoccoli da donna di casa. Saverio La Ruina è Vittoria. Sola, seduta al centro del palco. Nata nel cuore della Calabria cosentina, Vittoria sogna Gesù circondato dai Dodici. Racconta a lui la sua vita, e confida a noi pubblico il racconto del racconto. Rigorosamente in dialetto cosentino, una marea sonora fatta di echi grecanici, intima e dura, così diversa dai dialetti geograficamente prossimi. La sua voce si accompagna alla colonna sonora originale di Gianfranco De Franco, anche lui sul palco, in fondo, di spalle, a suonare. Vittoria è maritata a forza, tredicenne, ad un infelice “sciancato” compaesano con più del doppio degli anni. Ne rimane incinta sette volte già prima di compiere i ventotto. Il sogno di Vittoria è crogiolo di fantasmi fatti del senso di colpa conculcato dalla società patriarcale. Forme notturne, introiettate, dello stigma impresso a fuoco dagli sguardi dei compaesani, o da quelli dei santi lungo la navata della chiesa. Riprovazione è anche nel volto di Gesù che in sogno le rinfaccia i peccati commessi. Anzi, “il” peccato: aver rifiutato l’ennesima gravidanza, ricorrendo come da antica e trista prassi alla “mammara”, al suo ferro da calza che, pungendo l’utero, dissangua il feto e la donna. Prima di lei, amiche e parenti ne sono state penetrate. Alcune, come spesso accadeva, perdendo la vita. Vittoria descrive a Gesù la discesa verso la piazza del paese: drappelli di paesani appostati lungo la strada, davanti ai bar, come in processione, una sorta di Via Crucis dove le frustate arrivano con l’immaterialità dolorosissima degli sguardi. Sono occhiate analitiche, che sbranano il corpo secondo un osservare che slega le parti dal tutto. Meccanismo che è propriamente quello della pornografia: de-umanizzare l’organicità del corpo. Chi conosce la vita di paese al sud, non ha bisogno di didascalie per ricostruire una scena quantomeno consuetudinaria. Ed è proprio quel senso di quotidianità che misura la profondità dell’Inferno. Quotidianità e automatismo che trattengono il paesaggio calabro allo stato ancestrale, ben lontano dai clangori del Progresso, ancora dominato da Natura, sia pure spesso sotto nomi di Santi e Madonne. Il progresso in Calabria arrivò poi stanco e trafelato, per parti, ritardatario. Persino dopo la famosa legge 194 sull’aborto. Ma nessuno, meridionale e non, avrà difficoltà ad attualizzare e globalizzare quegli sguardi, riconoscendosi vittima e carnefice, o entrambi. Il corpo di Vittoria sta, sulla scena, come ancora sotto il peso di quegli sguardi. Saverio La Ruina le dona la qualità miracolosa di una delicata femminilità, in grazia di un’interpretazione magistrale, totalmente diegetica. Il pathos narrativo è tutto nell’alternanza di compressione ed espansione intorno al baricentro contratto di Vittoria, l’equilibrio scenico viene calamitato intorno al luogo simbolo della deprivazione: il ventre, appunto. L’interpretazione non espande mai i volumi sonori e visivi, con trattenuti gesti e parole che, ricadendo delicate in prossimità del corpo, rendono legittimo il microfonaggio, per trasportare più lontano l’intimità della voce. Si lavora per sottrazione, così come lavora tragicamente la vita di Vittoria e di chi ne condivide le vicende: raschiando, risucchiando, lacerando. Figure del dolore oltre le quali la denuncia sociale appare chiara, ma sia pure implicita e scevra di retorica polemica. La natura di scandalo dell’essere-donna è così profondamente adesa al personaggio da divenire consustanziale al suo Essere. Il suo apparire stesso diventa segno vivente della contraddizione nel sistema patriarcale e nel suo meccanismo procreativo. Ecco la perfezione dell’opera: spingere i termini della tragedia verso il fondo dell’anima, lontano dall’esplicito della narrazione, dove invece si libra un personaggio non convenzionale, unico, concreto e lirico. Che abbraccia fatalisticamente la sua condizione (si tratta di un fatalismo che è anche dato antropologico e culturale). L’evento dell’aborto entra così a fondo nell’identità di Vittoria da farsi nome: “La Borto”, appunto, come da titolo. Una maledizione che consente a La Ruina di tratteggiare in Vittoria riflessi mariani. Ella, infatti, sta, come appunto la Mater: una piccola sedia-trono è tutta la scenografia, come in un’icona. Nello stesso registro simbolico, i gesti di Vittoria descrivono una liturgia ieratica di lente torsioni del capo, mani che stanno compite sulle gambe, sospiri. Il tutto stemperato da vernacolare dose di sottile e saggia ironia. Ma dove la Vergine compivasi nell’assenso a farsi gravida, Vittoria si compie nel rifiuto. E quasi che Gesù appaia in sogno a chiedere conto di quel “no”, Vittoria risponde a lui e a se stessa operando un ribaltamento. Nella sua confessione il dolore della Croce sembra infine un nulla in confronto a quello, più semplice, meno decantato, dell’essere donna nella Calabria senza tempo.
