Lo Psicopompo
Un uomo e una donna, chiusi in casa, si confrontano sulla morte, sul desiderio di morte. Sia in maniera teorica che come fatto concreto. I due non sono estranei ma una coppia, un certo tipo di coppia, unita da un rapporto importante, intimo. Lui è un infermiere che, in maniera clandestina, aiuta malati terminali nel suicidio assistito e lei è una professoressa in pensione. Il dialogo si dipana in una dialettica serrata ma placida, come una nevicata, anche intorno a riflessioni sulla musica classica, presenza costante nelle loro vite. I due, con i loro rapporti interpersonali complicati, già minati da una sciagura del passato che fa da sfondo alle loro vite, si troveranno ad essere testimoni del mistero della morte e a contemplare l’abisso.
NOTE CONFUSE
Sulla Morte
Albert Camus diceva che giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.
Ci sono persone che implorano misericordiosamente che venga posta fine alle loro esistenze minate dalla malattia, e ormai la “società civile”, in tutta coscienza, accoglie e accetta questo grido di aiuto che proviene da chi, tra mille dolori atroci, vive attaccato a delle macchine e non ne può più di un’esistenza senza speranza. Questo avviene anche in Italia, dove il pensiero comune è un passo avanti alla legislazione vigente.
Ma è la stessa cosa se il desiderio di porre fine ai propri giorni è espresso da chi è affetto da patologie psicologiche? Le patologie cliniche e quelle psicologiche hanno gli stessi diritti ai nostri occhi? Mi si dirà che le malattie appunto chiamate terminali portano alla morte, spesso tra grandi dolori e svilimento della dignità della vita, mentre i cosiddetti dolori dell’anima no. Ma i dolori dell’anima sono meno atroci di quelli fisici? E non sviliscono altrettanto la vita? In questo secondo caso, a chi la pensa in maniera diversa dalla mia, verrà facile parlare di suicidio o, in termini giuridici, di omicidio del consenziente. Può darsi. Ne Lo psicopompo si parla di volontà di morire, quindi di suicidio, anzi, più precisamente di eutanasia attiva, visto che la protagonista non compie da sola l’atto finale di togliersi la vita ma lo delega a soggetti terzi.
Il suicidio, nella percezione comune, rimane lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile. Il diritto lo ha giudicato per molto tempo un reato, la religione lo considera peccato, condannandolo come atto di apostasia; la società lo rifiuta, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la follia, quasi fosse l’aberrazione antisociale per eccellenza.
Io penso che il suicidio è semplicemente un metodo mediante il quale possiamo trasformare il morire da una casualità ad una scelta. Come ogni atto che compiamo nella vita, l’atto che vi pone fine non riguarda la medicina, mentre riguarda moltissimo l’anima.
Come dice James Hillman anziché spiegare il desiderio di morire liquidandolo, chiediamo di comprenderlo un po’ meglio.
“Morto” è un sostantivo nonché un aggettivo che si forma dal participio passato del verbo “morire”. Il participio passato indica una cosa già avvenuta, terminata; come se fosse l’argine all’interno del quale viene contenuto un verbo all’infinito per circoscriverlo, imprigionarlo. La parola morto, dunque, contiene il morire ma lo circoscrive, ne arresta il fluire. Se il morire è qualcosa che non si può neppure descrivere come esperienza, non si lascia pensare, è un trauma che non si può percepire, come diceva Christopher Burney significa vivere ma col segno meno ad infinitum, allora la parola morto è quella a cui ricorriamo per pensare l’impensabile. L’escamotage necessario al quale ricorriamo per rendere tollerabile quello che è insostenibile.
Mi rendo conto che il mio agire teatrale è mosso da questa ossessione: dare forma concreta all’impensabile della morte. La messinscena come quel complesso di operazioni che fa comparire la morte.
Io ho scelto di dire quello che avevo da dire, nella consapevolezza che è una follia. L’umana fragilità, e la mia personale, pone limiti insormontabili al mio operato. Chiedo fin da subito venia a tutti e invito tutti a tener conto di una semplice considerazione: se vogliamo poter sopportare la vita, disponiamoci ad accettare la morte.
Sulla Musica
La trama della pièce si intreccia a delle digressioni ecfrastiche intorno a dei brani di musica classica che, oltre a scandire il tempo della rappresentazione, aprono squarci di riflessione sul potere della musica sulla vita dell’uomo.
La musica colta è stata ed è la colonna sonora della famiglia raccontata nel testo e nella pièce due brani hanno una grossa importanza: il Così parlo Zarathustra (1896) di Richard Strauss e Music for airports (1978) di Brian Eno.
L’opera di Strauss è un poema sinfonico che allude, come tutte le opere sinfoniche, ad uno scritto letterario sul quale modella il suo percorso. In questo caso il testo di riferimento è l’omonima opera filosofica di Nietzsche. Il filosofo tedesco si pone l’obiettivo di analizzare il rapporto dell’Uomo con il Cosmo, la sua posizione nell’esistenza. Nietzsche ci enumera le varie reazioni dell’uomo davanti l’universo: il terrore, lo smarrimento, il rifugio nel conforto della religione, la razionalità, fino all’emergere del Super-Uomo e allo stato di coscienza di sé.