Saverio La Ruina è il drammaturgo vivente più immenso nel saper regalare alla platea colpi allo stomaco talmente profondi capaci di restare addosso per anni. Il suo teatro, semplice, racchiude nelle sue “storie” personaggi di una delicatezza inarrivabile, donne del sud arrese ai propri destini fatti di tragedie. Donne finite, abusate, calpestate. Vive, però, nella potenza rappresentativa del teatro. In Dissonorata (Premio UBU 2007 “Migliore attore italiano”, Premio UBU 2007 “Migliore testo italiano”, Premio Hystrio alla Drammaturgia 2010, Premio ETI – Gli Olimpici del Teatro 2007 – Nomination “Migliore interprete di monologo”, Premio Ugo Betti per la drammaturgia 2008 – “Segnalazione speciale” e Premio G. Matteotti 2007 – “Segnalazione della commissione”) la protagonista (Pascalina) è una donna del Sud che racconta la trasfigurazione di un amore in un incubo: la donna “rotta” da quello che tutti chiamano affetto subisce la violenza della propria famiglia, il suo onore macchiato dal sesso viene condannato con l’ustione del volto. Una cattiveria senza giustificazioni, una legge mai scritta per punire la libertà. Il racconto di La Ruina disegna l’innocenza della donna e le sue parole sembrano una ballata, soave, fino al momento crudele della sottomissione senza possibilità di difendersi. Dissonorata è un capolavoro, un manifesto indiscusso alla salvaguardia della libertà femminile. Le strofe della recitazione di Saverio La Ruina sono abilmente guidate dai fiati musicali del maestro Gianfranco De Franco, colonna sonora perfetta per accarezzare la vita sottile della povera protagonista.
Il monologo La Borto (Premio Ubu come Migliore testo italiano e Premio Hystrio per la Drammaturgia) è (cronologicamente) il secondo fortunatissimo esperimento sul tema, in questo racconto La Ruina, sempre nel suo dialetto calabrese melodioso e carico di gerghi radicati a rendere vive le immagini raccontate, ci presenta Vittoria, una donna data in sposa a 13 anni ad un uomo brutto che non ama da cui ha già avuto sette figli. Il meccanismo del parto non voluto e reiterato viene narrato con il solito melodioso contraltare musicale (Gianfranco De Franco, di spalle, non spia la vicenda, si limita a colorarla di note) finché la tragedia (l’aborto) appare raccontata con tanta crudezza quanta incoscienza possa concepire una mente dilaniata dalla sofferenza. Ferri arrugginiti e nessun antibiotico, il ventre della donna è ancora una volta violato, non più dalla carne ma dalla rudezza di un’altra donna che “raschia” via il feto. La donna ancora una volta vittima della società maschile rinuncia a se stessa, esprime la libertà e ne paga le conseguenze atroci. Il monologo assume livelli onirici quando la protagonista sogna un dialogo con un Cristo silenzioso che non da nessuna risposta. Le lacrime cascano nello stesso momento in cui si ride. Polvere (Premio Lo Straniero 2015, Premio Enriquez 2015 alla Drammaturgia, Premio Enriquez 2015 Miglior Attore, Premio Annibale Ruccello 2015 alla drammaturgia) non appartiene alla trilogia dei monologhi (con Italianesi, Premio Ubu come Migliore attore per l’interpretazione) di cui fanno parte Dissonorata e La Borto. In questo spettacolo La Ruina non è da solo in scena: si sveste dai panni “femminili” delle sue eroine del sud e smaschera il suo teatro anche di quel dialetto calabrese irrobustito e conclamato nella prova attoriale di Italianesi. In Polvere, La Ruina sceglie di mostrare la donna in carne, ossa e corpo (bravissima Cecilia Foti, al suo fianco) e lui disegna per sé il ruolo del Maschio. Un maschio che morde, con le parole e con le invasioni gelose da Otello del sud, la vita della sua compagna, condannata a dover subire le continue superbie paranoiche dell’uomo. Una storia, apparentemente d’amore, che si sbriciola sotto ai colpi violenti delle parole, una forma di violenza ben più nociva di quella fisica: uomo e donna racchiusi nel rettangolo amoroso di una casa-prigione si annientano a vicenda, o meglio, lui annienta lei supponendo e investigando ogni dettaglio della sua vita passata. La coppia si cela, rattrappita e ingabbiata, sotto al manto polveroso della diffidenza: uomo reo e donna succube. Antipasto crudele, nella visione di La Ruina, del culmine di tante tragedie di cronaca nera in cui spesso la donna, spenta e impolverata, subisce addirittura l’omicidio. Troppo pochi i Premi ricevuti per commisurare la potenza interpretativa, drammaturgica e sociale di questi splendori del Teatro Italiano. Saverio La Ruina è e sarà indiscutibilmente uno dei Maestri e dei vanti della nostra Italia nelle epoche a venire. Complimenti al Teatro Quarticciolo, che ha innescato questa trilogia sul “femminicidio” nel periodo della ricorrenza della giornata a ricordo di tutte le donne (repliche il 22, 23 e 24 novembre) violate dal sopruso maschilista, familiarista o sociale.
[…] La Ruina, come in “Dissonorata” interpreta il macrocosmo femminile con straordinaria sensibilità. La sua tecnica è impeccabile, l’interazione con i paganti prepotente, l’utilizzo vocale da emozioni forti. Il dialetto utilizzato per la stesura testuale ha le inflessioni mimiche tipiche della gestualità del parlato. La parvenza scenica, sulla parola e l’espressione, ha un effetto immediato, devastante, suscitante stati d’animo prepotenti e subitanei. Il coinvolgimento è totale, gli spettatori rapiti per tutto il tempo. […] Si rivela costante il rapporto con l’humus del territorio calabrese nell’intreccio come nell’impianto scenico. Il cuore pulsante dello spettacolo è da cercare proprio in questo aspetto. Il guardare, tramite la scena, una realtà che ci appartiene e per questo appassiona, indigna, commuove. Una realtà che tocca le corde più profonde dell’intimo perché non sconosciuta, raccontata ripercorrendo il tragico destino di una donna assoggettata alla legge degli uomini della quale il flusso di parole è capace di ammaliare, di tenere in ascolto all’infinito. Alla fine, applausi scroscianti per un’ora e mezza di magia.
[…] Lo spettacolo di Saverio La Ruina, da lui scritto e interpretato, è semplice, essenziale ma ricco di immagini evocate. Il messaggio filtra, arriva puntuale, oltrepassando lo sconforto iniziale di una comprensione che rischiava di essere oltraggiata dal dialetto stretto. Al contrario il codice linguistico estraneo a gran parte del pubblico, passa dalle reti un’esegesi divenuta spontanea, alla fine naturale. In una delle piccole sale del Teatro India, questo monologo è cadenzato da una musica educata, non protagonista ma solo ectoplasma visibile di stati d’animo nascosti. Forte, veritiero e mai retorico “La Borto” porta a riflettere senza voler dare nessuna lezione, solo lasciando parlare una donna, una storia.
[…] Un coraggio e un talento straordinari […] Non a caso Saverio La Ruina è balzato agli onori della critica nazionale, che lo ha eletto tra gli indimenticabili. E lo è veramente, in quel suo sussulto umano, toccante e assoluto, con cui dà voce al Sud. Per la seconda volta la dimensione femminile, si trasforma in un percorso di vita che trova rifugio in un monologo pulito, asciutto. Ci si avvale di una scenografia semplice: musiche dell’anima composte dal vivo da Gianfranco De Franco, il dialetto pietroso e intenso di una Calabria anni settanta […] Vittoria è una figura sobria e potente, ma ciò che colpisce è la tenerezza infinita di una donna / simbolo, vigorosa come solo sanno essere le femmine dell’entroterra calabrese e che Saverio La Ruina mette in scena attraverso una mimica antica, composta e sofisticata. […] Svergognare gli uomini e la loro innata superficialità, è ben poca cosa di fronte allo scacco matto che La Ruina intende dare al pregiudizio. Ancora oggi il preconcetto antiabortista gira indisturbato nei consultori, negli ospedali, nelle associazioni. Il racconto si chiude infatti con la visione della nipote che sembra ricalcare il dramma della nonna. Il verdetto, oggi come allora, quando la legge sull’aborto legale era un’utopia, è uguale all’arroganza degli oppressori: “assassina, arrangiati”.