Nell’opera l’introduzione, che dura poco più di un minuto, oltre che essere uno degli incipit più conosciuti, se non il più conosciuto, nella musica classica, è un inizio a dir poco folgorante. Esso si stampa nella memoria uditiva per sempre. Quest’introduzione è l’erompere della forza della Natura, è il monito del Cosmo sull’uomo. Eppure Strauss rinuncia a questo inizio per tutti i restanti trenta minuti di opera sinfonica; questo inizio non tornerà più. Perché? Siamo sicuri che Strauss affermi la stessa cosa di Nietzsche? Cioè: siamo sicuri che la sua musica incarni il dettato del filosofo o invece se ne discosta, andando addirittura a negarlo?
Alessandro Solbiati giunge ad una tesi che io ho trovato illuminante: Strauss era un compositore infinitamente bravo; lui nel suo poema sinfonico, dice Solbiati, afferma la sua verità che va al di là di Nietzsche: il Super-Uomo non regge il confronto con la potenza del Cosmo. L’uomo davanti alla Natura resta immobile, quasi annichilito davanti l’Abisso. Il vero uomo cosciente, per Strauss, accetta la sua inferiorità nei confronti della Natura.
Lo psicopompo ha la stessa struttura dell’opera che prende a modello: parte in maniera improvvisa, catapultandoci immediatamente nel dramma, per poi proseguire in maniera placida. La protagonista si è già interrogata sulla sua posizione nell’esistenza e ha preso la sua decisione. Come afferma Spinoza: << Quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione della vita >>. Ora la donna dovrà convincere il suo interlocutore – che per uno scherzo del destino è suo figlio – e rendere possibile l’esperienza che gli è negata altrove: l’esperienza della morte. Insieme accetteranno il mistero della morte e contempleranno l’abisso.
L’altro brano musicale viene invece scelto per “accompagnare” la scena e, più precisamente, tutto il finale dell’opera teatrale.
Music For Airports più che un disco è un trattato di musicologia, una sintesi definitiva di quella stagione di ricerche sonore avviata da Erik Satie nel 1888 con il brano Gymnopedies e proseguita negli anni 60 e 70 da pionieri come Terry Riley, Steve Reich e John Cage, oltre che dallo stesso Brian Eno. È solo con la pubblicazione della sua opera, infatti, che viene ufficialmente coniata l’espressione “ambient-music”: la musica come arredamento, gli ambienti come gigantesche scatole da riempire di suoni. La fine del concetto tradizionale di ascolto e la nascita di un nuovo genere di colonna sonora, studiata per accompagnare spazi, non immagini. Mutilata delle sue tradizionali strutture armoniche, la musica diviene nient’altro che parte di un ambiente – che sia la sala d’attesa di una stazione o il padiglione di un aeroporto – ne assorbe l’atmosfera e i rumori, tramutandosi in un sottofondo che non richiede più un ascolto accurato.
L’ambiente scelto da Brian Eno è dunque l’aeroporto, crocevia internazionale, punto d’arrivo e di partenza, luogo di incontri e di separazioni, di attese e di tensioni. L’obiettivo di Eno è infondere nei suoi frequentatori un senso di calma e di speranza, stemperandone progressivamente lo stress.
È questo il brano che il figlio consiglierà alla madre di ascoltare e sarà la musica che farà da sottofondo all’incontro, finalmente vero e profondo, tra madre e figlio e all’attesa e preparazione del loro ultimo viaggio.
La musica non si limita a fare da “tappezzeria” al luogo e da sottofondo al momento vissuto, ma contribuisce a definirne la percezione, fin quasi a confondersi con il luogo e il momento stesso. Tutto avviene eppure tutto è soffuso, incorporeo, rarefatto.
Claudio Fabretti dice che l’opera di Eno potrebbe proseguire all’infinito. Dietro le sue lente fluttuazioni, la sua calma ossessiva, i suoi schemi ipnotici, si cela una suspense maligna, l’attesa per un colpo di scena che pare non arrivare mai, ma che a ogni nuovo ascolto potrebbe sopraggiungere. Ma forse è proprio questo, il suo colpo di scena.
Attesa e suspense che ammantare anche il finale de Lo psicopompo che sembra aneli un colpo di scena e forse un sospirato happy end.
Dario De Luca
Premi e riconoscimenti
Il testo inedito è vincitore del Premio Sipario Centro Attori 2018
Hubert Westkemper vince il Premio Ubu 2019 nella categoria “Miglior Progetto Sonoro” e Milvia Marigliano riceve la nomination ai Premi Ubu 2019 nella categoria “Miglior Attrice”
Crediti
Scritto e diretto da Dario De Luca
Con Milvia Marigliano e Dario De Luca
Assistenza alla regia Gianluca Vetromilo
Spazio scenico e disegno luci Dario De Luca
Suono Hubert Westkemper
Luci e fonica Mario Giordano
Allestimento Vincenzo Parisi
Costumi e oggetti di scena Rita Zangari
Assistenza all’allestimento Rosy Parrotta
Organizzazione e amministrazione Tiziana Covello
Distribuzione Egilda Orrico
Produzione Scena Verticale
Anno di produzione 2019
Con il sostegno di Cosenza Cultura e di BoCs Art Residenze D’artista