Le mani accennano piccoli gesti, oppure riposano, stanche, in grembo. La figura è seduta, composta, i piedi nelle pantofole, un paio di calzette colorate a riscaldarli. E la voce, densa e antica, talvolta quasi un sussurro, racconta e incatena. C’era una volta Vittoria, c’erano tante Vittorie in quel paese della Calabria che parla un dialetto aspro ma che, a tratti, scintilla d’ironia gentile, lingua severa che sa ben dire o lasciare intuire l’intimo delle madri, l’intimo delle donne e insieme la vita che scorre con i suoi codici ferrei e i suoi riti immutabili. C’era una volta Vittoria e ha raccontato nientemeno che a Gesù e agli apostoli la propria storia. […] “La borto”, monologo passato di recente e assai applaudito al Crt di Milano, potrebbe essere “solo” la storia di un aborto […] E invece l’aborto per il quale Vittoria viene in principio rimproverata da Gesù è l’apice drammatico della sua vita quanto dello spettacolo, ma resta legato in maniera ferrea al suo prima e al suo dopo, a dire quanto poco senso abbia parlarne senza guardare alle vite, alle scelte, ai corpi, alle emozioni. […] Si ride, si piange, si sta con infinita pena e altrettanta empatia dalla parte di Vittoria, ascoltando Saverio La Ruina illuminare questa vita del margine, sottoposta allo sguardo e alla legge dei maschi ma che, nella sottomissione, non trova soltanto la risorsa della pazienza ma anche la lucidità del giudizio. […] La Ruina aveva già sperimentato il monologo nel premiato e bellissimo “Dissonorata” e nuovamente solo in scena si ripropone in “La borto”: il suo saper trovare dentro di sè toni, gesti e misure di quest’anima femminile restituisce amplificata l’intensità di questo lavoro, oltre a far balenare una possibilità, che va oltre il teatro e che sembra assai preziosa, di un guardarsi di qualità differente tra donne e uomini.
[…] È uno spettacolo crudo, che ferisce, che commuove, che risveglia i sentimenti primordiali di una Calabria retrograda, ignorante, crudele. Aspra. Una Calabria non così lontana nel tempo. […] Lo spettacolo è un pugno in pieno stomaco. Il risultato è magnifico. La Ruina è magnifico.
Ti inchioda alla sedia, l’interpretazione di La Ruina. Per un’ora e un quarto gli occhi dello spettatore non si spostano dal centro della scena occupata, interamente, dall’attore calabrese. […] Una bella pagina di teatro che si è conclusa, poi, con un lungo applauso del pubblico segno, questo, di un gradimento reale per uno spettacolo carico di intensità e trasporto.
[…] Saverio La Ruina, di una capacità interpretativa strepitosa, ci racconta la misera vita di tante donne di un paesino in provincia di Cosenza. Usa toni sarcastici e ironici, realistici e intrisi di amarezza. […] Lo fa con ironia, quando ci racconta dei geometri del circolo dell’unione che con sguardi marpioni commentano tutte le ragazze del paese. […] Il ritratto sarcastico lascia spazio alla commozione, a una profonda amarezza, accompagnata dagli strumenti a fiato di Gianfranco De Franco. […]
Niente politica, niente polemiche. L’aborto nelle parole sincere di una giovane donna del Sud, costretta a prendere una penosa decisione, dopo una vita di sofferenze. Una storia intima, personale e interamente femminile che solo lei, Vittoria, conosce e può raccontare. La femminilità pervade la scena, si insinua fra le parole, i suoni, i gesti; si fa prepotente e tinge di rosa anche il titolo, quella parola scomoda che non ha nessun motivo per essere maschile, e che qui diventa donna: La borto, […] Un monologo classico, di quelli con solamente una sedia di legno al centro del palco, di quelli che senza una solida tecnica e un’incisiva presenza scenica non puoi fare. Saverio La Ruina può. Non sbaglia nulla nell’interpretazione: è una donna senza fronzoli, senza vocina acuta, ancora molto maschile nell’aspetto, ma basta un gesto delicato con la mano per farcelo dimenticare. […] Il dialetto traccia i contorni di un mondo, l’interpretazione di La Ruina li riempie di colore. Toccante il testo, che soffre però di alcuni squilibri: la vicenda conclusiva, ad esempio, con protagonista una nipote di Vittoria portata ad abortire nella insensibile Milano, occupa pochi minuti e rimane più uno spunto di riflessione, che una conclusione ragionata. Ma La borto resta uno spettacolo da vedere: per riflettere, per commuoversi, per assistere meravigliati ad un’interpretazione garbata e soave.
[…] Vittoria/La Ruina ci racconta, anzi racconta a Gesù, con estremo candore e semplicità, la storia sua e delle altre donne del paese, storia di privazioni e di disperazione, storia di un sud retrogrado e maschilista dove l’unico destino delle donne è subire: il matrimonio, i figli, la propria femminilità, la menomazione del proprio corpo, tutto. Ma lo fa con un’impensabile ironia e consapevolezza, con il suo intercalare da tipica donnina meridionale […] La Ruina ci lascia sentire con estrema efficacia e umanità l’atmosfera opprimente e il dolore fisico e morale vissuti da queste donne […] il monologo inizia in punta di piedi per poi coinvolgere il pubblico con la sua drammatica leggerezza […]
[…] Con la tenerezza disarmante di sempre, la graziosa gestualità e la dolcezza di uno sguardo insieme intimo e dischiuso verso lo spettatore, Saverio La Ruina ritorna ad emozionare la platea romana del Teatro India con la prima nazionale assoluta de La Borto. […] la sonorità arcaica diventa un canto dal ritmo pacato e dalla musicalità poetica. Nenia incantevole che rende complice lo spettatore di questo monologo antico, ma vicino alla nostra realtà […]
Una rappresentazione attesa, preceduta da interessanti recensioni, a cui noi di MilanoWeb, che da questo Autunno cercheremo di offrire maggiore attenzione e maggiore spazio al teatro, non potevamo assolutamente mancare. E così siamo andati a vedere “La Borto”, al Teatro Parenti. E non siamo rimasti “sorpresi” nel trovare un bravo attore, capace di mantenere incollati a sè gli occhi e l’attenzione del pubblico, senza grandi scenografie e senza “particolari” movimenti scenici. […] Ma la vera bravura dell’attore si è evidenziata soprattutto nell’incredibile capacità, senza neanche l’ausilio del travestimento o del trucco, di interpretare un personaggio femminile, rappresentandone le sfumature più intime e personali, quelle che soltanto una donna potrebbe cogliere. […]
[…] Quanto trasporto e quanta emozione. I gesti, il volto e la voce di Saverio La Ruina, fanno di ‘La borto’ un colpo al cuore. Un bel pugno allo stomaco per lo spettatore, specie se di sesso maschile, che, davanti alla sua storia si trova quasi a vergognarsi del proprio genere […] Settantacinque minuti tutti d’un fiato, dove si sorride, certo, ma in modo amaro e disincantato, per illudersi, forse, che quelli narrati erano altri tempi, come se i femminicidi e le violenze non fossero ordinari nella cronaca dei nostri giorni. Saverio La Ruina è immenso nel disegnare una figura arrendevole e triste, ma ricca di dignità e coraggio. […] Da segnalare il commento sonoro di Gianfranco De Franco, che accompagnando La Ruina sul palco, di schiena, ha prodotto un tappeto sonoro che ha dato il giusto contributo alla storia, ricca di pathos, intensa e che lascia tanta amarezza e rabbia nello spettatore.
[…] La Ruina, nel duro ma comprensibile dialetto dell’alta Calabria riesce a coinvolgere e quasi ad ipnotizzare lo spettatore. Sul palcoscenico irrompe con forza lo struggente lamento di un Ecce Homo al femminile. Attraverso un linguaggio incisivo e comunicativo La Ruina entra con l’anima nel mondo femminile pur mantenendo la propria identità maschile.[…] E ci sono ironia e dolcezza non rassegnata, caratteristiche fondamentali delle donne meridjonali soprattutto di area rurale, anche in piccoli sussurri e lamentazioni appena accennate dal bravissimo attore La Ruina. E cosa dire dei profondi sospiri dell’attore che esprimono con tragica e reale potenza la sofferenza femminile? Una serata di com-passione e di intensa partecipazione per lo spettatore […]
Dopo Dissonorata, un nuovo lavoro di Saverio La Ruina, La Borto, porta in scena Vittoria, un’altra donna del profondissimo Sud. Donne che l’autore/interprete conosce e capisce fino in fondo e ci restituisce sulla scena con una verità ed una partecipazione che le rendono, nel loro talvolta crudo realismo, estremamente poetiche. Il tono è pacato, persino dimesso, a volte ironico. Eppure l’argomento è drammatico, addirittura tragico e di quella tragedia nulla è risparmiato allo spettatore che di quel dolore si sente investito, da quella lacerazione si sente commosso. Coraggioso come le sue donne è Saverio La Ruina nella sua denuncia, così come è coraggioso nel portare in giro per l’Italia il dialetto di un paese della Calabria sconosciuto ai più. Eppure quel dialetto si capisce e coinvolge anche chi calabrese non è. Peccato solo che chi non ha sentito parlare quelle donne del popolo non possa apprezzare quale perfetta corrispondenza ci sia tra i loro gesti, le loro intonazioni, i loro modi di dire e quelli dell’attore che le interpreta, che ce le restituisce vere ed autentiche fino al punto che ci dimentichiamo assolutamente che sia un uomo a parlare e al suo posto vediamo, sentiamo Vittoria e tutto il coro delle Rosine, zi’ Ncicche, Lucie e Silvane che con lei entrano in scena.
[…] La Ruina rappresenta il nuovo volto della drammaturgia italiana, e lo si intuisce non soltanto leggendo il suo curriculum che lo vede pregiarsi del premio UBU […] La Ruina preferisce sussurrare le parole, appendendole sopra un filo fatto esclusivamente di empatia, stato d’animo che, magistralmente crea col pubblico fin dalle prime battute. […] Di maschile, l’interprete appoggia su di sé soltanto il timore di diventare una sorta di caricatura, rischio evitato dal filtro che l’attore straordinariamente sa mettere da parte, ospitando dentro le sue ossa un percorso di dolore che è vivo aldilà del sesso e del genere, e che riesce ad assorbire come una spugna; per poi, generosamente diremmo, spremerlo tra le mani aperte degli spettatori.
[…] Saverio La Ruina è una donna. Straordinario nel raccontare in dialetto, ad un pubblico romano, la vita difficile di una donna calabrese. […] Non credo affatto sia complicato da seguire per chi viene dal centro nord. Si perde qualche parola, ma i momenti più importanti diventano comprensibili per ogni componente del pubblico. E’ commovente come le parole di una donna semplice, giovane e sicuramente anche inesperta siano riuscite a centrare le sfumature di un avvenimento così importante, così profondamente toccante in una vita. […]
[…] Appeso tra la totale idealizzazione del suo desiderio e la realtà amara di un’esistenza non libera, La Ruina (doppio Premio Ubu 2007 con “Dissonorata”) denuncia la schiavitù della donna nel proprio corpo/oggetto di riproduzione, esercitata dal maschilismo del suo ambiente sociale. Tanti piccoli fatti emergono in un fiume in piena di ricordi, resi necessari e piacevoli dalla graziosa gestualità e dalla dolce mimica facciale del suo interprete. […] il conflitto innescato dalla duplicità sessuale del protagonista: maschio l’attore-autore e femmina il personaggio, che ci conduce ad una comprensione di una realtà che fa riflettere su come gli uomini arrivino sempre dopo le donne.
[…] Un monologo drammatico, che ha fatto apparire agli occhi dell’attonito pubblico, come un grande illusionista, forte solo delle sue parole, piazze quasi deserte, facce di mezzi uomini all’angolo di un bar, bravi a dar giudizi sommari, bravi a scrutare, indagare soppesare tutte le donne che passavano nel loro raggio d’azione. […] Scorrevano veloci le facce dei protagonisti, ma sul palco c’era solo lui un gigante dell’arte che come mai nessuno aveva fatto ci ha parlato di un tema che ancora divide la gente. […]